(Techno) Hardcore ‘Til I Die!

La Techno Hardcore è un genere derivato dalla musica Techno, la matrice dei migliori generi elettronici conosciuti. La sua caratteristica peculiare è la ritmica ossessiva, imperniata sull’utilizzo di una drum machine con un distorsore in grado di generare un’onda quadra con pitch decrescente. L’Hardcore primordiale (oggi definita “old-school”) si attestava in realtà su una velocità di poco più di 130 bpm ed era molto più lenta e morbida di quella attuale, che parte da circa 175 bpm, fino ad arrivare ad oltre 200 bpm. Ma al di là dei tecnicismi, è interessante osservare come la Techno Hardcore debba i suoi natali ad una coincidenza di fattori socio-culturali che, trovatisi a coesistere in un particolare momento storico, ne permisero sviluppo e ascesa.

 

Radici

Per poter comprendere l’emergere di questo mondo bisogna risalire agli anni ’70, periodo in cui iniziano a comparire segni di musica dance elettronica hard all’interno dell’industrial music. Gruppi come Throbbing Gristle, Cabaret Voltaire, SPK, Fetus, Coil e Einstürzende Neubauten producono sonorità servendosi di un’immensa gamma di strumenti elettronici. Il messaggio che diffondono è “provocative” nel doppio senso del termine: se da un lato esprime la denuncia di un disagio, dall’altro le sperimentazioni sonore esercitano fin da subito una malìa a cui è difficile sottrarsi, tanto che influenzeranno l’hardcore fin dall’inizio del movimento.

A metà degli anni ’80, sotto l’egida del gruppo belga Front 242, entra in scena la musica elettronica per il corpo (EBM), un nuovo genere più accessibile e più danzante, ispirato all’industriale e alla New Wave. Questo stile è caratterizzato da minimalismo, suoni freddi (a differenza di disco, funk o house) e ritmi potenti, generalmente combinati con vocals aggressivi e un’estetica vicina alla musica industriale, appunto, e al punk. Nel momento in cui l’EBM incontra il New Beat, un altro genere belga, e l’Acid House ecco la tavola apparecchiata: ci sono tutti gli ingredienti per l’arrivo dell’hardcore.

Il termine hardcore techno viene utilizzato per la prima volta da gruppi EBM come GRUMH …, Pankow e Leæther Strip alla fine degli anni ’80, sebbene la loro musica non abbia nulla a che vedere con l’hardcore in senso stretto. Il Sucking Energy (Hard Core Mix) dei GRUMH…, pubblicato nel 1985, è stato il primo brano a utilizzare il termine hardcore, all’interno di un contesto EBM.

 

Nascita

Giungiamo finalmente alla nascita vera e propria del genere, anche se è necessaria ancora una precisazione per dissipare un ultimo dubbio: esiste infatti una doppia teoria su dove sia stato piantato e abbia iniziato a crescere il germe Techno Hardcore. Alcuni asseriscono che ciò sia avvenuto in Germania, mentre altri sostengono che la patria sia l’Olanda. Ebbene, entrambi i punti di vista sono fondati, a patto che si specifichi di quale tipo di hardcore si stia parlando: nella terra dei tulipani è effettivamente nata quella che oggi è definita Main Style Hardcore, ovvero l’Hardcore “moderna”, mentre l’origine di tutto ciò che ha a che fare con l’Hardcore in senso ampio è indiscutibilmente la Germania.

Non a caso vi è unanime accordo nel considerare, come primo pezzo ascrivibile al genere, We Have Arrived: incisa nel 1989, la traccia è pubblicata solo l’anno successivo ad opera del produttore tedesco Marc Trauner, con il nome d’arte di Mescalinum United. Il dj-producer tedesco, nel frattempo, fonda -questa volta sotto lo pseudonimo Acardipane ed affiancato da un altro nome molto noto nella scena, Miroslav Pajic– l’etichetta Planet Core Productions, che produce in cinque anni qualcosa come 500 brani sul genere. Tra le altre cose, il gruppo PCP rende popolare, contribuendone alla diffusione, una forma di hardcore lenta, pesante, minimale e molto oscura che ora viene designata come Darkcore o Doomcore.

