Seguire eventi live anche di un certo peso a Milano resta un’attività legata ad un grande impegno volitivo per l’appassionato appiedato e che si ripone la sua fiducia nei mezzi pubblici. Le venues sono collocate tutte belle lontane dal centro, e per una curiosa questione karmica, vieni a scoprire che il concerto che ti interessa si tiene sempre in quella più lontana da te. Ma c’è un locale su tutti che riesce a unire l’intera comunità degli non automuniti di fronte alla medesima percezione spaziale di lontananza da qualsiasi punto di riferimento identificabile con Milano, e al terrore di perdere l’ultimo autobus utile ed evitare l’elemosina di un passaggio verso casa – che poi, voglio dire, a Milano? – o la rassegnazione alla nottata sotto le stelle fino alla ripresa del servizio, che magari d’estate ci può pure stare, ma d’inverno un po’ meno: il Circolo Magnolia, dove ci rechiamo lì per la data unica in Italia di Gregory Alan Isakov.
Una ulteriore aggravante si presenta inoltre alla specifica comunità di chi, soprassedendo sulla dispersione geografica del posto, abbracciando l’idea di affidarsi alla buona sorte o rassegnandosi alle due ore e passa, tra andata e ritorno, che dovrà sobbarcarsi, si presenta al Magnolia accreditato dalla propria testata: quella di sentirsi dire che, quale che sia il giornale per cui scrivi e che ti accredita, non ci sono santi, senza versare la tangente Arci non puoi entrare. Ma sulla questione dei circoli Arci torneremo in un altro contesto, prometto. Per adesso, soffermiamoci sul momento in cui, dopo esserci riavuti dalla traversata, essere sopravvissuti all’attraversamento dell’autostrada che porta all’aeroporto di Linate, aver profuso bestemmie in diverse lingue al guardiano all’ingresso, aver fatto mezzora di fila insieme a tutti gli intervenuti democraticamente uniti dal rito del tesseramento, varchiamo finalmente la porta sotto l’insegna col ranocchio bianconero, e veniamo accolti dal design minimale che consiste in un bancone del bar, un paio di sedie e due tavolacci di legno, e un tendone di plastica nero sopra le nostre teste, al centro del quale scintilla il palco su cui Isakov si è appena presentato al microfono, e accordata la chitarra, lascia cadere le prime note. A quel punto, dimentichiamo tutto quello che c’è stato e, temporaneamente, tutto quello che ci sarà, per lasciarci incantare dal generoso spettacolo offerto da questo folk-singer di mestiere e cuore di origine sudafricana, ma che viene dal Colorado per raccontarci le sue storie di irrequieto viandante con la chitarra in spalla.
Il concerto si apre con la titletrack del primo album di Isakov, That Sea, The Gambler, un inizio piuttosto spiazzante, e procede alternando pezzi principalmente dagli ultimi due dischi da studio, i più celebri Big Black Car, Amsterdam, If I go, I’m going, ma anche tirando fuori cose più vecchie, come The stable song, riproducendo in buona parte i brani suonati insieme alla Colorado Symphony per la raccolta del 2016, nonché a sorpresa, chicche inedite quali una cover di Dry Lightning di Bruce Springsteen, da The Ghost of Tom Jones, eseguita a doppia chitarra dopo aver congedato il resto della band, che ci fa ben capire, casomai non ci fossimo accorti da soli, quali sono i modelli di riferimento della sua formazione musicale.
L’esibizione è davvero generosa e lascia spazio a numerosi momenti di improvvisazione, accompagnati dalla spontaneità chiacchierona che è tipica dei cantori folk americani, e Isakov dimostra di aver vissuto abbastanza in Colorado da averla assorbirla bene. “I like it here… It’s dark. I like to sing sad song in the dark”, annuncia, a un certo punto. Il pubblico ride, c’è grande partecipazione e calore, e Isakov sembra genuinamente emozionato, mentre le luci si spengono, e si riprende a suonare alla luce di un piccolo lume posto nella grancassa, tra i piedi del batterista.
La saletta del Magnolia è piena, ma nel buio non si vede bene quanta gente è riunita, forse un paio di centinaia di persone, ma l’atmosfera è quella di un falò tra amici. La band si stringe intorno ad un microfono d’ambiente, ad amplificatori spenti il concerto va avanti in acustico: due chitarre, contrabbasso, banjo, percussioni. Poi si torna all’elettricità. Un’ora e mezza abbondanti di concerto – difficile tenere d’occhio l’orologio al buio – e dopo aver pronunciato un’ultima volta quelle che sono le uniche parole che Isakov ha imparato in italiano, “sogni d’oro”, arriva il congedo, il bis con All shades of blue. Pelle d’oca. La sentiamo mentre ci incamminiamo verso il bus. Forse, quella voce che si disperde nella notte di Segrate, allo sparuto gruppetto di persone che si inoltra tra gli alberi nel buio sembra perfino più magica.