Guida minima alle opere di Roberto Bolaño

Letteratura e esilio sono, credo, due facce della stessa moneta, il nostro destino riposto nelle mani del caso. “Senza uscire di casa conosco il mondo”, dice il Tao Te King, ma anche così, senza uscire di casa, l’esilio incombe in ogni momento. La letteratura di Kafka, la più lucida e terribile del XX secolo (ma anche la più umile), lo dimostra fino alla sazietà. Ma in questi anni per tutta l’Europa risuona una cantilena, la filastrocca del dolore degli esiliati, una musica composta di lamentazioni e una difficilmente comprensibile nostalgia. Si può provare nostalgia della terra dove si è stati sul punto di morire? Si può provare nostalgia della povertà, dell’intolleranza, della prepotenza, dell’ingiustizia? La cantilena latinoamericana, ma anche quella di scrittori di altre regioni depauperate o traumatizzate, insiste a parlare di nostalgia, di ritorno al paese natio, e a me questo è sempre suonato falso. Per lo scrittore vero l’unica patria è la sua biblioteca, una biblioteca che vive negli scaffali o nella memoria. (Discorso di Vienna)

 

Al di là di quello che siamo abituati a pensare su un tema che, dalla nostra parte, vede al centro di tutto il concetto stesso di Europa come unione di stati molto diversi tra loro per storia e cultura, l’indipendenza è sempre stato uno di quei sogni che ha traghettato i popoli verso acque più serene di quelle che erano abituati ad affrontare. Tra i tanti esempi che possiamo ad oggi citare, guardando oltre i nostri parametri, persistono quelli inerenti alle situazioni politiche del Sudamerica. Una terra da sempre devastata da numerosi colpi di stato, ha visto al suo interno un implosione continua di rivolte all’insegna di quella libertà tanto sofferta quanto rivendicata a gran voce dagli stessi popoli. Un coacervo di figure dittatoriali che muovono le loro strategie contro ogni libera espressione consentita in altre parti del mondo.

In questo modo abbiamo un Sudamerica che riveste i panni perfetti di un teatro dove all’interno si esibiscono soggetti che possiedono le peggiori capacità politiche a cui un paese intero si possa mai affidare. Consapevoli del fatto che la storia insegna, tutti noi abbiamo la possibilità di ammirare la risposta ad un determinato clima, una risposta che, tra i tanti esempi citabili, ci giunge attraverso le diverse espressioni artistiche. La musica e la letteratura, in primis, hanno permesso a molti di prendere atto di quello che stava avvenendo in quella parte di mondo. La forza rivelatrice di una chitarra, mescolata a quella che spunta fuori da una pagina, ha portato alla luce la grandezza di quel desiderio di rivalsa contro ogni regime susseguitosi negli anni. Eppure, in alcuni casi, non ha portato a nulla di concreto, e questo ce lo insegnano personalità del calibro di Roberto Bolaño.

Anversa

Lo scrittore cileno lascia il Cile a soli quindici anni per poi farvi ritorno nel 1973, portando avanti la decisione di appoggiare la politica socialista di Salvador Allende – ucciso a sua volta durante il colpo di stato messo su dal generale Augusto Pinochet. Come Pablo Neruda, anche Bolaño esercita la sua arte attraverso l’utilizzo della parola. Compone poesie, dà vita ad una nuova corrente letteraria – l’infrarealismo – con il suo amico poeta Papasquiaro e inizia la stesura di quello che sarà il suo primo romanzo.

Dopo aver raccolto i suoi racconti giovanili in Chiamate Telefoniche (Adelphi, traduzione di Barbara Bertoni), è la volta di Anversa (Sellerio, traduzione e cura di Angelo Morino), un romanzo che spacca in due la trama facendola balenare in una frenetica tensione dove esplode il grottesco e l’anarchia nuda e cruda così come siamo abituati a conoscerla dalla sue opere.