Il nuovo genere arriva invece in Olanda diffuso da piccole radio pirata che trasmettono i pochi pezzi disponibili in commercio: il primo disco Hardcore olandese, pubblicato dalla Rotterdam Records, arriva infatti solo nel 1992. L’album dal titolo “Amsterdam Waar Lech Dat Dan?” è attribuito agli Euromasters, gruppo composto da due volti importanti della scena Hardcore dutch: Paul Elstak e Rob Fabrie: il secondo, in particolare è considerato uno dei padri della Hardcore olandese ed è tuttora in attività. Altro lavoro degno di menzione pubblicato dalla Rotterdam Records è il disco Poing dei Rotterdam Termination Source, una delle prime hit-hardcore a livello europeo, contraddistinta da un effetto digitale di rimbalzo del tipo “boing”.

 

Sottogeneri:

La techno hardcore, fin dalla nascita, è stata probabilmente l’unico genere musicale di origine elettronica a creare un vero e proprio movimento culturale, al pari del punk o del metal, in sostanza una sorta di genere globale. Look, tendenze, atmosfere sature e soprattutto una forte vocazione per la sperimentazione hanno facilitato, in un breve lasso temporale, l’”imbastardimento” della matrice originaria, portando allo sviluppo di una sterminata varietà di sottogeneri. A ciascuno di questi corrisponde una precisa area geografica di genesi e crescita e uno specifico segmento di mercato dell’industria musicale dedicata:

Grafica di Maurizio Vaccariello

 

Hardcore e Rave

La musica Techno Hardcore e il fenomeno dei rave sono strettamente connessi, al punto da risultare se non imprescindibili l’uno dall’altro, quantomeno (estremamente) decisivi nel definire le componenti di un fenomeno di massa che si diffonde a macchia d’olio in gran parte d’Europa, a partire dal Regno Unito. E’ sostanzialmente una coincidenza temporale quella che permette alla nascita di un nuovo genere di trovare come vettore ideale di diffusione una cultura –quella raver appunto- che sta raggiungendo il suo apice tra la fine degli anni’80 e i primi anni ’90. Diversi sono i fattori che contribuiscono a questa “alleanza”: innanzitutto la tecnologia di campionamento sta diventando economica a sufficienza da risultare accessibile ai dj che vogliano mettersi a fare musica in proprio. In secondo luogo, la musica hip-hop e il suo mixaggio stanno avendo un fortissimo impatto sulla cultura popolare britannica, coinvolgendo interi strati della popolazione giovanile, e, anche se in qualche caso alcuni club iniziano a proporre il nuovo genere, la maggior parte dei dj sceglie volontariamente di esibirsi davanti a migliaia di persone, durante eventi –spesso illegali- in luoghi all’aperto. Terzo, ma non meno importante, elemento è dato dalla circolazione in quantità massive di ectasy che spopola in queste location open-air: l’indotto bisogno di muoversi e sfogare quest’energia artificiale, porta ad una richiesta di ritmi sempre più veloci e di sonorità dal timbro euforico. Inoltre, come accennato, i primi dj hardcore di matrice UK possiedono un background radicato nell’hip-pop, il chè significa uno stile di mixaggio che prevede una rapida dissolvenza incrociata, con salti repentini tra un disco e l’altro e manipolazioni di scratch e spinback vorticose ed ossessive. Insomma, vi sono le condizioni ottimali affinchè la Techno Hardcore possa abbracciare ed essere a sua volta abbracciata dal pubblico raver.

Dalla scena belga e da quella tedesca giunge, per la prima volta, il sentimento Techno, che va ad aggiungersi –ingrediente fondamentale- al fertile ambiente del Regno Unito, così ricettivo agli stimoli esterni: c’è qualcosa nell’aria dell’europa nordoccidentale tra il gotico e l’industriale, un suono percussivo, cupo, aspro, che inizia a propagarsi come una nube. In un’esperienza che non ha precedenti, una forma dance programmaticamente aggressiva, fatta da bassi che sembrano pugni, suoni ruvidi e laceranti, si concretizza in uno schema che segue in fondo regole semplici: la violenza sonorizzata dell’Hardcore richiede solo note sporche, velocità ed ultrabassi. Un cuore che pulsa oltra la tachicardia unito al culto del basso estremo, fin sotto la soglia della percezione. Un gruppo ultra Hardcore australiano si darà un nome significativo, in tal senso: i Nasenbluten (letteralmente sangue dal naso), per aver tirato troppo ketamina o per il bombardare dei bassi, o forse per entrambi i motivi). I rave Techno Hardcore sono una forma nuova in bilico costante: tra la positività indotta e il panico in agguato prodotti dall’ectasy, tra il rito edonista e il senso di pericolo. Il party stesso diventa un’esperienza al limite, una sorta di rito celebrato sull’orlo di un precipizio, con un piede a terra e l’altro sospeso nel vuoto.

