Nel post di lancio di #GufiamoRivolta, c’era già un chiaro riferimento a questa nuova rubrica, laddove scrivevamo che: «soprattutto ci piacerebbe dare voce ai martiri del lavoro precario, sfruttato e sottopagato: un esercito invisibile e privo di tutele sulle cui spalle gravano gli effetti più deleteri della crisi economica e sociale».
Inauguriamo dunque questa sezione del blog con la storia di Giada.
Giada, ovviamente, è un nome di comodo che usiamo per proteggere l’identità della persona che ha avuto l’esperienza che stiamo per raccontarvi. Il racconto sarà breve e non particolarmente dettagliato, sempre per evitare che chi si espone debba patire qualche spiacevole conseguenza. Eventualità tutt’altro che remota in un contesto sociale in cui le occasioni di lavoro sono poche e non esistono adeguate misure di protezione e di assistenza per chi non riesce a trovare lavoro. Ed è proprio questa la ragione per cui, nonostante l’enorme massa di strumenti contrattuali flessibili che lo Stato italiano, da diversi anni, ha messo a disposizione dei datori di lavoro, spesso c’è ancora chi si vede costretto a lavorare in nero.
E anche la nostra Giada aveva un lavoro, ma non aveva un regolare contratto.
Giada aveva accettato di lavorare in nero sulla base di una promessa di regolarizzazione imminente. Il discorso che le fu fatto suonava grosso modo così:
in questo momento ci sono problemi contabili e burocratici per assumerti, pure con un contratto flessibile, ma tra qualche mese, stai tranquilla, ti metteremo a posto anche con la legge.
Chiaramente, i mesi passarono e la regolarizzazione continuava a rimanere una promessa da attuare in un secondo momento. Inevitabilmente, la necessità di non perdere quel minimo di retribuzione pattuita, impediva a Giada di pretendere il mantenimento della promessa iniziale. Giada temeva, insomma, che se avesse insistito troppo con la questione contrattuale, avrebbe indispettito il suo datore di lavoro, che l’avrebbe cacciata senza pensarci su più di tanto.
Antonio, questo il nome del capo, in effetti, non era noto per avere un carattere facile. Ed era estremamente esigente. Tanto esigente nel pretendere dai suoi dipendenti il massimo, quando poco disponibile a fare altrettanto, per tutto quello che riguardava le sue specifiche competenze. Col tempo, Giada aveva anche scoperto che il rispetto della legge non era esattamente una priorità per Antonio, soprattutto sul piano fiscale. Motivo in più per rassegnarsi ad attendere la promessa regolarizzazione, piuttosto che avanzare vane pretese.
Su una cosa, però, Giada non era disposta a chinare il capo: le tre settimane di ferie estive. Almeno su quello — anche se fin da subito, le era stato chiaro che il capo viveva il periodo di chiusura estiva con un certo fastidio — l’aveva spuntata sia il primo anno, che quello successivo. Decisivo, naturalmente, era stato l’apporto dei colleghi: tutti concordi nel mantenere ferme le tre settimane di chiusura estiva, da far coincidere con le proprie ferie. Nel terzo anno di lavoro nero presso l’azienda di Antonio, però, il capo si impuntò su una sola settimana di chiusura estiva e quindi sulla necessità di elaborare un piano ferie per la seconda (e unica) settimana di ferie che, complessivamente, sarebbero spettate ai dipendenti.
A Giada questa cosa sembrò assurda e ingiusta. Anche perché in agosto l’attività era comunque a scarto ridotto e restare per tre settimane su quattro sul luogo di lavoro e senza aria condizionata (altra voce di risparmio della politica aziendale) era veramente da cretini. E di questo lei era talmente convinta da dirlo anche ad alta voce, in una delle accese discussioni che si ebbero in ufficio sul tema. Una parola di troppo, pronunziata mentre il capo era presente e perfettamente in grado di sentire. A nulla valsero le scuse fatte immediatamente da Giada ad Antonio, sottolineando che non era una questione personale: il capo si sentiva minato nella sua autorità e ferito nell’orgoglio dalla dipendente che gli aveva dato del cretino davanti a tutti. Ipocritamente, Antonio, sul momento, disse che non c’erano problemi e che capita a tutti di dire una parola di troppo in un momento di rabbia. Ma a distanza di qualche settimana convocò Giada nel suo ufficio e le comunicò che non c’erano più le condizioni per proseguire nel rapporto di lavoro:
a partire da luglio noi qui non abbiamo più bisogno di te. Era già da un po’ che ci stavo pensando, ma non c’entra nulla la discussione che abbiamo avuto qualche giorno fa. Anzi, ho accelerato la pratica solo per darti modo di avere tutto il tempo che ti serve, per organizzare al meglio le tue vacanze.
Oltre al danno di rimanere senza lavoro e senza retribuzione per una sola parola fuori luogo, dopo tre anni di esecuzione fedele di tutti i compiti che le erano stati affidati, la beffa di sentirsi prendere in giro, da un capo senza scrupoli e dall’ego evidentemente smisurato.
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