Con Guerra e Guerra (1999), Bompiani continua la pubblicazione delle opere del maestro magiaro László Krasznahorkai, portando in questo caso a compimento la sua tetralogia con il terzo volume dopo Sátántangó (1985), Melancolie della Resistenza (1989) e prima dell’ultimo, Il Ritorno del Barone Wenckheim (2016). Quattro libri che hanno rappresentato, in realtà, il tentativo costante di avvicinarsi a un nocciolo, a un “centro”, a qualcosa in grado di raccontare l’Ungheria post sovietica e contemporanea, con temi comuni e con uno stile, ancora oggi, unico e inimitabile grazie al quale più volte il nome dell’autore nato a Gyula – dove è ambientata la maggior parte delle sue opere – è stato accostato a quello del possibile vincitore del Premio Nobel.
Questa era l’unica cosa che aveva saputo con certezza fin dall’inizio: il manoscritto era stato scritto da un pazzo.
È difficile raccontare Guerra e Guerra (traduzione di Dóra Várnai) senza togliere al lettore il gusto della scoperta pagina dopo pagina: la storia inizia con il personaggio principale – Gyorgy Korin, “minuscolo puntino nel grandioso universo, questo insignificante archivista arrivato dalle viscere di un polveroso archivio a duecentoventi chilometri da Budapest” – all’interno di un locale, di un bar (che ricorda le atmosfere di Sátántangó) dove, visibilmente brillo, racconta della fallita rapina da parte di alcuni balordi da lui subìta. Fin dall’incipit, appare chiaro – nel delirio del racconto e nella voce narrante del protagonista – lo stato di alterazione e di esaltazione dal quale è dominato, dal momento in cui, archiviando alcuni fascicoli, si è imbattuto in un antico manoscritto dal “carattere misterioso” e dall’”inesplicabile contenuto” in cui ha creduto di cogliere – finalmente – il senso delle cose del mondo.
Magari è il primo caso del genere negli USA ma io non sono venuto qui per iniziare una nuova vita. Io qui vorrei finire quella vecchia.
Così Korin decide a “quaranta-e-non-so-quanti-anni” di lasciare il suo lavoro, di raggiungere New York – il “grande viaggio al centro del mondo” – e, una volta arrivato lì, di trovare un modo per aprire un dominio su “quella cosa con quel nome strano che era Internet” – siamo nel 1997, agli albori di quella tecnologia – “ma che era anche completamente spirituale, poiché esisteva soltanto nell’immaginazione creata e sostenuta dai computer”, per rendere noto all’umanità che quell’opera misteriosa, quel manoscritto di centocinquanta pagine cucito insieme a pochi dollari nella fodera interna del suo liso cappotto, esistesse. Quella di Korin diventa così una peregrinazione, una sorta di Odissea nella quale sarà sempre più ossessionato dal manoscritto e dai quattro misteriosi personaggi – Kasser, Falke, Bengazza, Toot – che ne animano le pagine, quattro soldati che sembrano viaggiare attraverso il tempo (l’antica Creta, l’Inghilterra durante la costruzione del Vallo di Diano, la Colonia del 1869, Venezia nel 1423 e, ancora, la Spagna del 1493 in attesa di Colombo) come alla ricerca di una pace e di una parola che possa dirsi davvero finale e che – loro malgrado – non riescono a evitare l’arrivo improvviso e impetuoso di nuovi sconvolgimenti di guerra preannunciati in maniera febbrile dalla comparsa di un personaggio misterioso di nome Mastemann, anch’egli comune a tutti i passaggi della storia, vero e proprio deus ex machina del Male. Il tentativo di ordine e compiutezza che Korin tenterà, si farà sempre più parossistico fino a trovare se non una fine, quanto meno una conclusione addirittura fuori dalle pagine del libro (ma non è il caso di addentrarci troppo).
