Hooked, straight to my brain | Intervista a Luca Vecchi

Hooked è una black comedy indipendente interpretata, girata da Luca Vecchi e scritta in collaborazione con Qualcosa del Genere, che segue le avventure tragicomiche di Luca, Valerio e Anna alle prese con una vecchia rimbambita e una badante in coma farmacologico dopo un’abuso di sostanze non ben identificate (ma sicuramente tagliate male). Lo spaccato di una città e un paese che fugge nei suoi vizi ma che soprattutto emargina chi si trova al di fuori. I primi tre episodi sono stati lanciati su YouTube contemporaneamente alla campagna di crowdfunding su IndieGogo per finanziare il progetto. Ne abbiamo parlato con lui in un sabato afoso d’inizio giugno.

 

 

Partiamo dall’inizio, Hooked è una serie che ha a che fare con le sostanze stupefacenti, ma non solo. La traduzione della parola inglese ha altri significati oltre al legame alla dipendenza. Si tratta dell’essere esclusi da un determinato tessuto sociale e dei tentativi vani di farne parte.

Hooked è stato scelto per questo, non tanto perché calzasse in termini tossicologici ma per la profonda versatilità che implica la sua traduzione. Ha più significati di stasi e di emarginazione, è in grado di restituire una sensazione e un’emozione ma anche uno status sociale. È evidente alla fine del terzo episodio, quando persone molto diverse da loro si ritrovano all’interno dello stesso appartamento, costretti a convivere aspettando di spartirsi questo MacGuffin, il denaro nel bagno, senza sapere a chi appartiene. Ne hanno tutti, in qualche modo, paura, per quello che significa e per le conseguenze che può portare il furto di una somma del genere. Nella commedia italiana ultimamente c’è questo leitmotiv del criminale improvvisato che, paradossalmente, riesce a fare il lavoro meglio di chi lo fa per mestiere; eravamo un po’ stanchi  di questo stereotipo e abbiamo cercato di renderlo più reale. Non puoi rubare quella quantità di soldi senza che un giorno, presto o tardi, tu possa pagarne le conseguenze.

Molto spesso le droghe vengono percepite come acceleratori sociali, in grado di liberare da certe inibizioni e potenziare prestazioni, percezioni o, semplicemente, il modo di rapportarsi.

Ne ero convinto anche io, o almeno ero abituato a vederlo legato a un powerboost nelle differenti situazioni. Preparando un intervento al Wired Next Festival ho avuto la possibilità di entrare in contatto con una ragazza che fa la psichiatra a Boston, la Dottoressa Roberta Zanzonico, che mi ha spiegato di come, in realtà, la psicoterapia per curare la dipendenza cerca di capire all’inizio che cosa ti manca nella vita, prima di ragionare sui motivi che ti hanno portato ad una dipendenza. Un po’ come nell’esperimento del rat park, dove un topo viene messo da solo dentro una gabbia e sceglie l’acqua con gli stimolanti piuttosto che quella naturale. Se il topo viene messo in un ambiente con altre distrazioni, amici e interessi, sarà portato a scegliere invece quella naturale. C’è anche da dire che gli animali, non avendo memoria a lungo termine, fanno più fatica a diventare dipendenti rispetto a noi, che conserviamo il ricordo delle sensazioni piacevoli e tendiamo a cercare di riprodurle in maniera empirica. Come in Hooked si tratta di qualcosa legato alle mancanze, che siano del sonno, di relazioni interpersonali, ognuno ha la sua e cerca di sopperire cercando altre risposte. Le droghe sono, probabilmente, solo le risposte più immediate. O l’illusione di esse.

 

 

Parlando dei personaggi di Hooked e del loro legame a un certo tipo di realtà, quello di Anna è un profilo interessante, da sempre ligia al dovere e mai sopra le righe, improvvisamente decide di entrare in società con due tossici come Luca e Valerio. Mangia per non essere mangiato, in fondo.

Si tratta di un personaggio che ha avuto quei soldi sotto il naso per tutto il tempo e non ha mai avuto il coraggio di approfittarsene. Soltanto con l’arrivo di questi due disgraziati dentro la casa di una sua paziente trova il coraggio di diventare, a modo suo, un po’ più di polso. Senza la goccia che fa traboccare il vaso, senza l’arrivo di questi sconosciuti, forse, non avrebbe mai avuto il coraggio di farlo.

Ancora una volta quelle scintille a cui corrispondono risposte differenti a seconda della persona, ancora una volta un’esclusione e l’inevitabile reazione.

