Volendo sintetizzare in un solo slogan l’azione politica di Renzi, la formula “più potere al capo” appare senza alcun dubbio chiara, concisa e corretta. Nella scuola, sul luogo di lavoro e nel Paese, insomma, chi comanda deve avere le mani libere. Il preside manager deve essere «dotato del potere di chiamata diretta dei docenti, ma anche di quello di conferire un aumento stipendiale, dopo avere consultato gli organi del suo istituto». L’imprenditore deve essere libero di licenziare, sapendo che anche se il licenziamento è ingiustificato, al massimo dovrà pagare un certo numero di mensilità (salvo la prova diabolica della discriminazione, ovviamente). E, a maggior ragione, il leader politico del partito che vincerà le prossime elezioni politiche dovrà avere a disposizione un’ampia maggioranza di parlamentari, il cui compito sarà sostanzialmente quello di dare esecuzione alla volontà del capo.
Il capo, poi, potrà anche essere magnanimo e decidere di fare qualche concessione — anche adesso, in materia di riforma scolastica, a fronte di una mobilitazione compatta e forse inaspettata che culminerà nello sciopero generale unitario del 5 maggio, dei passi indietro pare siano ancora possibili — ma non sul punto centrale del suo programma improntato al decisionismo e al rapido fare (anche fare male, purché si faccia).
In altre parole, l’Italicum è l’architrave della costruzione politica renziana: su questa legge, e sulla complementare riforma costituzionale, in sostanza, Renzi conta di fondare il suo successo politico e rafforzare il proprio potere, anche per gli anni a venire.
Solo alla luce di questo calcolo politico si possono comprendere le ripetute forzature degli ultimi tempi.
Renzi era, infatti, quello che l’anno scorso si esprimeva in questi termini:
Legge elettorale. Le regole si scrivono tutti insieme, se possibile. Farle a colpi di maggioranza è uno stile che abbiamo sempre contestato
— Matteo Renzi (@matteorenzi) 15 Gennaio 2014
Oggi, invece, il capo del governo non solo opta per il voto a maggioranza semplice, ma addirittura arriva a porre la questione di fiducia, per mettere a tacere le crescenti voci di dissenso all’interno del suo partito. E questo, pochi giorni dopo la sostituzione in massa tutti i membri delle minoranze che, nella commissione Affari Costituzionali, avevano espresso riserve sull’Italicum così com’è. In poche parole, Renzi forza per chiudere subito su un testo, in materia elettorale, che non gode nemmeno dell’adesione convinta dell’intera maggioranza, di un parlamento il cui primo partito è già ampiamente sovrarappresentato.
Ora qui non si tratta tanto di fare dissertazioni tecniche sull’ultimo comma dell’art. 72 Cost. («La procedura normale di esame e di approvazione diretta da parte della Camera è sempre adottata per i disegni di legge in materia costituzionale ed elettorale»), né di ricordare i precedenti storici di legge elettorale approvata col voto di fiducia (legge Acerbo in epoca fascista; e la famigerata legge truffa in età repubblicana).
Qui va compreso perché, in un contesto di discussione parlamentare senza alcun tentativo di ostruzionismo (gli emendamenti da discutere non arrivavano a cento), Renzi opta per una scelta di rottura così forte e mette la fiducia. Anzi, le tre fiducie, come riportato puntualmente in aula dal ministro Boschi:
«Presidente, onorevoli deputati, a nome del Governo, autorizzata dal Consiglio dei ministri, pongo la questione di fiducia sull’approvazione, senza emendamenti né articoli aggiuntivi, sugli articoli 1, 2 e 4 della proposta di legge n. 3-bis-B ed abbinate, recante disposizioni in materia di elezione della Camera dei deputati nel testo della Commissione identico a quello modificato dal Senato».
La risposta, in effetti, emerge con chiarezza dalle parole con cui Renzi stesso ha lanciato su twitter la sua sfida a tutti quelli che non lo sostengono:
Dopo anni di rinvii noi ci prendiamo le nostre responsabilità in Parlamento e davanti al Paese, senza paura (1).
La Camera ha il diritto di mandarmi a casa, se vuole: la fiducia serve a questo. Finché sto qui, provo a cambiare l’Italia (2).
Ma ancora più nette erano state le parole che il premier aveva fatto arrivare, via lettera, nei giorni scorsi, a tutti i circoli del PD:
Se questa legge elettorale non passa è l’idea stessa di Partito Democratico come motore del cambiamento dell’Italia che viene meno. Se davanti alle prime difficoltà, anche noi ci arrendiamo come potremo costruire un’Italia migliore per i nostri figli? Se gli organi di un partito (primarie, assemblea, direzione, gruppi parlamentari) indicano una strada e poi noi non la seguiamo come possiamo essere ancora credibili? Abbiamo portato il PD a prendere tanti voti degli italiani: davvero oggi possiamo fermarci davanti ai veti?
