La quarta stagione di House of Cards ha tenuto tutti incollati agli schermi. La scena finale del tredicesimo episodio è riuscita a trasmettere tutta la grandezza di Frank e Claire. Gli occhi fissi sulla decapitazione dell’ostaggio, quando tutti i presenti nascondevano le loro facce disgustate e colme di terrore, ha fatto emergere quel retrogusto che si sentiva sin dalla prima puntata della prima stagione. Due persone spietate che hanno il necessario bisogno di sostenersi l’un l’altra per far sì che i loro piani vengano realizzati alla perfezione, trovando nel fine una legittima giustificazione dei mezzi.
Tra le tante cose che si sono rincorse per il web – noi italiani ci abbiamo letteralmente sguazzato dentro – è la frase pronunciata dalla madre di Claire quando conosce l’affascinante Thomas Yates, scrittore che segue i due coinquilini della Casa Bianca dalla scorsa terza stagione. «Penso che tutto ciò che è venuto dopo John Cheever non valga la pena di essere letto.» Parole come queste non posso passare inosservate. Nessuna necessità di riempire il copione è stata privilegiata, escludendo così l’esistenza di dinamiche volute dal caso.
La produzione letteraria di John Cheever, affiancata alla sua biografia, è una delle ragioni per cui diversi scrittori contemporanei sono immersi da cima a fondo nella forma breve, contaminando il genere del racconto attraverso numerose particolarità che proprio dallo scrittore statunitense sono saltate fuori – stilisticamente parlando. Per questo motivo, trovare uno come Cheever annoverato da una madre texana che ha trascorso l’intera vita al fianco di uno degli uomini più ricchi dello Stato, non semina di certo il panico. Potremmo riprendere in mano un qualsiasi racconto dell’autore de Il nuotatore, o uno dei suoi romanzi, e comprendere come i suoi temi siano legati indivisibilmente ad una realtà che non è poi così lontana da quell’alta borghesia di cui Clare Underwood è figlia.
Il clima che lo stesso Cheever respirava dietro le quinte della sua vita fatta di perle e gemme che brillavano a chilometri di distanza, ha concesso la nascita di opere che continuano a indagare lo spettro dei ricchi americani che si aggira per le strade della grande metropoli di New York e dintorni. I demoni con cui essi combattono giorno dopo giorno, l’auto privarsi di un desiderio che a lungo andare presenterà il suo conto, facendo cascare gli animi lungo gli abissi delle dipendenze di cui siamo fatti. Cheever ha preso tutta la drammaticità che contraddistingueva la sua esistenza e l’ha spolpata come solo i grandi scrittori riescono a fare. Un prendersi gioco della debolezza fino a renderla innocua una volta distribuita nelle mani dei tanti avvoltoi che svolazzano intorno ai corpi putrefatti da una vita vissuta sotto il segno della sconfitta perpetua.
Perché una donna all’ultimo stadio della sua malattia decide di abbattere le convinzioni di uno scrittore di successo come Tom attraverso una tale affermazione? Davvero dopo Cheever non c’è più alcuna ragione valida per leggere tutto quello che è stato messo fuori dal resto degli scrittori? La frase, che ormai ricorre come uno dei meme più riusciti degli ultimi mesi, sa tanto di provocazione. Lo stesso Tom è uno scrittore che a sua volta cerca di provocare il Presidente e la First Lady pur di riuscire ad ottenere qualcosa che vada oltre il muro eretto dagli Underwood, e infatti sembra riuscirci – attraverso una serie di trappole da lui (o forse Frank) orchestrate.
L’ultimo romanzo di Cheever Falconer (Feltrinelli, traduzione di Ettore Capriolo) è una di quelle spine nel fianco di tutti quei moralisti che lo stesso scrittore non aveva mai smesso di prendere di mira con le sue provocazioni. La dipendenza da eroina del protagonista, la sua indiscutibile bisessualità e le caratteristiche di un penitenziario, mettono in scena quella che era la vita stessa dello scrittore. L’alcol, la bisessualità sempre nascosta e il suo senso di inadeguatezza hanno edificato una vera e propria prigione mentale, causando la successiva caduta verso gli inferi impersonati dalla società a cui si appartiene.
Un altro scrittore, Richard Yates – quello vero, questa volta – ha contribuito alla diffusione di una certa idea di realismo sporco, la stessa di cui faceva parte il nostro Cheever. Entrambi son riusciti a mettere mani alla realtà rapportandola nelle pagine scritte da loro senza ricorrere all’utilizzo di alcun artificio. La crudeltà degli eventi è la materia principale su cui si fondano le loro immense narrazioni, e che trova sfogo unicamente nelle loro opere. Romanzi e racconti, in questo caso, sono il megafono di un disagio da cui non è facile venir fuori – sopratutto se sei obbligato a ricoprire un ruolo in quel gioco perverso che sono le relazioni, indipendentemente dal loro genere. Cheever e Yates sono allora figure perfette nel loro lavoro. Hanno consentito a scorci di vita la capacità di prendere parola e percorrere le strade della narrativa con le proprie gambe.
Gli Underwood, e il falso Yates, ripropongono sugli schermi – Shakespeare a parte – gli stessi fattori, e le stesse caratteristiche, che scrittori come Cheever hanno descritto nelle loro pagine. Sorvolando sugli orpelli legati alla presidenza e snocciolando la questione, la materia su cui sembra fondarsi House of Cards è la stessa – e il sottotitolo “Gli intrighi del potere” lo dice benissimo. Alla base degli intrighi c’è una buona dose di instabilità dovuta al passato che si presenta puntualmente come un usuraio che va a riscuotere la sua tangente. Il passato che diviene materia su cui si sorreggono le mancanze di una vita e tutti i vuoti che ne conseguono. Il meme, questa volta, funziona perché, oltre al riferimento per uno scrittore di cui noi italiani abusiamo nelle nostre letture, riflette una realtà che dalle pagine dei suoi racconti e dei suoi romanzi è entrata di diritto in quelle degli abili sceneggiatori delle serie. Anche se non è avvenuto come nel caso di Un uomo a nudo (Frank Perry, 1968), il cameo di Cheever in House of Cards c’è e eccome, ma non si vede.
Ecco allora come quello che è passato ai più come un semplice meme è in realtà un omaggio dovuto, con tanto di madre sul letto di morte a fare da portavoce attraverso cui realizzarsi. Un meme che scuote più di ogni altra cosa perché è stato realizzato dal pubblico, ma incanalato nella strada del successo dalla produzione. In cuor suo, Cheever avrebbe consentito questo abuso della sua persona perché, in fondo, la particolarità attraverso cui concludeva le storie con qualcosa di buono – nella maggior parte dei casi – non può essere affatto dimenticata. Questa – la frase ormai celebre – è un’affermazione che serve a mostrare quanto sia importante la contaminazione di uno scrittore che ha inciso con il suo stile nell’immenso mondo qual è quello della narrativa in forma breve. Nonostante questo, nel caso degli Underwood, i giochi restano ancora aperti.