È un aspetto che accomuna un po’ tutti. Ce l’ha anche la vecchia che, in un certo senso, è stata rapita da se stessa e dal suo corpo. È schiava della sua dementia praecox, non capiamo se il disturbo della personalità che percepisce Valerio sia vero o meno, e non significa che non capisca o sia del tutto assente. Anche la badante, schiava del coma farmacologico, innesca più dinamiche rispetto ad altri personaggi attivi sulla scena. Ognuno a suo modo è un po’ hooked anche se non è strettamente dipendente dalla droga, lo è di qualche altra condizione.

Poi c’è Luca, che ha casini con gli spacciatori, ha abbandonato l’università per non si sa bene quale motivo, e Valerio, aka Faccia di merda, perverso e difficilmente comprensibile. Entrambi sono, a loro modo, emarginati e persi come tante altre storie di borgata, rappresentazioni di uno spaccato che fatica a essere descritto in un paese come il nostro.

Credo si tratti di dinamiche di mercato che ormai si sono consolidate, non ci si prende più la responsabilità di rischiare scegliendo delle produzioni un po’ più particolari o sperimentali. Questo non vuol dire che non abbiamo delle storie da raccontare o dei punti di vista interessanti attraverso cui farlo. Vedere la realtà filtrata attraverso gli occhi di due scoppiati deve essere un bel viaggio.

Il linguaggio di Hooked è una costante oscillazione fra black humor e situazioni tragicomiche, nozionismo e scene paradossali, per quale motivo avete scelto questo modo per parlare di dipendenze?

Abbiamo scelto di farlo sfruttando linguaggi diversi per far sì che fosse più variegato, per esigenze di produzione che l’hanno reso anche più insidioso da maneggiare per la distribuzione e, questo, è uno dei problemi per cui abbiamo preso la via della produzione indipendente su internet. Sfruttare, ad esempio, l’innesto del cartone animato nel terzo episodio o le soggettive ultra aberrate, rende la narrazione schizofrenica e la fa mutare a seconda della circostanza, saltando da un picco all’altro anche a seconda della sostanza che si assume. L’apparato nozionistico-informativo, per quanto riguarda la descrizione più scientifica, mi interessava molto visto che è un aspetto che manca nel nostro paese soprattutto attorno certe tematiche, che spesso vengono considerate tabù e vengono ricacciate o ignorate.

 

 

Guardando con attenzione gli episodi si comprende come il tono di Hooked sia in fondo più tetro di quanto si immagini. Si ride, e tanto, ma è come se, alla fine, un velo di tristezza avvolga tutto indistintamente, come fase down, dopo l’esaltazione l’inevitabile caduta.

C’è una malinconia voluta all’interno della sua comicità. Mi ha sempre intrigato questo tipo di comicità, quella di Francesco Nuti in Caruso Pascosky, per prendere un punto di riferimento, in cui si ride per tutto il tempo e poi alla fine ti prende una tristezza infinita. La filosofia è questo ridere per non piangere, quasi un palliativo per fuggire da una situazione spiacevole che, in fondo, non ti abbandona mai. Avrei voluto spingere ancora di più, in realtà, verso dei siparietti emotivi di questo tipo ma qualcosa non funzionava come volevamo.

Ci viene naturale avvicinare questo progetto ad alcune altre esperienze cinematografiche sulle sostanze come TrainspottingRequiem for a Dream.

Mi reputo figlio della MTV Generation. Una generazione cresciuta più dal linguaggio dei videoclip che dai propri genitori. I videoclip degli anni ’80/’90 hanno forse raggiunto il massimo della sperimentazione, arrivando a fondersi con registri, generi diversi. Animazione nipponica, registi di grande levatura, come Michel Gondry, Spike Jonze, Chris Cunningham. Fasti che sono oramai lontani e dei quali sento la mancanza. Oggi per vedere qualcosa di interessante devi andarti a pescare le nuove leve coreane come Bong Joon Oh, o Park Chan Wook. Che proprio pischelli non sono, ma che solo ora stanno esplodendo in occidente.

Hooked è uscito su YouTube, una piattaforma che poteva realmente trasformare l’entertaiment e la ricezione delle opere creative ma, guardandolo oggi, guardando ciò che finisce in tendenza, sembra proprio che stia accadendo il contrario. Non è tanto la creatività a essere in crisi ma il modo in cui viene trattata e, spesso, lasciata in disparte rispetto alla ripetizione costante di cose senza nessuna pretesa.