Io credo che dopo non ci sia nulla. Solo un grande buio, un grande spegnere le luci, e infine viene spento anche quel gran buio
Come negli altri tre romanzi – che per Krasznahorkai sono in realtà il tentativo di scrittura di un unico, grande libro – Guerra e Guerra deve molto alla lingua del suo autore, a quello stile così incredibilmente lento, ipnotico, ripetitivo che poco a poco dà quasi un senso di assuefazione, qui non scevro da un gusto dall’umorismo sottile. Korin è linguisticamente alter ego di Krasznahorkai, si salva dalla rapina grazie ai suoi estenuanti racconti e, in qualche modo, è come se il suo procedere ossessivo e il suo sacrificio della vita quotidiana rispetto all’idea che lo domina lo preservassero – come una creatura innocente – dal male che gli ruota intorno per l’intera durata del libro. Korin è una sorta di jurodivyj, il Folle in Cristo della religione ortodossa russa come di tutta la letteratura slava, un uomo altissimo, calvo, con due orecchie a sventola che lo fanno sembrare un lunghissimo e lugubre pipistrello ma che, allo stesso tempo, per forza della sua radicata idea, è capace di ottenere da tutti ciò che in fondo desidera.
Un nuovo ordine sarebbe stato creato sulla terra, un ordine il cui potere regnante si trasfigurava, dove i banchieri di conto, i cambiatori e gli heroldi, quindi all’incirca duecento persone si sarebbero incontrati ogni tanto a Lione, a Besancon o a Piacenza, al fine di rendere evidente che il mondo era loro.
Sullo sfondo del suo viaggio e del suo percorso, i problemi dell’Ungheria: anche in Guerra e Guerra, lo stato ungherese è descritto senza alcuna pietà, uno stato che qui – a differenza degli anatemi contenuti nel Barone, è ormai visto come completamente snaturato rispetto alla vera natura del popolo ungherese – “un popolo selvaggio che viveva secondo leggi chiare e pure, un popolo mosso soltanto dalla necessità costante di portare a termine grandi azioni, un popolo barbaro che piano piano perse interesse per un mondo in cui ormai resta spazio solo per i piccoli gesti” – ridotto a mera, irriducibile somma d’identità diverse, accumunate solo dal denominatore dell’arrivismo, dell’opportunismo e della meschinità, seguìti alla fine della cortina di ferro e al dominio sovietico. Ma come sempre, in Krasznahorkai, il particolare si fonde con una visione molto più ampia, capace di tenere insieme una riflessione sulla natura della vita e dell’uomo all’interno della Storia. Ecco allora che la grande metropoli newyorchese non appare certo come l’Eden immaginato, piuttosto come la Torre di Babele dipinta da Bruegel, immagine stessa dell’impossibilità non solo di comunicare tra pari ma di accedere a un senso più alto delle cose.
Metteva in campo tutte le possibilità della lingua, spingendosi anche oltre queste possibilità, le parole nelle frasi si accatastavano una sopra l’altra, si congestionavano, si scontravano una contro l’altra, ma poi non succedeva quel che succede durante un incidente stradale, non schizzavano via da tutte le parti, bensì si riunivano come in un puzzle, nel quale però la posta in gioco era la vita e la morte.
La storia dei quattro soldati concede a Krasznahorkai la sua consueta parzializzazione del racconto su diversi piani narrativi; qui, in particolare, l’escamotage del manoscritto gli consente addirittura di creare una sorta di cornice – ma sarebbe meglio parlarne al plurale – con la vita di Korin nei suoi diversi momenti – Budapest, l’aeroporto, la casa a New York, il viaggio verso la Svizzera – e il racconto della sua lettura e della sua trascrizione online che ogni mattina in prima persona lui stesso fa a una donna portoricana “perennemente spaventata da qualcosa” che, però nei fatti, non può comprenderne la lingua (scene tra i momenti più belli e toccanti di un romanzo qui e là un po’ farraginoso rispetto ai primi due capolavori). E il manoscritto – che occupa circa un quarto del volume – consente anche uno scarto rispetto alla consueta scrittura affascinante e magmatica, per offrire al lettore veri e propri squarci di stile come variazioni su un canone che, ogni volta, sa immergersi dentro lo spirito del tempo che attraversa.
C’era solo guerra e guerra ovunque, perfino dentro di lui
Con Guerra e Guerra – che prende il nome dal dominio acquisito da Korin per la scrittura eterna sulla rete, warandwar.net – ma che in maniera naturalmente più ampia allude all’impossibilità dell’uomo storicamente ma anche ontologicamente di raggiungere una qualsivoglia forma di pace – “perché non esisteva una Via d’Uscita” – anche in Italia si porta a compimento quello che è il più grande sforzo letterario di Krasznahorkai, quasi un’epopea che affronta l’immobilità profonda nelle speranze del blocco dell’Est europeo, che ne scardina le illusioni capitaliste e che restituisce alla sua terra e ai suoi lettori la condizione di solitudine dell’uomo senza tempo e senza spazio.