Ecco perché nel voto di queste ore c’è in ballo la legge elettorale, certo. Ma anche e soprattutto la dignità del nostro partito. La prima regola della democrazia è rispettare, tutti insieme, la regola del consenso interno. Quando ho perso le primarie, ho riconosciuto che la linea politica doveva darla chi aveva vinto. Adesso non sto chiedendo semplicemente lealtà; sto chiedendo rispetto per una intera comunità che si è espressa più volte su questo argomento, a tutti i livelli. Perché questa legge elettorale l’abbiamo cambiata tre volte per ascoltare tutti, per ascoltarci tutti. Ma a un certo punto bisogna decidere.
Ho preso l’impegno con voi, iscritti al PD, di guidare il partito fino al dicembre 2017, quando si terranno le primarie. In quell’appuntamento toccherà a voi, alla nostra comunità, scegliere se cambiare segretario. Ma fino a quel giorno lavorerò senza tregua per dare alla nostra comunità la possibilità di essere utile all’Italia.
Come è evidente è il segno del comando quello che a Renzi interessa imprimere. Basta mediazioni. La legge è questa e non c’è più bisogno di discutere. Nemmeno i pochi emendamenti presentati dalle opposizioni e dalle minoranze del PD. Io ho i voti, io ho la maggioranza, io decido.
Una linea politica e comunicativa che è, allo stesso tempo, uno sviluppo coerente del nuovo corso che Renzi ha dato al PD da quando ha vinto le primarie (e ancor di più dopo il largo successo elettorale delle Europee) e un’anticipazione di cosa farà, nel nuovo assetto istituzionale, quando avrà una sola Camera a garantirgli la fiducia.
L’Italicum, nella sua strategia, si configura così anche come una prima, importante, battaglia da vincere, per arrivare in posizione di forza all’eventuale referendum costituzionale confermativo (abbiamo una legge elettorale monocamerale, possiamo mai mantenere intatto il vecchio impianto del bicameralismo?).
In ogni caso, Renzi vuole comandare (e già comanda). Vuole poter decidere e assumersi la responsabilità dei suoi errori. Anche quando ci sono persone all’interno del suo partito a dirgli che sta sbagliando, lui vuole poterle ignorare, applicando la forza dei numeri invece che il vecchio metodo dialettico (tesi, antitesi, sintesi).
Anche se gli si fa presente, nel merito, che l’Italicum non è affatto immune da quegli stessi vizi che avevano portato alla dichiarazione di incostituzionalità del famigerato Porcellum. Sul punto, come sempre, è chiarissimo Villone:
«La sentenza 1/2014 aveva inteso fulminare la possibilità — si badi, non la certezza — che un ridotto consenso nei voti si traducesse in una maggioranza assoluta di seggi. Dunque la domanda è: può ora accadere con l’Italicum ciò che poteva accadere con il Porcellum? Certamente sì, perché al ballottaggio si arriva senza soglia. Accedono le due liste più votate al di sotto del 40%, quale che sia la percentuale conseguita. Anche se, per esempio, fosse il 15 o 20%. E se per ipotesi tutti gli aventi diritto al voto confermassero nel ballottaggio la scelta fatta nel primo turno, quel 15 o 20% si tradurrebbe magicamente nel 55% dei seggi. Il tutto è aggravato dal premio alla singola lista e non alla coalizione. Che il ballottaggio curi i difetti del Porcellum è un ingannevole gioco di specchi.
Quanto alla libertà degli elettori di scegliere i rappresentanti, non basta limitare il blocco ai capilista. Già rileva che sarebbero di fatto un’ampia maggioranza degli eletti. Ma ancor più conta che ogni elettore vota necessariamente anche il capolista. E se non lo vuole? Non può volere per una parte, e disvolere per un’altra. Il voto di tutti è inevitabilmente condizionato ex lege, e quindi per definizione non è libero».
Nuova legge elettorale tutt’altro che perfetta, quindi, ma per Renzi non c’è più nulla da discutere e men che meno da emendare.
Il presidente del consiglio, nonché segretario del PD, mostra i muscoli e tira dritto, insomma. E lo fa perché è certo che ogni eventuale ipotesi di fronte comune tra le opposizioni parlamentari e le frange di dissenso interno al PD, col voto di fiducia, verrebbe irrimediabilmente a cadere.
Certezza che si fonda sui ripetuti cedimenti che le minoranze del PD hanno regolarmente messo in atto fin qui. Certezza che solo un mezzo miracolo, purtroppo, potrebbe sgretolare, sbloccando la situazione e ponendo per la prima volta un freno ai continui rilanci di un uomo che sembra fin troppo sensibile al noto vizio dell’eccesso di potere.
(*) articolo uscito originariamente su EsseBlog.it
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