Hamilton, il più americano dei musical

«Sì, è davvero così bello» scriveva il critico del New York Times Ben Brantley nella prima recensione di Hamilton: An American Musical del 6 agosto 2015, qualche settimana dopo l’esordio nel Richard Rogers Theatre di Broadway. Lo spettacolo veniva dal successo di Off-Broadway che ne aveva già alimentato la fama, un fenomeno collettivo di proporzioni inaspettate il cui debutto per il grande pubblico teatrale newyorkese era stato anticipato da una vendita di biglietti per milioni di dollari. Del valore dell’opera hip hop scritta da Lin-Manuel Miranda si sono accorti persino gli Obama, testimoni della primissima performance dell’attore americano per la White House Poetry Jam del 12 maggio 2009. Prima di cantare, Miranda annuncia di essere al lavoro su un concept album, all’epoca chiamato The Hamilton Mixtape, per raccontare le gesta di Alexander Hamilton, il primo Segretario al tesoro della storia degli Stati Uniti, uno dei padri fondatori della nazione. Ci sono voluti 7 anni di lavoro, e un cambio di progetto, ma il risultato è stato il musical più rivoluzionario e di successo della storia del teatro statunitense.

Hamilton, figlio illegittimo, orfano, povero e immigrato, riesce a diventare il braccio destro del presidente George Washington, nonché artefice dell’attuale sistema economico e finanziario degli Stati Uniti. Per raccontare la sua storia, Miranda usa il linguaggio che gli è più congeniale, il rap e l’r&b, e un cast di attori neri e ispanici ad interpretare i ruoli chiave della storia americana. Quest’ultima scelta è fondamentale per il successo del progetto Hamilton: Miranda e la produzione pretendono che il palco sia calcato da attori che rappresentino gli Stati Uniti contemporanei in omaggio alle minoranze che hanno contribuito a costruire la nazione, ma delle quali la storia si è dimenticata. Lo stesso principio di diversità è stato, poi, mantenuto anche nelle rappresentazioni nel West End a Londra, a Sidney e a Toronto. Hamilton cambia, così, la storia di Broadway, ma anche il linguaggio del teatro internazionale a livello musicale e “politico”. Il suo successo va oltre i cosiddetti theatre kids, i giovani appassionati del genere, per abbracciare due intere generazioni: i Millennial e la Generazione z. È merito del rap, dell’inclusività, ma anche della massiccia presenza sui social network voluta fortemente da Miranda per amplificare il suo messaggio. Tuttora, anche grazie allo sbarco del film sulla piattaforma di streaming Disney+, i profili social di Hamilton sono attivi e accrescono l’eredità dello spettacolo che ha continuato (e riprenderà a farlo dopo lo stop forzato della pandemia) a calcare molti altri palchi statunitensi e internazionali. Persino su TikTok, il più giovane tra i social network, c’è un fiorire di video backstage d’annata, omaggi dei fan, reinterpretazioni creative e reazioni alle scene clou del film, basta cercare l’hashtag #hamiltonmusical. Questo successo senza precedenti celebra ufficialmente la conquista di Broadway delle nuove generazioni, delle minoranze e degli americani figli di immigrati pronti, finalmente, a raccontare la propria storia invadendo i teatri, veri e propri templi bianchi, con la loro cultura, lo slang, il beat e il freestyle.

Il musical, si diceva, racconta la vita di Alexander Hamilton (interpretato da Lin-Manuel Miranda) e dei personaggi storici che l’hanno popolata a cominciare da Aron Burr, politico, nemesi di Hamilton nonché colui che pone fine alla sua vita in un duello nel 1804; ci sono anche James Madison, Hercules Mulligan, il marchese di La Fayette e Thomas Jefferson (entrambi interpretati uno strepitoso Daveed Diggs), George Washington e le sorelle Schuyler: Angelica, Peggy ed Eliza, quest’ultima moglie di Hamilton. Il numero di apertura chiarisce fin da subito le intenzioni dell’intero musical. Aaron Burr è un uomo nero (Leslie Odom Jr.) e rappa la vita del suo eterno rivale:

How does a bastard, orphan, son of a whore and a Scotsman, dropped in the middle of a forgotten spot in the Caribbean by Providence impoverished in squalor
grow up to be a hero and a scholar?

