Il graphic novel “Cash: I see a darkness”

La leggenda del country americano raccontata in una biografia a fumetti

Cash: I see a darkness

di Reinhard Kleist

Bao Publishing, 224 pagine

Che Johnny Cash sia tornato, nell’ultimo periodo della propria vita e carriera, a splendere sotto le luci della ribalta dopo un periodo in cui il suo nome era stato, se non proprio dimenticato, messo da parte dal potentissimo mercato dell’industria musicale country, è un fatto. Allo stesso modo non si può negare quale ruolo chiave in questo suo “ritorno” abbiano avuto quelle American Series progettate per lui dall’eclettico Rick Rubin (già produttore di Beastie Boys e Slayer e con un fiuto da segugio nell’individuare i venti favorevoli del mercato musicale) che intravvide nella voce non più agile di un Cash avanti negli anni una promettente risorsa nell’interpretare sia brani autografi che canzoni provenienti dagli ambiti più disparati, rendendolo cantastorie universale, simbolo vivente delle alterne sorti dei musici nelle mani delle etichette discografiche. Se alcuni nella storia della letteratura hanno avuto l’azzardo di pensarla come unico ed unitario poema dello Spirito, dalle sue origini fino a oggi, che trovò e ancora trova accoglienza in una moltitudine di petti, bocche e grafie, Rubin pare aver avuto in mente qualcosa del genere, per quel che riguarda il rock, nell’affidare all’aedo Cash il materiale popular che ne contrassegnò la rinascita discografica.

Tornato – non senza sforzo – sotto i riflettori, inaugurò quella “cashmania” che ebbe come macroscopica conseguenza il biopic di James MangoldWalk The Line – Quando l’amore brucia l’anima”, un film che, se possiede un difetto, è quello di essere scritto tutto in caratteri maiuscoli, dimenticando che la storia di Cash è stata in parte anche l’epica dell’America dolente e proletaria dei soldati, dei piccoli agricoltori e degli uomini comuni che vedevano in lui uno di loro.
Una caratteristica, quest’ultima, che Reinhard Kleist, nel progettare il graphic novel “Cash – I See A Darknees” ha tenuto ben presente e se il cuore e l’identità di un’opera si misurano anche dalla cura che si ripone nel congetturarne incipit ed excipit si può dire che egli abbia colto nel segno. Il preambolo è straniante: uno sconosciuto commette un delitto, viene arrestato, finisce in prigione. Non è importante (e, del resto, non è detto) che l’uomo in questione sia Glen Sherley, fan di Cash e autore di una canzone che quest’ultimo canterà durante il concerto nel Penitenziario di Stato a Folsom, in California. Da un lato potrebbe trattarsi di un detenuto qualsiasi, dall’altro i suoi tratti, il modo in cui è disegnato, lo rendono impressionante alter ego del cantautore. Johnny Cash è Glen Sherley: è stato solo uno degli scherzi del Caso a portare uno in galera e l’altro sotto i riflettori (ma Cash finirà in galera e Sherley sotto i riflettori, almeno per un tempo limitato della sua esistenza).

È nella sovrapposizione/identificazione dei due character Cash e Sherley che è possibile rilevare l’incolmabile e dolorosa distanza tra i due uomini (un articolarsi del racconto che avrebbe apprezzato Eddie Bunker, lui che a una vita in carcere e ai territori marginali della società fu destinato da congiunture sfavorevoli e che fu in grado di convertire quelle “sue prigioni” in una letteratura sapientemente americana).

Kleinst apre con una digressione, una deviazione di fuoco che è campo lunghissimo, istantanea degli States. Soprattutto, concepisce una mossa vincente, atta a far presa sul cuore del lettore: inizia colmando la sua opera di umanità e con lo stesso proposito la conclude, mostrandoci un Cash anziano, malinconico, tanto più decadente se contrapposto all’aitante e tormentato Cash della più giovane età: “Vuoi la tua coperta?” gli chiede Rubin e, nel farlo, si rivolge al vecchio di cui quella sua creatura musicale ha fattezze. C’è circolarità, anche: la storia di Sherley, il suo epilogo, torna nelle parole tetre del cantautore, nelle ultime pagine.
Le pagine conclusive immortalano anche quel momento cruciale in cui il produttore propose al suo protetto Hurt, il brano di Trent Reznor che verrà poi da lui magistralmente interpretato, un uomo che della musica dei Nine Inch Nails probabilmente non aveva idea, ma che seppe leggerci dentro, riconoscervi una parte di sé e instillarla nella canzone, andando forse a costituire il culmine estetico e simbolico del progetto di Rubin. Sicuramente quella commovente cover di Hurt arrivò al pubblico mondiale come uno schiaffo: ancora una volta nella distanza, nella figurazione di due punti che non s’incontrano mai, la propensione dell’uomo per l’analogia rintraccia sovrapposizione, riconoscimento e, quindi, identità: il brano di un autore che per stile musicale è quanto di più lontano dalle sonorità di Cash diventa per lui una seconda pelle.

