C’è chi per amore è pronto a salire all’improvviso su un volo aereo diretto all’isola di Jeju, per nutrire l’uccellino di una vecchia amica e collega, chi invece trascorre l’intera vita alla ricerca della verità, in nome della propria famiglia, chi ha scavato per giorni e giorni alla ricerca delle ossa del proprio fratello tra quelle di tante altre vittime innocenti di un massacro senza eguali nella storia sudcoreana.
Cosa siamo disposti a fare in nome dell’amore? È il perno attorno a cui ruota Non dico addio, romanzo di Han Kang, pubblicato in Corea nel 2021 ed edito in Italia da Adelphi lo scorso ottobre (tradotto da Lia Iovenitti), subito dopo la vittoria da parte della scrittrice del Premio Nobel per la letteratura.
La vittoria del Nobel per «l’intensa prosa poetica»
Il 10 ottobre la scrittrice e musicista sudcoreana Han Kang, diventata famosa a livello internazionale nel 2016 con la vittoria dell’International Booker Prize per il romanzo La vegetariana, si è aggiudicata il premio dell’accademia svedese «per la prosa poetica intensa che si confronta con i traumi storici e che rivela la fragilità della vita umana». Kang è la prima rappresentante della letteratura sudcoreana a essere insignita di questo premio.
«Nella sua opera – si legge nella motivazione dell’Accademia reale svedese – Han Kang affronta traumi storici e insiemi invisibili di regole e, in ciascuna delle sue opere, espone la fragilità della vita umana. Ha una consapevolezza unica delle connessioni tra corpo e anima, i vivi e i morti, e nel suo stile poetico e sperimentale è diventata un’innovatrice nella prosa contemporanea».
Nata a Gwanju nel 1970 e cresciuta a Seoul, Kang è figlia d’arte: il padre, Han Seung-won, è un illustre intellettuale e scrittore. Dopo aver esordito negli anni Novanta con dei testi poetici, dal 1995 trova nella scrittura romanzesca la propria forma d’espressione. Il suo romanzo più conosciuto è La vegetariana, pubblicato in Corea del Sud nel 2007 e tradotto in diversi paesi solo dieci anni più tardi: l’approdo nel mondo anglosassone ed europeo di questo romanzo ha reso famosa l’autrice, che gli anni successivi ha lavorato a testi come Atti umani (Adelphi, 2017), considerato il suo testo più rappresentativo in patria, e L’ora di greco (Adelphi, 2023). Non dico addio è l’ottavo romanzo di Kang e si attende la traduzione de Il libro bianco, che in Corea del Sud è uscito nel 2016.
Seppur molto diversi tra di loro per ambientazione e temi centrali, Kang in tutti i suoi romanzi esplora stili di vita portati all’estremo attraverso uno stile tra l’onirico e il metaforico e l’adozione di una lingua cristallina e metodica, che funge spesso da rifugio per la scrittrice. Al centro della sua scrittura, poi, i lettori vi ritrovano la memoria storica che si lega indissolubilmente a quella più intima e famigliare, insieme a un mescolamento di mondi, quello dei viventi e quello dei defunti: ne risulta una ghost story a cavallo tra passato e presente, in cui i piani narrativi si mescolano fino a confondere chi si addentra nelle pagine dell’opera.
“Non dico addio”, quando l’amore supera tutto (anche l’umanità più spietata)
In latino “desperatus” è il participio del verbo “desperare”, che in italiano viene tradotto tranquillamente con il termine “disperare”, “perdere la speranza”. Ricordo che, al ginnasio, quando la mia professoressa di latino e greco ce lo aveva spiegato, aveva sottolineato come quel verbo assumesse una concezione estremamente negativa: eppure, già in quegli anni, per me era vero solo in parte. Al contrario, ho sempre intra visto un non so che di vitalistico nella disperazione, come se una qualche forza potente come l’amore potesse spingere l’animo umano ad atti estremi, disperati ma, allo stesso, ricolmi di una sparuta briciola di speranza: non riuscivo a non pensare all’accezione latina di “desperare” e alle mie personalissime – per nulla filologiche – accezioni durante il corso della lettura di Non dico addio. Ne ho avuto la conferma quando sono arrivata alla nota dell’autrice, a fine libro, in cui Kang scrive: «Qualche anno fa, qualcuno mi ha chiesto quale sarebbe stato il tema del mio prossimo libro e ricordo di aver risposto che mi auguravo fosse l’amore. Lo penso ancora. Voglio credere che questo sia un libro sull’amore estremo».