La spersonalizzazione è un altro elemento fondamentale all’interno di questa nuova cultura. Da un lato il suono si nutre vorace di un’autocompiaciuta estetica della distorsione e di una tecnologia usata non come mezzo di perfezionamento bensì come fonte di smisurata potenza. La musica è ormai in balia di una insensibilità data dall’indifferenza elettronica con cui l’Hardcore ingloba i suoni di apparecchi non musicali. Il tutto sullo sfondo di paesaggio sonoro di fine millennio inquinato, ibrido e febbrile. D’altronde perché preoccuparsi del confine tra musica e rumore quando la normalità è diventata ballare in vecchie fabbriche, ex magazzini ed ex centrali elettriche? Dall’altro lato c’è l’aspetto del look, mai come ora così uniformato: tutti portano i capelli rasati, ma senza alcuna connotazione politica (nulla a che vedere con le frange skinhead che lo usano come segno di distinzione); tutti indossano tutto, quasi senza un’anima, o forse con una sola anima comune: l’idea di appartenenza ad un qualunque orientamento collegata al modo di vestire, perde ogni senso. Anche le ragazze indossano anfibi e pantaloni trainers: da lontano sembrano corpi tutti uguali con l’unico intento di ballare. Con la velocità sempre più anfetaminica dell’Hardcore, il ballo tende a diventare una serie di convulsi saltelli non molto diverso da quello punk, con la differenza che qui non vi è alcun senso di rabbia a fungere da motore alimentante.

Se la Techno Hardcore è il suono della prima ondata rave nell’europa continentale, in Inghilterra è quello della seconda e i tentativi di reprimerlo sono già abbondantemente iniziati. Con l’incontro tra l’Hardcore e la Techno, l’arrivo in massa del popolo rave è inevitabile, in fuga dagli eventi commerciali: il risultato è uno stravolgimento totale del tradizionale ecosistema dei free festival. Si tratta, come preannunciato, di una nuova alleanza, una nuova era. Nel ‘92 la polizia del distretto di Avon e Somerset si prepara all’operazione Nomad: l’obiettivo è impedire di svolgere lo svolgimento del free festival di Avon che si tiene ogni anno, e le intenzioni paiono serie. Migliaia di mezzi diretti là vengono intercettati e dirottati nelle contee adiacenti, ma la gente si raduna riaggregandosi in una zona di campagna, presso Castlemorton e nel giro di poche ore, senza che la polizia locale faccia in tempo ad organizzarsi per reagire, ha inizio il più grosso rave illegale della storia. Trentamila persone si recano nel posto per un evento che resterà nella coscienza rave globale con il valore di mito di fondazione. A fornire la musica, un collettivo che a sua volta è destinato a rimanere impresso nelle menti: con la loro musica visionaria, gli Spiral Tribe segnano a fondo l’estetica del movimento rave.

Il rave party si cristallizza in breve come un evento anarchico, allucinato, spartano. Frequentato da giocolieri, mangiatori di fuoco, venditori improvvisati, gente che balla in mezzo alla polvere, cani che scorrazzano, si pone nel mezzo fra un accampamento medievale e uno scenario postbellico. Suggestioni new-age e apocalittiche, un continuo alternarsi tra la forma dell’esserci e quella dello scomparire, una dimensione rituale estrema: sono tutti elementi che contraddistinguono questa nuova forma di aggregazione. La danza come stato di meditazione attiva, bassi elettronici usati come fossero strumenti tribali, c’è qualcosa di sciamanico in tutto ciò. Che l’ambientazione sia rurale o post-industriale, l’atmosfera del rave party è strettamente connessa al suo set: spazi all’aperto, aree naturali, ex hangar: sono sufficienti un paio di pinze e tenaglie per aprire un varco nelle recinzioni e metaforicamente aprire un vuoto al centro della realtà sempre più densa di fine millennio. Il problema non è riempire un posto, infatti, bensì liberarlo. Il free rave party diviene una pratica di occupazione spazio temporale (le feste durano anche giorni) che di fatto occupa un vuoto, salvo poi sparire prima della reazione di autorità e media. La capacità di fluttuare sospesi è tutto ciò che importa: oggi qui, domani chi lo sa.