Come può il figlio bastardo e orfano di una prostituta e uno scozzese, abbandonato nel mezzo di un angolo dimenticato dei Caraibi dalla Provvidenza, impoverito nello squallore, crescere e diventare un eroe e uno studioso?

La frase verrà ripresa e modificata più volte nel corso dei due atti, seguendo tutti i cambiamenti e gli incarichi di rilievo che Hamilton ricoprirà, ma nulla cambia le sue origini: Hamilton è un immigrato e raggiunge i suoi obiettivi lavorando, studiando, scrivendo. Pochi versi più tardi Hamilton/Miranda canta:

My name is Alexander Hamilton.
And there’s a million things I haven’t done.
But just you wait, just you, wait.

Il mio nome è Alexander Hamilton.
E ci sono un milione di cose che non ho ancora fatto.
Ma aspetta e vedrai, aspetta e vedrai.

Hamilton è celebrato dalla scrittura di Miranda come un self-made man, i suoi motori vitali sono ambizione e duro lavoro. La base storica dello spettacolo è la biografia scritta da Ron Chernow, ma Lin-Manuel Miranda non può fare a meno di inserire quello spirito puramente statunitense secondo cui tutti possono riuscire e il lavoro duro può davvero trasformare una vita. È questa la quintessenza dell’American Dream e lo cantano fieri sul palco: «In New York you can be a new man/A New York puoi essere un uomo nuovo». Il popolo statunitense ha sempre creduto al “se vuoi puoi”, ma cosa succede se si appartiene ad una minoranza? La meritocrazia cambia solo le vite degli uomini bianchi e borghesi? Le risposte a queste domande cominciano ad affiorare adesso, mentre Millennial e, soprattutto, gli “Zoomer” prendono in mano il futuro e costruiscono la propria personale coscienza civile anche a suon di musical.

Se il nodo centrale è la vicenda di Hamilton letto come immigrato nella “terra promessa”, la storia a contorno è la costruzione degli Stati Uniti come nazione, lo strappo con la monarchia britannica e la sanguinosa conquista dell’indipendenza. Il monarca Giorgio III, nella versione digitale su Disney+ interpretato da Jonathan Groff, è protagonista di tre distinti cameo nelle due ore e 20 di spettacolo, ma tanto basta per renderlo iconico per pubblico e social network con il suo accento inglese e le canzoni un po’ Brit Pop, un po’ “vecchia Broadway”. Il contrasto con lo slang e il rap frenetico degli altri personaggi è evidente ed esilarante.

Hamilton avrà una moglie, Eliza Schuyler (Phillipa Soo), una relazione extraconiugale con Maria Reynolds (Jasmine Cephas Jones), e un rapporto strettissimo con la cognata Angelica (Renée Elise Goldsberry). In queste dinamiche familiari e amorose, Broadway e le esigenze della drammaturgia prevalgono sulla verità storica, aprendo un intero filone di inesattezze. Ma quanto pesano nel dialogo che l’opera di Miranda ha intrapreso? Gli elenchi degli errori storici fioccano sul web (questa l’analisi di Buzzfeed), ma, al momento del lancio digitale del film evento, la stessa Disney gioca d’anticipo e pubblica sulla sua piattaforma “Hamilton: history has its eyes on you”, uno speciale con il cast originale e l’intervento della storica statunitense Annette Gordon-Reed. La sua tesi è molto chiara: le inesattezze e gli errori storici non inficiano il disegno superiore e lo scopo dell’opera. In un periodo storico in cui la violenza sistemica della polizia statunitense, i problemi razziali, la disparità di trattamento delle minoranze, il sessismo nella società sono temi caldi e irrisolti, c’è una nuova urgenza culturale di cui Hamilton, il musical, può ancora farsi portavoce a 5 anni dal suo debutto. È una lezione di inclusività e rappresentazione, uno dei primi prodotti teatrali con un cast di colore: un nuovo mondo è possibile nello spirito della “American revolution” che il musical mette in scena.

