Il 1975, come tutti gli anni prima e dopo, è pieno di eventi più o meno importanti.
A Londra Malcolm McLaren crea i Sex Pistols per pubblicizzare il negozio di vestiario e accessori punk che ha aperto con Vivienne Westwood e, nel frattempo, Steve Harris mette su gli Iron Maiden, così.
In Italia, per tenere il passo, Wess e Dori Ghezzi vincono l’ultima edizione di Canzonissima con ‘Un corpo e un’anima’.
Poco dopo, Margaret Tatcher diventa leader del partito conservatore inglese e Bill Gates crea la Microsoft Corporation.
Nel mese di aprile, scoppia la guerra civile in Libano, mentre a luglio Marco Pannella viene arrestato per essersi fumato uno spinello durante una conferenza stampa (mi sembrava troppo divertente per non essere citato), la Fiat smette di produrre la Cinquecento e Peter Gabriel abbandona i Genesis.
Più tardi, i Pink Floyd pubblicano l’album Wish you were here e i Ramones ‘Blitzkrieg Bop’, il loro primo singolo.
A novembre, Pier Paolo Pasolini viene assassinato a Ostia e ‘Bohemian Rhapsody’ dei Queen si appropria della vetta di ogni classifica per le successive cinque settimane.
Il 13 dicembre dello stesso anno, Patti Smith incide Horses.
Nonostante il simil-almanacco appena stilato, è proprio di quest’ultimo disco che vorrei parlare.
Sono passati quarant’anni dalla sua pubblicazione, il 14 giugno scorso me lo sono goduto traccia per traccia live a Roma e tra ‘Gloria’ e ‘Break It Up’ mi sono chiesta cosa fosse successo fino a quel momento.
Ogni volta che ascolto Horses ho la netta sensazione che mi sia sfuggito qualcosa, come se non dicesse mai per intero ciò che ha da dire e rimandasse alcune parti del discorso al prossimo giro. In effetti, anche questo album è pieno di significato e di riferimenti, così come tutto quello che Patti Smith ha scritto. Dopotutto, prima ancora di essere cantante e musicista, la quasi settantenne (ma pur sempre in splendida forma) di Chicago è un’artista delle parole.
La sua carriera comincia infatti con dei flebili readings di suoi testi accompagnati da Lenny Kaye alla chitarra, grazie ai quali comincia a scaldare la voce e si prepara a lasciare, quasi involontariamente, una traccia significativa nel panorama culturale della sua epoca. Nella New York delirante del ventennio ’60-’80, la musica di Patti Smith si è innalzata dalle assi scricchiolanti dell'(ei fu) CBGB per arrivare ad essere amata ancora oggi.
Ciò che la rende una delle pietre miliari della storia musicale globale è senz’altro la sintesi tra sonorità e lyrics grazie alla quale si trova ad essere rappresentativa del suo tempo e comprensibile in un qualsiasi altro. Sono, quindi, i testi potenti e senza età, la musica punk prima che nascesse il punk, le performances che trasudano essenza rock senza tanti orpelli.
D’altra parte, Patti Smith ha sempre e solo voluto comunicare un messaggio, fregandosene di incastrarlo in espressioni preformate a comodità di un’etichetta o di un’altra. Sono certa che sia questo carattere della sua personalità a far sì che la sua musica e i suoi concerti, anche adesso, abbiano l’odore e il sapore di una cultura ampia e sincera, trasmessa da una voce ancora incredibilmente potente.
«Ah, here I stand again in this old ‘lectric whirlwind,
The sea rushes up my knees like flame
And I feel like just some misplaced Joan Of Arc
And the cause is you lookin’ up at me»
(Kimberly, Horses)