La macchia si espanda a vista d’occhio. Nel 1994 viene stimato che ogni weekend circa mezzo milione di persone partecipino a un rave in qualche punto del Regno Unito. Tuttavia la storia è destinata ad avere un epilogo: già dopo Castlemorton, il Daily Telegraph invoca a gran voce una nuova legge ed inizia ad essere discusso un nuovo pacchetto di provvedimenti: il Criminal Justice and Public Order, destinato in sostanza a prevedere un sensibile aumento ai poteri della polizia. Riguardo ai rave, in particolare, la nuova legge autorizza le forze dell’ordine a disperdere le persone che preparano, partecipano o semplicemente sono in attesa di un free party, fermare chi vi sia diretto, sequestrare materiale e arrestare gli organizzatori. La clausola più famosa riguarda la definizione di rave come “evento musicale caratterizzato da emissione di repetitive beats”: insomma, per la prima volta nella storia, una forma musicale viene criminalizzata. La vera questione è forse data dal fatto che questo stile di vita entra in contatto con fasce super giovani della popolazione, fungendo da incubatrice sovversiva; così come risulta sempre meno ignorabile il problema del business della droga smerciata ai party. L’iter della legge è costellato di enormi proteste: squatter, gruppi per i diritti civili e frange del movimento rave organizzano marce di protesta. Poi tutto finisce. Il 3 novembre 1994 la legge viene approvata chiudendo per sempre la grande era del rave inglese e la massa ritorna nell’alveo dei club (evolutisi nel frattempo per poter ricreare l’atmosfera rave) e dei party commerciali. La repressione nell’europa continentale tarda solo di qualche anno.

 

Sottocultura Gabber

Che derivi da khaver, una parola derivante dallo slang olandese Bargoens, o dal termine inglese gab, che indica la chiacchierata nel senso dell’elemento vocal introdotto nelle tracce musicali, Gabber è il nome utilizzato per indicare sia un sottogenere della Techno Hardcore, sia una subcultura giovanile sorta in Europa negli anni ’90. Le basi del movimento si trovano ancora una volta in Inghilterra all’interno del mondo rave inglese, ma nascita e diffusione avvengono in Olanda, curiosamente in un ambiente collegato al mondo del calcio.

Nel 1988 la scena Acid House inglese diviene popolare in Olanda appena dopo il suo sviluppo nel Regno Unito, e organizzatori di rave (come ad esempio la Sunrise) cominciano ad organizzare party nella città di Amsterdam. La ragione che spinge gli inglesi ad interessarsi ai Paesi Bassi è dovuta in particolare all’attrazione esercitata dalle posizioni più accondiscendenti nei confronti delle droghe e dei permessi per i locali; dall’essere inizialmente festini per sparuti gruppi di avanguardisti la dimensione cresce a vista d’occhio. Tuttavia si tratta di eventi relativamente esclusivi e la loro crescente popolarità inizia a creare divisioni tra coloro che appartengono alla prima ondata di ravers –i veterani, insomma- e quelli che vengono percepiti come gli ultimi arrivati, accusati di non comprendere lo spirito comunitario del movimento rave e di incoraggiare la violenza all’interno della scena. La stampa, nel tentativo di costruire un capro espiatorio, descrive questi nuovi soggetti come violenti, ineducati, razzisti, omofobi e sessisti, e incapaci di apprezzare la creatività a causa della loro preferenza per un tipo di musica più dura. Inoltre, vengono disprezzati in quanto consumatori, anziché di ecstasy, delle più economiche anfetamine e di grandi quantità di alcool, cosa assai deprecabile per qualunque filosofo del rave. Essi vengono chiamati gabber, attribuendo dunque alla parola una valenza negativa: la  leggenda racconta che il termine viene usato per la prima volta al Roxy, un raffinato locale di Amsterdam, dove un giovane raver viene respinto dal buttafuori con la frase “no Gabber, tu non puoi entrare”. Questa storia, reale o meno, è la metafora di ciò che succede  tra le classi più basse della società giovanile, che si autoesilia e ghettizza pian piano in una scena a parte, prediligendo una musica più dura.

