Zombie Cowboys è l’ultima fatica dei Gomma, uscita per V4V il 21 gennaio. Un terzo lavoro decisamente maturo in cui Ilaria, Giovanni, Matteo e Paolo hanno sperimentato di più e sono cresciuti sia dal punto di vista musicale, uscendo dai loro schemi tradizionali, sia dal punto di vista delle tematiche, in cui si scorgono i diversi volti della crisi globale e riecheggia la pandemia.
La rabbia intima di SACROSANTO diviene un’aspra e disincantata critica al sistema economico e sociale in cui il nulla la fa da padrone. Un deserto fatto di zombies egoisti e indifferenti che cavalcano verso un futuro sempre più desolante.
Insieme ai Gomma abbiamo parlato di limiti, politica e letture. Inoltre, ci hanno consigliato una playlist per comprendere appieno le influenze di Zombie Cowboys.
Le fotografie sono di Giovanni Russo e sono state scattate nel loro ultimo live a Bologna a settembre 2021.
Ci siamo visti l’ultima volta nel 2018, allo Sziget, in un contesto totalmente diverso. A pensarci oggi, a distanza di quasi 4 anni ci ritroviamo in uno scenario diametralmente opposto. È cambiato il mondo…
Voi come state? Come questo ultimo lavoro si inserisce in questo contesto?
[Ilaria] Sicuramente quando abbiamo iniziato a lavorare a questo progetto non credevamo… almeno io credevo che sì, sarebbe durato un tot questo stallo però non così tanto. Quindi, nonostante le presupposizioni negative che avessi, c’erano delle minime speranze che prima o poi sarebbe arrivata una parvenza di normalità per quanto riguarda la concertistica. E, detto ciò, (il contesto) non ha influenzato minimamente la scrittura in un senso pratico. In senso tematico inevitabilmente è entrato a far parte lo scenario, è diventato forse protagonista, non forse, sicuramente protagonista di quello che abbiamo scritto. Poi come sto, sto ‘na merda, sto ‘na chiavica…
[Giovanni] A confermare quello che dice Ilaria, inizialmente da parte di tutti c’era la preoccupazione che il disco diventasse per certi aspetti obsoleto quando sarebbe uscito. Invece paradossalmente è diventato ancora più attuale di quando l’abbiamo scritto, a inizio pandemia.
Giustamente, è passato un altro anno. Anche la situazione che in Italia sembra morta.
[Ilaria] Credevamo che sarebbe stato purtroppo troppo tardi quando sarebbe uscito perché le persone, immaginavamo, non avrebbero più avuto voglia di sentir parlare di certe cose. E invece, mi devo ritrovare nella situazione in cui dico che è più attuale ora forse, come dice Giovanni, che due anni fa. Da un certo punto di vista è grottesco se ci pensiamo, perché in realtà noi pensavamo l’opposto. Per quanto riguarda la concertistica, come dici, abbiamo mantenuto una linea di limitazioni e di limiti che ci sono state imposti negli ultimi anni, quella è un’altra faccenda.
[Giovanni] Tra l’altro se devo dire questa situazione qua, per me, si risolve in una mancanza di comunione dal punto di vista umano. La vedo nel fatto che dagli ultimi due anni non si crea nessuna wave particolarmente condivisa musicalmente. L’unica cosa che mi era sembrato di intravedere era la corrente hyperpop, che per tutta onestà manco mi interessava ma mi sembra che pure quella sia abbastanza implosa su sé stessa.
[Ilaria] Sì, è stato un fuoco fatuo…
[Giovanni] Quindi forse la verità è che la musica è un’attività che per farla comunque ha bisogno di spazi fisici, di gente che si ritrova, che parla di quello che è successo e che ha degli scambi che siano reali. Non soltanto su Discord o su altre chat, capito?
Dalla playlist che mi avete inviato, si nota come le vostre influenze alt-rock derivino da un ambiente in cui era cruciale la presenza di una scena condivisa e partecipata.
Voi oggi, in Italia, dove vi collochereste?
[Giovanni] La cosa che secondo me è stata abbastanza palese sin dal primo disco è stata proprio la mancanza di collocazione. Tant’è che ci ritrovavamo a suonare in contesti dove partecipavano artisti completamente differenti da noi. Perché la verità è che se tu vuoi ricondurre ciò che facciamo musicalmente ad un genere preciso, è una roba che appartiene almeno a venti trenta anni fa. Chiaramente lo spirito è quello di continuare a fare delle cose che abbiano dei valori condivisi con quel mondo, però rendendoli attuali. Questo ti rende un pesce fuor d’acqua. Tante cose nella musica oggi accadono come dinamiche e dico così perché secondo me è quello che oggi è il pop, come fondamentalmente il rap. Molte dinamiche del rap a noi non sono mai appartenute, non che ci sia niente di male, però secondo me ci sono tutta una serie di aspetti che intervengono nel mercato musicale nel modo di fare musica che noi non intercettiamo, perché non abbiamo voglia di intercettarli. Anche tutta l’importanza che si dà all’estetica intesa proprio come modo di abbigliarsi; l’importanza di dare a certi abiti anche un ruolo di riscatto sociale, non ci è mai appartenuta.