Tutto, in Non dico addio, è mosso dall’amore, espresso nelle sue forme più variegate di questo sentimento che domina le vite delle tre protagoniste, Gyeong-ha (l’io narrante e protagonista della vicenda ideata da Kang), scrittrice sulla soglia della mezza età, con un matrimonio andato in frantumi e una vita da ricomporre pezzo dopo pezzo, In-seon, film-maker e documentarista che, dopo diversi anni a Seoul, è tornata all’isola di Jeju, di cui la sua famiglia è originaria, e sua madre Jung-shim, sopravvissuta a una pagina dolorosa della storia della Corea contemporanea, il massacro degli abitanti di Jeju, accusati di essere comunisti.
Il tema politico, caro alla scrittrice cui ha dedicato le pagine di Atti umani al massacro di Gwangju del 1980, emerge a poco a poco nel romanzo, all’aumentare della neve e del freddo provati dalla protagonista: Gyeong-ha, dopo aver fatto visita alla vecchia amica In-seon, ricoverata in ospedale in fin di vita, sale d’impeto su un volo che da Seul è diretto all’isola di Jeju per dare da bere a uno dei pappagallini dell’amica per evitare che muoia di lì a poco. Approdata lì dalla capitale, si scontra con una realtà cruda, fredda e distante: una tempesta di neve che la coglie impreparata per la catabasi che l’attende. Una vera e propria discesa agli inferi e negli abissi dell’umanità: l’arrivo a Jeju non è altro che il pretesto per rievocare il massacro di circa 30mila civili accusati di essere comunisti tra il 1948 e il 1949, scoperchiandone l’assurda atrocità. Una pagina ancora poco conosciuta della storia della Corea del Sud e di cui la madre di In-seon è stata suo malgrado testimone.
In quei due anni gli abitanti dell’isola più grande del Paese furono vittime della disumanità indiscriminata del cosiddetto “incidente del 13 aprile”: fu il culmine di un periodo di tensione dovuto alla spartizione del Paese (che si era appena liberato di trent’anni di oppressione sotto il controllo dell’impero giapponese) in due zone, rispettivamente di influenza statunitense (a Sud) e sovietica (a Nord). Il Partito del Lavoro della Corea del Sud era fortemente contrario a questa divisione, pertanto aveva pianificato delle manifestazioni: queste non si fecero mai a causa delle repressioni preventive da parte del governo. Fu il germoglio della rivolta a Jeju, repressa nel sangue all’insegna dell’odio anticomunista e con il silenzio complice delle truppe alleate statunitensi; secondo le stime i morti furono circa 30mila.
La scrittura romanzesca di Han Kang scoperchia una pagina della storia sudcoreana su cui si è taciuto fino agli anni Novanta, in grado di scuotere la vita delle due amiche, segnandole nel profondo. La scia di sangue è il trait d’union tra il presente e il passato, tra due generazioni di donne che si passano il testimone della memoria, affinché questa non venga ridotta a una riga su un libro di storia, ma coscienza collettiva, viva e pulsante. Attraverso testimonianze altrui raccolte negli anni dalla film-maker e il racconto delle vicende che hanno coinvolto i suoi parenti, Gyeong-ha – così come i lettori – si immerge nei momenti della tragedia, seguendo le tracce di Jung-shim, tra i pochi sopravvissuti della sua famiglia, più che decisa a ritrovare il fratello di cui ha perso le tracce.
Può darsi che a partire da quel momento sia avvenuta una scissione in lei.
Da quella notte in cui suo fratello aveva iniziato a esistere
Contemporaneamente in due dimensioni diverse.
Come uno delle migliaia di corpi ammassati nella miniera.
La scrittura lirica, onirica e contemporaneamente chirurgica, caratterizzata dalle influenze della poesia tradizionale coreana, è lo strumento attraverso cui Kang smaschera l’oblio in cui è immersa la società contemporanea: e lo fa abbattendo ogni distanza tra tragedia privata e tragedia collettiva, tra personale e politico riportando la memoria al suo significato originario, ovvero quello di una coscienza collettiva inesauribile, in grado di avvicinare il passato e il presente, così come diverse generazioni. Una memoria viva, dunque, portatrice di significante e significato, ancora intrisa di dolore e, proprio per questo, essenziale e duratura nel tempo.