Le persone vogliono più modelli di business che creatività, se si sposano insieme è meglio ma, oggi come oggi, si preferisce l’investimento sicuro che trasgredisce il concetto stesso, perché un margine di rischio ci deve essere necessariamente. All’inizio YouTube l’ha fatto, essere selezionati per avere una partnership era, come dire, qualcosa di prestigioso. Con l’arrivo di Google è cambiato praticamente tutto, se carichi video del tuo gatto in slowmo, investendoci niente dal punto di vista visivo-contenutistico, e fai un sacco di visualizzazioni fatturi, ma non sei più seguito dalla piattaforma che, comunque, si prende gran parte di quello che guadagni. YouTube poteva diventare la nuova culla dell’intrattenimento ma non è stato così. In Italia non succedono cose tipo Netflix perché cos’abbiamo qui, Tutti Pazzi per Amore? (che comunque è una delle cose più visionarie degli ultimi tempi in forma di fiction). L’intrattenimento si sta indirizzando verso una direzione legata alla riproduzione e all’immersione nell’esperienza rispetto ad altre cose.  Forse il VR è realmente il futuro. Il pubblico vuole partecipare alla narrazione. Com’è giusto che sia, a questo punto. La simulazione.

Hooked può essere vissuto in questo modo? 

Mi viene in mente l’episodio Heroin Hero di South Park, dove ti dovevi fare le pere per prendere il drago ma poi non riesci mai a prenderlo. Non lo so, in realtà potrebbe essere istruttivo vivere con gli occhi di un tossicodipendente mentre fa il tragitto verso la comunità e tutto il resto. Sono dell’opinione che, prima o poi, ci saranno dei simulatori delle vite degli altri perché l’empatia sta diventando sempre più difficile da trasmettere agli altri. Un po’ come Louis CK quando dice che non vuole che le sue figlie crescano con gli smartphone perché quando dici a un ciccione che è un ciccione via messaggio non puoi vedere la sua faccia che diventa triste, non hai la possibilità di imparare l’empatia o di quanto possono far male le parole. La società testuale sta perdendo questa capacità. Forse un giorno nelle scuole ci saranno dei simulatori di empatia che ci daranno la possibilità di crescere anche in panni altrui. Allora saremo delle persone illuminate ed evoluzionisticamente superiori.

Lanciare un progetto di questo tipo con una campagna crowdfunding su Indiegogo, sembra un po’ un azzardo, in un paese che finanzia sempre meno chi è ‘fuori dal coro’ o, semplicemente, dai giri giusti. Ed è anche un passo importante, affidare in qualche modo un lavoro di più di un anno, forze, idee e sacrifici, nelle mani di persone senza volto che tendono a vivere ciò che vedono in maniera passiva.

È un rischio che siamo pronti a correre. Abbiamo deciso di produrre la prima serie democratica. Se la gente vorrà che andiamo avanti andremo avanti. Altrimenti si passerà ad altro. Pazienza.

Se ci si fa caso sembra esserci un legame sentimentale a Charles Bukowski, non solo per il titolo del primo episodio (La sirena scopareccia) che richiama a un suo racconto, per il tono generale o alcuni elementi in comune alla storia narrata. Avete lanciato una campagna di crowdfunding su Indiegogo per finanziare il progetto, poi la questione di YouTube e l’inevitabile paradosso che circonda chi scrive o cerca di fare produzioni artistiche in un momento in cui non sembra importare a nessuno. Vi sentite un po’ come lui che, nonostante tutto, non ha mai smesso di provarci?

Parecchio. Un po’ come Trainspotting ha differenti chiavi di lettura e se lo recuperi in età matura ha un significato e un significante molto diversi. Sono rimasto folgorato dal monologo di chiusura di Factotum, con Matt Dillon, dove hanno messo una sua poesia proprio alla fine. In questa Roll the Dice, Chinaski, racconta di come abbia perso tutto e non sa più cosa fare, rimane da solo a guardarsi la spogliarellista nel night con questo piano jazz in sottofondo che è un po’ la parabola della vita di Bukowski come scrittore e poeta. Dice che se ci vuoi provare, a fare qualcosa nella tua vita, di farlo veramente, altrimenti è meglio lasciar perdere e comincia a fare una lista lunghissima e straziante delle cose che potresti perdere nel tentativo di riuscirci. La testa, gli amici, le donne, la famiglia e tutto il resto ma, comunque vada, c’è sempre un tipo un di consacrazione, un lascito per gli altri, e il fatto che ci sia riuscito con la poesia lo rende vivo, in qualche modo. Tocca alcune corde, se non altro.

 

 

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