In quegli anni vivevo esposto alle intemperie e senza permesso di soggiorno così come altri vivevano in un castello. Naturalmente, non ho mai portato questo romanzo a una casa editrice. Mi avrebbero chiuso la porta in faccia e avrei perso una copia. Non l’ho neppure messo, come si dice, in pulito. Il manoscritto originale ha più pagine: il testo tendeva a moltiplicarsi e a riprodursi come una malattia. La mia malattia, allora, era l’orgoglio, la rabbia e la violenza. Queste cose (rabbia, violenza) sfiancano e io passavo le giornate inutilmente stanco. Di notte lavoravo. Di giorno scrivevo e leggevo. Non dormivo mai. Mi tenevo sveglio bevendo caffè e fumando. Il disprezzo che provavo per la cosiddetta letteratura ufficiale era enorme, sebbene solo un po’ più grande di quello che provavo per la letteratura marginale. Ma credevo nella letteratura: ossia non credevo né nell’arrivismo né nell’opportunismo né nei mormorii cortigiani. Sì nei gesti inutili, si nel destino. Non avevo ancora figli. Leggevo più poesia che prosa. In quegli anni (o in quei mesi), avevo predilezione per certi scrittori di fantascienza e per certi pornografi, a volte autori antinomici, come se la caverna e la luce elettrica si escludessero a vicenda. leggevo Norman Spinrad, James Tiptree jr. (che in realtà si chiamava Alice Sheldon), Restif de la Bretonne e Sade. Anche Cervantes e i poeti arcaici greci. Quando mi ammalavo rileggevo Manrique. Una notte ideai un sistema per guadagnare soldi illegalmente. una piccola impresa criminale. In fondo tutto consisteva nel non diventare ricchi di colpo. Il mio primo complice o progetto di complice, un amico argentino tristissimo, mi rispose con un proverbio che più o meno diceva che quando uno è in carcere o all’ospedale, la cosa migliore è essere anche nel proprio paese, suppongo per via delle visite. La sua risposta non mi toccò minimamente, perchè mi sentivo a una distanza equidistante da tutti i paesi del mondo. In seguito abbandonai il mio piano quando scoprii che era peggio che lavorare in una fabbrica di mattoni. Al mio capezzale avevo attaccato con una puntina un foglio che diceva, in polacco, Anarchia Totale, che un’amica di questa nazionalità aveva scritto per me. Non credevo che sarei vissuto oltre i trentacinque anni. Ero felice. Poi arrivò il 1981 e, senza che io me ne rendessi conto, tutto cambiò. [Roberto Bolaño, prologo di Anversa]

I Detective Selvaggi

Bolaño parla e scrive del suo paese attraverso tutte le modalità a lui più congeniali. Lo fa sui giornali per cui collabora – una vasta produzione giornalistica, raccolti in Tra parentesi – e nei discorsi pubblici. Dopo l’insediamento di Pinochet, e la fuga dalla prigione in cui era stato rinchiuso per le sue posizioni a favore di Allende, parte prima alla volta del suo Messico, poi decide di approdare in Spagna. Qui ha inizio la scalata verso il successo editoriale che vede il suo apice nel 1998, cinque anni prima della sua prematura scomparsa, con la pubblicazione de I Detective Selvaggi (Adelphi, traduzione di Ilde Carmignani).

È questo il romanzo cardine di Roberto Bolaño, un romanzo che segna l’entrata in campo di personaggi che giocano tra di loro fino a sancire le caratteristiche di una trama quasi surreale per via del suo innesto narrativo. Protagonisti che vomitano parole all’infinito, che si ritrovano soli nei momenti meno opportuni e che danno vita a un giallo entusiasmante, lo stesso dove si rincorrono sesso e follia, sete di gloria e stravolgimento dell’ordinario. I critici lo definiranno anche un romanzo di formazione da collocare tra i primi posti della massima espressione letteraria latinoamericana. Quello de I Detective Selvaggi è un Bolaño che si spinge oltre ogni limite nel narrare una condizione di assedio tipica del clima cileno in seguito al colpo di stato.

La vita è piena di problemi, anche se a Barcellona, in quegli anni, la vita era meravigliosa e i problemi li chiamavamo sorprese. – I Detective Selvaggi

 

La Letteratura Nazista in America

Gli scrittori della letteratura nazista in America altro non sono che una metafora del mestiere di scrittore, della letteratura che è un mestiere. A mio modo di vedere, abbastanza miserabile, praticato da gente che è convinta che sia un mestiere magnifico.

Il sogno di quella rivalsa civile, e di quel desiderio di indipendenza da ogni dittatura, si ripercuote inevitabilmente in tutti i suoi scritti. A questo punto pare ovvia la riuscita del suo La Letteratura Nazista in America (Adelphi, traduzione di Maria Nicola). Un testo dove lo scrittore cileno racconta delle maggiori personalità letterarie legate a quella specifica realtà politica, e lo fa con un escamotage a dir poco geniale: inventa scrittori, salotti e correnti letterarie facendole poi sembrare realistiche. Un mondo parallelo – e qui il richiamo a Philip K. Dick e al suo La Svastica sul Sole – dove persiste un intenso clima intellettuale prettamente filonazista. Scrittori inusuali che scivolano nel grottesco e nel patetico, fungono da portavoce per quello che si è ormai insinuato in una certa intellighenzia destrorsa che abita gli Stati Uniti.

