Un film di Wes Anderson. Con Ralph Fiennes, F. Murray Abraham, Mathieu Amalric, Adrien Brody, Willem Dafoe. Durata 100’. USA 2014.
Il primo campanello d’allarme dovrebbe suonarti quando i Cani ti dedicano una canzone: “essere di culto” ed “essere vivo” proprio non vanno insieme. Il primo canonizza quello che già hai prodotto, con tanto di ristampa in dvd dei tuoi vecchi film a prezzi sovietici; l’altro ti spinge a produrre cose n u o v e, nonostante le attese che la canonizzazione ha prodotto verso di te. Odore di guai. Come saprete bene, questa settimana Wes Anderson torna al cinema con Grand Budapest Hotel e, a giudicare dalla coda mostruosa fuori dal cinema Odeon di Bologna la sera dell’anteprima, le aspettative ci sono eccome.
Questa volta il regista texano meno texano di sempre ci trascina in un’Europa alpina e fittizia (ma non troppo) alle soglie di una guerra e che ugualmente non smette di concedersi lussuose vacanze al Grand Budapest Hotel. Zero Moustafa, ormai proprietario dell’albergo, racconta delle sue avventure come lobby boy al fianco di Monsieur Gustave, manieratissimo concierge dall’eleganza impeccabile e al tempo stesso mascalzone, arrivista, dedito alla seduzione delle vecchie – talvolta vecchissime – nobildonne che popolano il Grand Budapest nella speranza di un qualche lascito. Ma la morte di una di loro non rispetta il copione. Lady T è stata infatti assassinata, e l’apertura del testamento – in cui un prezioso quadro, Il ragazzo con la mela, viene lasciato a M. Gustave – susciterà l’odio del figlio Dimitri, disposto a tutto pur di ottenere l’intera eredità, e i sospetti della polizia. Basterà una rocambolesca fuga da mascalzone a mettere in moto la macchina narrativa di Anderson.
Grand Budapest Hotel non si discosta molto dagli altri prodotti di Anderson, tutti figli di un’industria culturale di qualità che hanno fatto sognare noi e mangiare lui; anzi di quel marchio di fabbrica si rivela un tentativo di intensificazione sotto quasi ogni aspetto. La piccola cornice romanzesca dei Tenenbaum lascia posto a un triplice – e vertiginosa – mise en abyme che rieccheggia sapientemente la tradizione letteraria di quel XIX secolo di cui M. Gustave rappresenta l’ultimo rudere. Se poi eravamo abituati a storie corali, Grand Budapest Hotel ci getta in un’orgia di personaggi degna di quella – forse meno oscillante tra il figurato e il letterale – di Nymphomaniac, con esiti però più incerti delle sue precedenti prove: la naturale attenzione verso M. Gustave e Zero Moustafà riduce questa teoria di ritratti a figurine limitate a pura funzionalità narrativa. Tanti piccoli santini che appaiono senza mascherare il compiacimento della star che si nasconde dietro al personaggio, e che svolgo il loro ruolo in rapida successione e svanendo poi, incapaci di sostenere una trama dai ricchi presupposti, e che si sgonfia tutto d’un colpo, abbandonandoci senza più benzina alle soglie di un finale che c’è poco. Questo stesso baraccone di stelle riesce però a offrire grandi soddisfazioni in tutte le prove individuali: Adrien Brody e Wilhelm Defoe sopra tutti stregano col loro fascino sempre in bilico tra il goth e il farsesco. Seppure le classiche riprese à la Wes Anderson vengano poi riproposte al di fuori di ogni ragionevole dosaggio, c’è spazio nel film per qualche curiosa soluzione che guarda direttamente al cinema hollywoodiano classico: le riprese in doppia cornice di alcune scene offrono un minimo di respiro ad un ritmo filmico che rischia altrimenti di sclerotizzarsi, fossilizzandosi nella ripetizione di una formula che sì è firma di uno stile ma non può rivelarsi ripiego passepartout. Non trascurabile una serie di raffinatissimi rimandi, appena accennati, ad un cinema d’altri tempi ormai perduto e solo rievocato, con nostalgia e consapevolezza d’appartenere ad un mondo che non c’è più. Un po’ come quel Gustave che maschera con l’eleganza la sua spregevolezza in un mondo in cui la spregevolezza non si maschera più.
Il talento di Anderson, sia nella costruzione delle trame sia nella tecnica filmica, non si può discutere; tuttavia, alla luce dei suoi precedenti lavori, la ripetizione o meglio dei caratteri che lo hanno reso celebre – dall’inquadratura, alla ricchezza del sistema dei personaggi sino al suo noto sarcasmo, qui a tratti un po’ senza fiato – non soddisfa più. Il risultato oscilla fra la rassicurante ripetizione dell’uguale – o forse del seriale? – e la delusione per una sfida non raccolta. Sfida a reinventarsi, a riproporsi uguale e diverso, forse più libero da come un certo pubblico lo vorrebbe.
Vi lascio con questa immagine, estremamente andersoniana.
Zero e Agatha in un cinema, si spogliano e fanno l’amore. È una sequenza di pochi secondi, mentre lei si sfila la maglietta la telecamera glissa con pudore al fondo della sala. Amore e cinema sono un binomio inscindibile, crediamo ci voglia dire Anderson. Ma amore è capacità di lasciarsi trasportare, di sapersi rinnovare quotidianamente ed imparare a vedere con occhi nuovi quello che si ripresenta nel quotidiano. Se questo non succede, l’amore muore. E anche il cinema. Ricadere nell’autocitazione, o meglio nei clichés che pubblico e critica hanno saputo selezionare e assorbire meglio è un po’ come disinnamorarsi. È un po’ guardare tua moglie che si trucca per assomigliare alla ragazza nella foto e scoprire che forse forse ti è venuta voglia di farti l’amante.