Quando si pensa a Coltrane, i temi ricorrenti, in ordine decrescente di popolarità, dal mondano all’esoterico, sono: (a) un bel sassofonista pensieroso con la mano sinistra dietro la nuca; (b) il mantra di A Love Supreme – citato da centinaia di rapper; (c) il tone circle, un approccio geometrico/religioso agli intervalli tonali sviluppato da Coltrane stesso per espandere le capacità di improvvisazione. Di certo, in pochi assocerebbero a Coltrane né l’immaginario metodista del gospel, né quello indiano degli Hare Krishna. Troppo Whoopi Goldberg il primo, troppo George Harrison il secondo. E, invece, Coltrane, il gospel e l’induismo hanno molto più in comune di quanto si creda, tanto più se, per una volta, la Coltrane in questione si chiama Alice, non John.
Alice McLeod Coltrane nasce a Detroit nel 1937 e diventa, non ancora trentenne, una delle più apprezzate pianiste della scena jazz, nonché l’unica arpista degna di nota al di fuori della scena classica, decadi prima di Joanna Newsom. Di certo, però, è l’incontro nel 1965 con il suo futuro marito a cambiarle la vita: sarà un matrimonio breve, il loro – John morirà soltanto due anni dopo per un tumore al fegato – ma estremamente fruttuoso per entrambi. Da un lato, le composizioni del sassofonista diventano sempre più avanguardistiche e influenzate dalla spiritualità orientale, e non a caso la scelta più scontata al momento di sostituire McCoy Tyner nel suo quintetto stellare, fresco fresco dall’incisione di capolavori come Ascension e Meditations, è proprio sua moglie. Dall’altro, Alice inizia a incidere a ripetizione i propri brani – blues cosmici in cui cori, archi, e droni supportano le divagazioni del suo organo elettrico – collaborando con giganti come Ron Carter (che a sua volta suonerà con gli A Tribe Called Quest), Charlie Haden, Pharoah Sanders.
Quando John muore però, tutto questo si ferma. La depressione travolge Alice, che si affida completamente ai trattamenti dei guru indiani, cambiando nome nel difficilmente pronunciabile Turiyasangitananda e arrivando a fondare lei stessa un monastero, un ashram, a Malibu, a due passi dall’edonismo californiano più sfrenato. Come insegnano Damon Albarn e Prince, smettere di incidere non significa necessariamente smettere di suonare: Alice Coltrane inizia a scavare a fondo nel repertorio tradizionale indiano, sperimentando al tempo stesso l’avanguardia dei sintetizzatori, forse lo strumento migliore per supportare i loop meditativi che stava cercando. Se i frutti di questa ricerca individuale, che venivano regolarmente messi su cassetta e diffusi tra i membri del tempio, sono ritornati a galla trent’anni dopo, lo si deve, ancora una volta, a David Byrne, e alla sua mitologica Luaka Bop, che aveva già riscoperto gente come William Onyeabor, Shuggie Otis e gli Os Mutantes.
La musica di Alice Coltrane, a un primo ascolto, sembrerebbe essere l’ennesima evoluzione di un genere, il gospel, che ha avuto un influenza altrettanto variegata del suo mefistofelico fratello chiamato blues. Dai cori in Life of Pablo di Kanye West al soul un po’ bacchettone degli Staple Singers, dall’ascensione stupefacente dei Primal Scream a quella meno entusiasmante del Bob Dylan salvato (riapparso nell’ultima uscita dei suoi Bootleg). In realtà, a rendere interessante l’opera di Coltrane è la sua lontananza dagli esoterismi new-age tipo Brian De Palma in Mission To Mars. Ma soprattutto, la (relativa) accessibilità delle sue composizioni: un accostamento inedito tra giri armonici e strumenti familiari all’orecchio occidentale – il gospel, le tastiere – e la ripetizione modale tipica del mondo orientale. Un mix tra il Dr. John voodoo di The Sun, The Moon…, Sun Ra e Van Morrison nel periodo Astral Weeks. Eccolo, Van: forse l’unico tra i cantautori anglofoni “classici” ad aver capito la potenza ascetica della ripetizione. Listen to the lion, listen to the lion, listen to the lion, listen to the lion…
Per celebrare la pubblicazione dei lavori perduti di Alice Coltrane, Luaka Bop ha organizzato due concerti esclusivi, a New York e Londra, in cui il coro del suo tempio californiano ne avrebbe rivisitato il repertorio. Noi eravamo alla data londinese, nella spettacolare chiesa di St. Luke, per cercare di capire cosa fosse rimasto di questa strana esperienza che può essere un tempio indiano nel mezzo di Malibu. Premesso che la musica resta davvero buona, calda, coinvolgente, ancora più gospel dell’originale, l’esperienza rimane nel complesso davvero strana, per due motivi.
In primis, perché a cantare sono appunto afroamericani con indosso abiti della tradizione indiana, e se il colpo d’occhio è davvero forte, anche se inevitabilmente a rischio caricatura, sembra esserci qualcosa che non quadra. Perché se da un lato l’animo terzomondista vorrebbe sperticarsi in lodi per questo abbandono spettacolare del materialismo occidentale, in nome dell’unione globale e afrocentrica degli oppressi, come una moderna Zulu Nation, dall’altro lato vengono subito in mente le storture ed il profondo classismo della nazione indiana, delle sue caste, che sembrano offrire tutto fuorché una via di fuga paradisiaca per l’uomo occidentale.
E poi, ancora una volta, c’è tutto il discorso del gospel. Come cantare questa musica, intrinsecamente religiosa, da uomo secolare, illuminista, soprattutto in un’epoca divisi tra i fobici della sottomissione Houellebecqiana e il fanatismo superstizioso da scie chimiche? Il rischio – come sempre, quando si dicono cose in cui non si crede – è quello di sentirsi degli impostori. Specialmente quando il tuo vicino di posto inizia a piangere mentre dal palco tessono le lodi del Signore e della pace universale. E ti rendi conto in un istante che non sai come reagire. Che se da un lato secoli di illuminismo ti hanno disimparato a empatizzare in nessun modo con questo genere di manifestazioni, dall’altro lato c’è quel dogma borghese che è il “rispetto per il prossimo” che ti impone di non gridarglielo in faccia, al tuo vicino di posto. Ma il punto è che, anche se ti fosse permesso, non lo faresti, perché sei coinvolto, ci sei dentro fino al collo. Anzi, c’è quasi un’invidia che affiora dal profondo: quella di chi ha scelto deliberatamente di rinunciare a queste forme di ascesi, almeno senza fare ricorso a peyote e similari. Ma alla fine, in tutto questo, la risposta dell’uomo razionale è forse più semplice di quanto sembri: la musica è buona? Sì.
E allora ascoltiamola, senza farci troppe domande. Listen to the lion, listen to the lion, listen to the lion…