Lo chiamano l’Edgar Allan Poe del Sudamerica, ma c’è anche chi ha detto che Horacio Quiroga avrebbe potuto fare a meno di scrivere perché di Poe ne basta uno solo. Se il romanzo può contare su trame complesse, riempitivi di maniera, lunghi dialoghi, giochi di parole, intuizioni felici, dissertazioni, cambi di scena, viaggi emotivi al retrogusto di madeleine e filosofia, la difficoltà della narrativa breve e del racconto a volte è più feroce. Nella lunga e affascinante epifania del racconto il ritmo non va perduto, come nella poesia ogni parola deve essere quella giusta al momento giusto (lo ricordava Raymond Carver), e del resto senza questa dedizione folle e totalitaria alla parola tanto varrebbe trascorrere il tempo a tagliare arance a fette, spremerle e bere il risultato. Affondare in un racconto è estremamente complesso anche per il lettore, i tempi lunghi di affezione che ha il romanzo evaporano, difficile – per quanto affascinante – restare sospesi e allibiti di fronte alla ”tecnica” della parola. La parola soltanto. Nel XXI secolo in fondo siamo drogati di trame e storie, tanto che il centro della faccenda narrativa – la parola – è finito chissà dove. Ma niente panico, Quiroga riesce a fare un piccolo miracolo narrativo con i suoi racconti: se è vero che parliamo di uno scrittore per lettori che amano le parole, bisogna ammettere che anche trame e storie dei suoi racconti siano originalissime. Non è un caso che Cortázar lo amasse, e che Bolaño ricordasse: ”Bisogna leggere Quiroga”.
Già. Ma perché diavolo dovremmo leggere Horacio Quiroga? Perché non dovrebbero bastarci Poe e Checov? O – se proprio vogliamo riammodernarci un po’ – Cortázar? Perché affidarci al decalogo quiroghiano del perfecto cuentista?
Il pretesto di parlare di Horacio Quiroga ce lo ha dato la Einaudi che ha raccolto i suoi racconti in un’edizione tutta rossa dal titolo Tigre per sempre. Gli animali in Quiroga sono le spettacolari e onnipresenti incarnazioni della selva dove viveva, e da cui nasceranno i Cuentos de la selva. La Einaudi fa questo gioco: dividere il libro in due parti, tanto per far ambientare il lettore. Da un lato i racconti della selva, dall’altro quelli urbani, un crocevia di storie che attraversa Buenos Aires fino alla selvatica provincia di Misiones, terra argentina poco a nord dalla patria natale di Horacio, l’Uruguay. Tigre per sempre è una dichiarazione d’amore per lo spirito selvaggio che s’anima nel cuore di Quiroga. La tigre, come tutti gli animali della selva, acquista qualità quasi umane, ha una voce, un carattere e dei sentimenti, eppure la sua vita è una maledizione in cui l’alter-ego è l’uomo cattivo e armato, che diffida dagli animali, li usa, li ammazza, li imprigiona. La società civile sembra una gabbia feroce, in cui gli uomini dispongono degli animali a proprio piacimento, come se la razza umana fosse diversa da quella animale. In questa presunzione di intelligenza superiore della razza umana, il grido tigre per sempre diventa la disperata rivendicazione dello spirito selvaggio che latra e si sbatte sommessamente nel cuore dell’uomo. La società civile è una presa per i fondelli, sembra dirci Quiroga, c’è più verità nel cuore di una tigre.
In questo mondo da Libro nella giungla in cui gli animali parlano, si confrontano, s’ammazzano, e sono – a turno – in guerra e amore con l’uomo, a tratti si potrebbe pensare di star di fronte a storie per bambini. Ma Quiroga ci ricorda spesso che i bambini non capirebbero certe storie, e in effetti non è proprio Kipling quello che stiamo leggendo (del resto Kipling è il cantore dell’uomo bianco superiore), ma storie folli, schizoidi e violente. Talvolta sorprendenti. I serpenti appaiono all’improvviso nell’immaginario quiroghiano (lui era un collezionatore di pelli d’anaconda), si rivoltano e organizzano, e così pappagalli, insetti, galline strozzate, carcasse di cani schiacciati da zampate: c’è una certa geniale pazzia nella narrativa quiroghiana.
Ma Quiroga è molto di più di un sussurratore di favole violente, e micro-universi selvaggi. La cosa che mi sembra ossessionarlo di più è la morte, del resto la sua collezione di racconti più famosa si chiama Cuentos de Amor de Locura y de Muerte. La fatalità tremenda che avvolge la stessa biografia di Quiroga è costellata di morti, per esempio da giovane gli è partito un colpo di pistola per errore, che ha ammazzato un amico. Queste fatalità tragiche le ritroviamo nei bar ubriachi di Misiones, ed è proprio qui a Misiones, centro di una cittadina fantasma dove i personaggi sono connessi gli uni agli altri, in piccoli incontri di umanità e storie, che Quiroga inventa quel gioco di collegamenti che Cortázar svilupperà nella sua Rayuela. Il lettore è lo spettatore visionario di Misiones. Ma è questa atmosfera pregna di morte a legar tutti nel grande gioco del mondo di Quiroga: la vita è una scappatella in attesa di un matrimonio eterno con la morte.
Nella seconda parte quest’atmosfera si respira con più forza in racconti crudi come Il cuscino di piume, che si fissa nella memoria e non va più via. C’è del sarcasmo in Quiroga che ritroviamo anche nei suoi racconti più romantici, come Dieta d’amore (‘‘Amore e dieta? No col cavolo!’‘), richiami a Poe come ne Il ritratto, e trame originalissime come La sincope bianca o Una conquista. Ancora una volta la narrativa ci ricorda come i nostri sogni e fantasie siano realizzabili sulla carta. Per capire Quiroga bisogna aver passato un inferno di cent’anni nelle proprie teste. Io per ora sono intorno a quota 80, ma conto di comprenderlo completamente per la fine dell’anno.