Nel mondo di Miranda sono uomini neri a interpretare i padri fondatori, convinti schiavisti a loro tempo, in un processo di profonda riappropriazione della storia americana. Di questo dualismo i fan, soprattutto i più giovani, sono consapevoli e lo rimarcano in ogni intervento e interazione. Questa consapevolezza dei limiti della storia, però, non toglie valore al processo di riappropriazione messo in atto su più livelli: quello del linguaggio, quello musicale e quello dell’eredità storica. Se linguaggio e musica affondano le radici nella cultura hip hop, quello dell’eredità storica è un discorso più complesso e ampio. L’Alexander Hamilton di Miranda è un uomo inarrestabile nelle azioni militari, nello studio, nella scrittura e nella vita politica, febbrile nella sua urgenza di dedicarsi alla causa dell’Unione e della rivoluzione. E questa urgenza aumenta di significato perché scritta dal figlio di un immigrato, Miranda, e estesa a tutta una nuova generazione che ha riscoperto il valore dei diritti civili e delle lotte per difenderli e conquistarli. «Immigrants, we get the job done/Immigrati, siamo noi a portare avanti il lavoro» dicono La Fayette e Hamilton prima della battaglia di Yorktown e il pubblico applaude entusiasta, nessuno lo aveva gridato a Broadway prima d’ora. «I’m just like my country, I’m young, scrappy and hungry/ Sono come la mia nazione, giovane, incompleto e affamato» cantano questi giovani rivoluzionari, ma le loro azioni non sono solo manovrate dal furore di vivere.

Nel personaggio Alexander Hamilton, soprattutto, c’è una componente più lungimirante che lo porta a chiedersi sin da subito qual è il senso del suo agire, quale sarà l’eredità lasciata alla storia e chi la racconterà, tutti fattori che sa di non poter controllare. La frase «Who lives? Who Dies? Who tells our story?/Chi sopravvive? Chi muore? Chi racconta la nostra storia?» riecheggerà in entrambi gli atti del musical, erodendo l’illusione granitica dell’American Dream, anche se solo per pochi istanti. Nel caso di Hamilton sarà la moglie Eliza a portare avanti il suo nome e i traguardi raggiunti, in un finale riconsegnato alle donne, che però non sono abbastanza in questo racconto. Eliza chiude l’opera proprio con “Who Lives, Who Dies, Who Tells Your Story” e consegna definitivamente l’eredità di Alexander Hamilton/Lin-Manuel Miranda al pubblico in sala, agli spettatori digitali e a tutti coloro che in futuro parteciperanno a questo fenomeno culturale collettivo che è Hamilton.

“Hamilton: An American Musical” ha vinto, tra i vari premi, 11 Tony Award e un Grammy; a Miranda è stato assegnato il premio Pulitzer 2016 per la drammaturgia e, assieme a Andy Blankenbuehler, Alex Lacamoire and Thomas Kail, rispettivamente coreografo, compositore e regista, il Kennedy Center Honors per il contributo alla cultura americana. Hamilton è il musical più americano della storia di Broadway non solo perché racconta la storia degli Stati Uniti e reinterpreta figure storiche in una chiave moderna e accessibile, ma è americano anche nelle sue ingenuità, nei difetti storici e, infine, nel suo messaggio finale. Il musical, storicamente imperfetto e artisticamente impeccabile, si è rivelato essere lo strumento più moderno per la comprensione degli Stati Uniti nel 2016, ma anche nel 2020 con le nuove rivolte razziali e la spinta culturale del movimento Black Lives Matters, nonché chiave di accesso alle nuove generazioni, le loro speranze e il loro linguaggio. Un musical profondamente newyorkese, ma che incarna lo spirito contemporaneo di cambiamento e “rivoluzione”, pur con i manierismi del mondo dello spettacolo che rappresenta. Eppure, in ogni parte degli Stati Uniti, anche nel cuore della provincia grazie alla diffusione della versione in streaming, una nuova generazione di spettatori si riprende la storia con orgoglio, la reinterpreta e lo fa alle sue condizioni, trasformando i momenti politici salienti della nascita degli Stati Uniti in battaglie di rap freestyle. Hamilton ha dato loro un cambiamento in cui credere, una storia che li riguardasse e un punto di partenza per indagare, approfondire e riscrivere un passato più inclusivo per le minoranze. Questa è la grandezza di Hamilton, questo il genio di Lin-Manuel Miranda e, a suo modo, anche del “nuovo” Alexander Hamilton.

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