Uno dei topoi della leggenda di Johnny Cash viene rintracciato dai biografi negli abusi di sostanze stupefacenti e nei guai giudiziari, nei problemi di salute e nell’annullamento di molti concerti che da essi derivarono. Sia nel film di Mangold che nel comic di Kleist questi avvenimenti hanno spazio e, ovviamente, ha la sua giusta risonanza la figura della cantautrice June Carter, amica, collega, angelo custode e poi seconda moglie di Johnny. Ma se su pellicola il calvario della disintossicazione assume spesso toni pietistici, Kleist si affida alle infinite potenzialità espressive del disegno e riduce la figura di Cash a un garbuglio di nervi e dolore, i suoi tratti scompaiono, resta una figura stilizzata a “indossare una corona di spine”. Non c’è dignità nel dolore. E allora perché non mostrarlo nella sua forma più pura e astratta, urlarlo sulla pagina abbandonando per un attimo il realismo e, in questo modo, fornirgliene una? Le neanche tre tavole in cui viene consentito al lettore di affacciarsi sull’inferno dell’astinenza e sulle difficoltà fisiche della disintossicazione funzionano e rendono onore alla memoria di quell’uomo in nero tutto d’un pezzo. La differenza tra Mangold e Kleist risiede nel fatto che quest’ultimo non ama mostrare, non ama soffermarsi sui particolari sordidi di un’esistenza. L’umanità di Cash, colta nella sua decadenza, viene trasfigurata e affidata a un ritratto corale in cui un genuino espressionismo ha la meglio su qualsiasi effetto speciale. Ci si muove così, nel ricostruirne la biografia, dagli eventi traumatici (e non) dell’infanzia al servizio militare, sino all’indomabile passione per la musica che lo portò a studiare la chitarra e all’incisione, coi Tennessee Three, di quel triste brano d’amore che fu Cry Cry Cry; da lì in poi, l’inarrestabile successo che  seguì (e che parallelamente decretò la fine del primo disastroso matrimonio).

Anche qui, come nel film, l’episodio centrale è fornito dal concerto alla Folsom Prison, live inciso nel 1968 che confluirà nel ventiseiesimo album di Cash, performance che si svolse nonostante l’opposizione dell’etichetta discografica a un’iniziativa fino ad allora unica: nessuno aveva mai tenuto un concerto in una carcere di massima sicurezza. All’interno della narrazione l’episodio è di centrale importanza anche in virtù del fatto che, abbandonato il procedere diacronico per quello sincronico, è il segmento chiave, abilmente preparato dal precedente climax, in cui le storie di Cash e del detenuto Sherley s’incrociano. “At Folsom Prison”, col suo straordinario contenuto musicale ed emotivo costituirà per entrambi (nonché per la storia del cantautorato americano tutto) un punto di non ritorno.

L’originalità e la freschezza dell’invenzione narrativa di Kleist, che è lieve nella forma nonostante il segno sia quello tragico del contrasto tra bianco e nero che segna profondamente il volto dell’uomo Cash, la rendono un prodotto la cui fruizione è vivamente consigliata non solo ai “cashofili” di tutto il globo che forse, alla ricerca di minuzie da aggiungere alla propria collezione, resterebbero delusi. È invece romanzo grafico ottimo anche per chi è semplicemente alla ricerca di una buona storia e di chi, con essa, intenda un racconto al cui interno siano vivi e rilucano ulteriori racconti. Il ritratto che Kleist offre di Cash è commovente senza ricorrere a pietismi e trovate strappalacrime, lo è in virtù del sano funzionamento degli ingranaggi narrativi, di una sceneggiatura ben costruita, dell’interpretazione sobria e personale con cui l’artista viene omaggiato dal fumettista tedesco: una grazia e una sensibilità simili a quelle con cui egli interpretò, rendendole proprie, molte delle più grandi canzoni dei nostri tempi.

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