[Ilaria] Mi ritrovo totalmente in linea con il discorso di Giovanni. Abbiamo scritto 3 dischi che l’uno dall’altro hanno poco in comune ed è la prova concreta del fatto che non ci siamo mai posti dei limiti su cosa volessimo scrivere, come volessimo scriverlo o perché volessimo scriverlo. È proprio un percorso che per quanto mi riguarda, e per quanto riguarda anche gli altri, che è stato naturale: in base chiaramente agli ascolti e alla nostra maturazione. Ma collocarmi in una scena oggi, dopo aver fatto tre dischi che hanno tre mood, tre espressioni, tre sound completamente diversi mi sembra paradossale. Perché forse uno dei punti Fermi della nostra band è sempre stato il fatto che non ci dessimo dei limiti e non fosse un suono o qualcos’altro a trasportarci,
[Giovanni] Se posso ricollegarmi e concludere il discorso… Mi hai detto che nella playlist hai ritrovato delle cose che in effetti ti aspettavi. Certe cose ovviamente non possono non avere un rimando. È inutile negare di avere i Jesus Lizard come influenza, è palese, o Ennio Morricone o altri. La verità è che è sempre stato difficile per noi collocarci in una scena musicale anche perché ci siamo sempre fatti ispirare da altre cose. Dai libri, dalla letteratura o dal cinema. Alla fine, la musica è quello che sappiamo fare, però ad ispirarci sono espressioni artistiche diverse.
A livello di scena locale, nel senso più stretto, credete che possa nascere qualcosa? Pensate che si possa ricreare un discorso di musica live, legato anche alla vostra esperienza?
[Ilaria] In questo, essendo io una pessimista, stento a crederci ma ci spero. Assolutamente sì.
[Giovanni] Se devo parlare a livello locale in senso stretto, e quindi per quello che vivo si intende in Campania o a Caserta nello specifico, questa roba qua non è mai mancata. Bene o male chi suonava c’era sempre. Poi ovviamente si trattava di band che magari ti vedevi per tre concerti e poi si scioglievano, come accade normalmente in realtà locali dove ci stanno tre quattro amici che si vedono e riescono a beccare qualche data… e questa cosa ti diverte, magari sono anche forti, magari ti ispirano anche… A livello nazionale generalista mainstream credo di no. In Europa, geograficamente parlando, e in Inghilterra questa cosa per me è avvenuta. Tant’ è vero che tutta quella new wave punk che parte dagli Idles in top chart, black midi, Black Country New Road, Fontaines, eccetera… per me sono un po’ la reviviscenza di questa cosa qua. In Italia ancora non la vedo, fatta qualche rara eccezione.
In Italia effettivamente ci siete voi e pochissimi altri che si possono inserire in questo filone… Essendoci una consapevolezza sul genere un po’ più ampia, pensate magari di poter incidere di più a livello europeo?
[Ilaria] Sicuramente la lingua purtroppo è un ostacolo. Facciamo un genere che in Europa ha un senso totalmente diverso in generale rispetto a quello che ha nella nostra nazione e su questo c’è poco da dire e fare, secondo me. Credo uno degli ostacoli più grandi sia la lingua perché inevitabilmente avere un progetto come il nostro in italiano, significa avere un progetto che può colpire ma non può essere compreso al 100%. L’italiano a differenza dell’inglese, lo parliamo solo noi… è un po’ un limite.
[Giovanni] Io credo che questa cosa sia dovuta anche ad una differenza di sviluppo della storia della cultura musicale. Nel senso, paesi come il Regno Unito hanno avuto storicamente una grande cultura punk o comunque rock, anche se un rock individualista alla Oasis. Invece il nostro patrimonio culturale musicale italiano è composto sostanzialmente o dalla musica classica, quindi Vivaldi, Verdi… ma anche da quel tipo di canto poi, quindi tutta la tradizione di Mina, Modugno… Anche il più grande rappresentante di rock, inteso come macro-sistema in termini di numeri, come Vasco ha fatto poi l’exploit vero con pezzi come Albachiara. Così, prendendo un esempio più recente, tipo i Måneskin, finché non cacciavano la ballata… C’è una tradizione culturale legata ancora troppo alla melodia, al fatto di avere un artifizio nel modo in cui componi l’uso della voce. Chiaramente il punk e il rock in generale, quello che interessa a noi hanno meno a che fare con questa cosa. Per me il più grande cantautore della storia è Daniel Johnston, che zero aveva di capacità esecutiva canora. Secondo me dovranno ancora passare un bel po’ di anni per quando il modo intendere come scrivere delle canzoni possa cambiare radicalmente nell’occhio generalista.