Notturno Cileno

Notturno cileno è il tentativo di costruire con sei o sette o otto quadri tutta la vita di una persona. Ogni quadro è arbitrario e allo stesso tempo, paradossalmente, è esemplare, vale a dire si presta all’estrazione di un discorso morale. Ogni quadro può essere letto in forma indipendente. Tutti quadri sono uniti da piccoli rami o tubi, che per l’occasione sono perfino più veloci, e necessariamente molto più indipendenti, dei quadri in sè.

Il vissuto di Bolaño non smette di essere presente. Ogni pagina da lui scritta raccoglie i detriti di uno stato ormai al macero. Pinochet e la violenza da una parte, la rivoluzione e il riscatto dall’altra. Quel sogno di indipendenza si ripercuote ovunque e allo stesso tempo continua a raccogliere ottimi riscontri. La situazione del Cile riemerge ancora una volta in Notturno Cileno (Adelphi, traduzione di Ilde Carmignani). Il delirio di una notte, quello di un uomo prossimo alla sconfitta, è al centro della trama di questo romanzo. Il protagonista ingoia il rospo della dittatura messa in atto dal generale, diventando quasi un suo leale servitore. Dietro la sua figura si nasconde il grande sforzo di un’intera nazione messa al tappeto che non può far altro che accettare le condizioni disumane in cui essa stessa si muove. Notturno Cileno è una rivendicazione bella e buona dello sforzo attuato da un popolo in balia delle onde di una dittature militare.

2666

Finito di scrivere I detective selvaggi avevo giurato a me stesso di non scrivere mai più un romanzo: arrivai fino al punto di essere tentato di distruggerlo completamente, perché lo vedevo come un mostro che mi divorava.

Tra le tante cose sopracitate, sicuramente le più importanti, Bolaño riesce addirittura a dare una forma al suo mondo. Prende tutto quello che conserva nella propria mente e lo riversa in un romanzo fiume che segna così la nascita di un disegno letterario che celebra al massimo la sua figura di scrittore latinoamericano. In 2666 (Adelphi, traduzione di Ilde Carmignani), Bolaño prende il male e lo immobilizza all’interno delle mille pagine di questo romanzo composto da più libri. È un’opera ipnotica, onirica, quasi oscura. Permette al lettore di scivolare giù all’interno di un lunghissimo sogno abitato a sua volta da numerosi sogni. Il desiderio si scioglie e diviene la materia principale di cui sono fatti i fiumi che scorrono incontrollati, gli stessi che trascinano con la propria corrente la melma putrida del male che ne viene fuori una volta che si scava nel terreno del proprio vissuto.

Puttane Assassine

Che penso delle puttane? Ho sempre tenuto in grande considerazione questo mestiere e le puttane, pertanto, godono di tutti i miei rispetti. Tutte le puttane. Le povere e quelle di elevato standing. Donne virtuose e lavoratrici, donne che nello stesso tempo sembrano uscite da un melodramma messicano degli anni cinquanta, come dalle pagine della bizantina Ana Comneno. E che, inoltre, come se ciò non fosse sufficiente, sono la cosa più somigliante che ci sia a un orologio. Le puttane sono le donne-orologio per eccellenza. Da Catullo a Baudelaire, tutti i poeti le hanno amate. E chi non le ama o è impotente o un fottuto puritano ipocrita della peggiore specie.

In Puttane Assassine (Adelphi, traduzione di Ilde Carmignani), una delle sue ultime raccolte di racconti, Bolaño prende di petto l’annosa questione che più di altre lo riguarda, ovvero la violenza. Si alza dalla sua sedia e dell’alto della sua scrivania sfida definitivamente quella che è stata la sua vita, un’esistenza trascorsa tra vagabondaggi e fughe di ogni genere. Realizza un breve resoconto attraverso il semplice scrutarsi davanti ad uno specchio. La propria immagine riflessa consente di giungere alla verità. Alla fine, quel sogno di libertà che vedeva nella rivendicazione di indipendenza dal regime di Pinochet una sorta di risoluzione finale al dramma di un intero popolo, si era da sempre nutrito di un’astuta violenza, la stessa di cui tutti – nessuno escluso, e Bolaño lo afferma a più riprese – siamo fatti. Una componente fondamentale che, stando a quanto scritto in L’Ojo Silva – uno dei racconti contenuti in Puttane Assassine -, tiene uniti tutti coloro che sono nati in Sudamerica negli anni cinquanta del secolo scorso, ragazzi poco più che ventenni quando morì Salvador Allende, a sua volta simbolo di una storia che avrebbe potuto scrivere correttamente le sorti di una nazione, ovvero quella del Cile e dell’intero Sudamerica.

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