Dicevamo del collegamento col mondo degli stadi. Effettivamente la musica Gabber si pone fin dagli inizi come un vero e proprio simbolo di opposizione. Che si tratti di antagonismo regionale o di lotta proletaria giovanile contro quelli della capitale, il suono di Rotterdam (è qui che si radica l’epicentro del nuovo movimento culturale) – con un ritmo più incalzante e dei suoni più potenti – si fa portavoce di un movimento di opposizione alla scena house di Amsterdam, considerata più snob e fiacca. Ed è  fra gli hooligans del Feyenoord di Rotterdam, la squadra calcistica rivale numero uno dell’Ajax di Amsterdam, che la musica Gabber raggiunge il maggiore successo. Negli anni Novanta, infatti, la famigerata curva De Kuip si riempie di raver in modalità after party, pronti a tifare la loro squadra imbottiti di adrenalina di droghe consumate durante la notte. Così nel 1992, quando il dj Paul Elstak, uno dei padri della musica hardcore, incide la traccia (citata in apertura) Amsterdam, waar lech dat dan? su un disco la cui copertina ritraeva la torre Euromast di Rotterdam evidentemente sbronza e nell’atto di urinare sulla città di Amsterdam, gli hooligans non possono perdere l’occasione di trasformare quel brano in un inno, spesso riproposto dal vivo a fine partita.

La nuova musica entra prepotentemente nelle classifiche dei Paesi Bassi, tanto che dalla sua incredibile espansione nascono le cosiddette Merchandise Labels, linee di abbigliamento firmate dalle case discografiche che nel frattempo sono diventate più di 2000 solo a Rotterdam. Anche in questo caso, come in tutto ciò che riguarda la cultura rave hardcore, la spersonalizzazione dell’individuo è tutto, a partire dal look uniformato: tute da ginnastica e polo Australian, Fila o Tacchini, scarpe Nike Air Max, bomber e cappellini appartengono ad entrambi i sessi, mentre l’unico elemento di differenza sta nella rasatura dei capelli: completa per i ragazzi, ai lati o alla nuca con le lunghezze raccolte in code o trecce per le ragazze. Comodità, insomma, soprattutto per ballare la Hakken, una danza velocissima a base di scatti, passi e calci ad un pallone invisibile con tagliuzzamenti dell’aria fatti con le mani, tutto ad un ritmo compreso tra i 160 e i 220 BPM, che immancabilmente richiede il sostegno di sostanze eccitanti.

Confusi con gli Skinhead e spesso associati ad immagini negative legate all’uso massiccio di droghe, ad atti di violenza e razzismo, i Gabber in realtà non abbracciano mai realmente un’ideologia politica. Per loro le feste, la musica, il gruppo rappresentano semplicemente una valvola di sfogo, necessaria per dimenticare i problemi quotidiani, evadendo momentaneamente dalla realtà. I media non ne capiscono lo spirito e, stigmatizzandone la subcultura, ottengono un risultato terribile: sono infatti gli stessi Gabber più “puri”, nel senso dei più vicini ai principi di amicizia e fratellanza espressi dal loro stesso nome, a decidere di abbandonare tutto –nel tentativo di prendere le distanze dalle critiche-  alle minoranze più estremiste di destra, note come i Lonsdalers nei Paesi Bassi o i Gabberskin in Francia. Alcune etichette discografiche rispondono alle accuse di razzismo, creando t-shirt e felpe con lo slogan United Hardcore Against Fascism and Racism, ma ormai il declino è inevitabile, tant’è che  ad ora i Gabber sono un realtà sostanzialmente estinta. Eppure, i segni di questa subcultura permangono per sempre indelebili. D’altronde uno dei loro motti, estendibile a tutta la cultura Hardcore, ha sempre suonato forte e chiaro: Hardcore ‘Til I Die!

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