Handmade Festival VII

Il sole scalda tantissimo, il piccolo paesino di Tagliata è invaso dall’esercito di indie emiliani, ma non solo, raggruppati nel campo fra le case e la statale. Quando arriviamo alla settima edizione dell’Handmade i padroni di casa His Clancyness hanno suonato e il movimento è iniziato. La fila al bar è già lunghissima, i teli sono appoggiati sull’erba e la gente gioca e si parla, fra le bancarelle vintage e i tre palchi. Sembra una di quelle feste di quando si era bambini e bastava stare insieme e ogni band è il regalo che non ti aspetti o, meglio, uno di quei festival che ti immagini negli anni settanta, tra la natura e la propria visione personale di come doveva essere Woodstock ed essere a Guastalla, e non negli Stati Uniti, ti fa poca differenza. L’ambiente dell’Handmade, come sempre, è quello che più ti affascina, forse perché si distacca di molto dall’abitudine delle transenne, dei palchi vorticosi e il distacco naturale che si forma con chi suona. Le birre che ci siamo portati da casa finiscono presto, evaporate dal calore e dagli assetati che si muovono alla ricerca di ombra dove potersi stendere, come una setta segreta spaventata dal sole.

Did

Nonostante la location sia ristretta ad ogni cambio palco ti perdi e se durante l’esibizione appena terminata eri in prima fila poi ti ritrovi da un’altra parte in fondo, seguendo un ricambio rapido e naturale che non lascia tempo per sbuffare o litigare. Semplicemente segui il flusso. Tara Jane O’Neil è già passata nelle valli, portandoci in un altro mondo. Quando i Did salgono sul main stage il sole cala un po’ e la folla ringrazia, lentamente tutti si avvicinano e si lasciano andare al pop elettronico della band torinese, che fa da cornice all’ora da aperitivo e alla lunga fila per la cena, in religioso silenzio. C’è questa caratteristica che non te la togli dalla testa nemmeno quando te ne vai. Del ritmo continuo del passaggio delle persone che si fonde con quello della batteria che sta suonando, magari, dalla parte opposta, come se ci fosse una sintonia segreta che gli organizzatori, da dietro le quinte, stiano dirigendo verso il centro, che non sono i palchi ma chi c’è, indipendentemente che stia abbracciando la chitarra o dormendo da qualche parte. La sera si avvicina rapidamente e anche il turno dei gruppi più attesi e con più seguito. C’è spazio per la reunion dei My Awesome Mixtape, un ritorno gradito, e per gli His Electro Blue Voice, freschi di Sub Pop ma che danno un notevole sostegno all’idea che la qualità di un festival sia legata non tanto al grande nome alla fine, ma a tenere un livello elevato per tutto il giorno.

La Femme

Cenati, ripresi e di nuovo in attesa, ci catapultiamo nel palco principale su cui sono saliti sei ragazzini francesi vestiti anni ottanta. I La Femme, per la prima volta in Italia, sono una delle band più attese. Dopo qualche problema di soundcheck, l’iniziale diffidenza con cui sono accolti scivola via sotto le note dei synth sinceri e dei ritmi incalzanti. Il look, le movenze e la musica sono quelle della Parigi bene ma non abbastanza, dal gusto decadente ma con la voglia di successo. Più da localini bui e stretti che per festival all’aperto, si potrebbe pensare, ma, in realtà, si dimostrano all’altezza della folla che si ritrovano davanti, e vengono acclamati. Non ci sarà un ritorno sul palco, i tempi sono serrati e Dirty Beaches ha iniziato a suonare lì di fianco. Il clima cambia all’improvviso, o forse siamo noi a sentirlo davvero, perché dalla Parigi assolata ti ritrovi nell’inquietante Montreal di Alex Zhang. Ma Dirty Beaches lo conosci e sai che quelli che appaiono incubi sono in realtà favole da ascoltare e da cui farsi portare via.

Emidio Clementi (Foto di Nicolò Fantini)

E anche l’Handmade è una favola sfuggevole, perché oltre al tempo prestabilito alle band non puoi chiedergli altro e questa è, probabilmente, l’unica pecca di avere tanti artisti nello stesso giorno, da cui puoi prendere abbastanza per scoprirli ma non per farteli piacere immediatamente. Come ogni storia ha un inizio e una fine e c’è sempre qualcuno che la racconta. Chi lo farà questa notte è uno tra i migliori che puoi sentire dal vivo, un sacerdote della gioia della fine e del piacere del ritorno. Emidio Clementi e i Massimo Volume, chiamati a concludere la settima edizione di questo Handmade. Il pubblico è in silenzio, in adorazione o rispetto, ed è un dolce arrivederci. A una delle band più importanti della nostra scena musicale e alla fine di un festival gratuito capace di garantirti una line up di tutto rispetto senza spendere milioni per tutto il giorno e, soprattutto, un ambiente in cui sentirsi tranquilli e in pace, per una volta, nel posto giusto.


Foto a cura di Heller


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