Per quanto riguarda invece il discorso politico all’interno del vostro disco… Oggi vediamo sempre di più che gli artisti si schierano in una maniera più opportunistica, legata ad una tematica o una problematica, voi ne scegliete una abbastanza ampia: la critica aperta al capitalismo, che rimanda all’idea fisheriana per cui è impensabile un’alternativa a questo sistema. Volete parlarmene un po’ di più?
[Ilaria] Negli ultimi due anni ho letto praticamente tutte le pubblicazioni di Nero Edizioni, di NOT ed è stata un po’ una via di fuga per me. Un piccolo rifugio, per quanto mi riguarda. Ho letto tantissimo sul tema: tante cose che mi sono piaciute, tante altre che non mi sono piaciute, perché come dici, è un tema così ampio che si fa fatica poi a trovare delle specifiche che possano essere in linea magari con il pensiero del singolo, perché ce ne possono essere così tante che è veramente faticoso. Ho letto moltissimo e le letture mi hanno influenzato molto, devo dire la verità, perché hanno influenzato molto la mia persona. Il concetto del disco mi sembra piuttosto chiaro. Avevo paura che non lo fosse, eppure abbiamo avuto la fortuna che è stato percepito, e se è stato percepito per me è un grande passo. Perché parlare, appunto, ripetendo quello che abbiamo detto entrambi, di un concetto così vasto, così labile che tocca il politico, il sociale, il pratico, l’emotivo è veramente un’arma a tantissimi tagli che può diventare anche faticosa da gestire. È inevitabile. Eppure, mi ha fatto piacerissimo che sia stata percepita nel modo giusto e non dover dare spiegazioni è una cosa che io apprezzo moltissimo, su quello che scrivo, in generale o su quello che voglio venga percepito di quello che scrivo.
[Giovanni] Se posso aggiungere una cosa a ciò che dice Ilaria, per me è sacrosanto nel senso che tutti i feedback che abbiamo ricevuto sono stati sul punto di farci intendere che il messaggio è arrivato chiaro. Però mi piacerebbe essere più specifico, perché sono cose di cui si parla abbastanza poco. Secondo me i problemi sono due. Il primo problema è chiaramente la mancanza di uno schieramento, anche teorico, su quell’aspetto del capitalismo da parte di chi si occupa dell’arte. Io non dico che il capitalismo non sia stato un sistema inevitabile, in un certo momento della storia abbiamo avuto bisogno di una certa razionalità negli scambi, e il capitalismo è comunque più razionale del furto, del baratto, del colonialismo e quindi lo capisco. Quello che viene a mancare da un certo punto in poi è l’etica sociale in questo sistema e non mi piace neanche il capitalismo etico, con tutte le svolte eco-green del caso. Io, comunque, come principio base mio sono ancorato ancora al marxismo che uno può dire superato in tanti modi, ma alla fine si fa una scelta di valori e per me quella roba vale ancora. Dopodiché c’è un problema di occuparsi di tematiche concrete, nel senso che non lo senti mai il pezzo che parla degli abusi edilizi o della gentrificazione o di uno specifico danno derivato da una struttura economica che è quella capitalista. Quindi si finisce per fare il pezzo che è anti-destra ma in un modo vaghissimo, la sinistra diventa quella serie di valori per cui siamo tutti buoni, equi, solidali però non si capisce come, quando e come si concretizza questa cosa.
[Ilaria] La sinistra non dev’essere l’anti-destra. Per quanto mi riguarda deve essere la Sinistra. Non può essere solo l’anti-destra, perché sono due cose molto diverse.
[Giovanni] Io e Ilaria abbiamo cominciato a distaccarci quando la sinistra, circa nella seconda metà degli anni zero, ha cominciato a seguire il modello liberale e quindi a non rappresentare più un vero secondo polo, con il terzo che poi ha rappresentato il Movimento 5Stelle dopo. Quindi tutta la corrente renziana. Con le giuste accuse, forse, seppur formulate in una maniera semplicistica lui [Renzi] poi alla fine è diventato l’alter ego di ciò che è stato Berlusconi, almeno come atteggiamento, come strategia politica. Quel momento della storia del PD è stato, forse il più doloroso, perché era il periodo in cui stavamo crescendo noi che siamo giovani anagraficamente.
Voi in questo caso siete riusciti molto bene a recuperare questa concretezza. Si comprende che la critica è fortemente radicata nel contesto italiano…
Ilaria: Scusa se ti interrompo… la critica non è radicata, è radicale.
Risulta chiaro ed è impattante anche l’evoluzione del vostro sound. Singolarmente e tutti insieme avete avuto una crescita, volete raccontarmela meglio?
[Giovanni] Il cambiamento più forte secondo me è derivato dal fatto che noi siamo nati come una band live. Si scriveva e si eseguiva con gli strumenti che si avevano fisicamente in mano e che si potevano fisicamente suonare dal vivo, ed è successo fino al 2019. Quando anche chi ci produceva ci consigliava una certa scioltezza, di dover suonare per forza chitarra, basso e batteria, noi comunque ci siamo sempre imposti in modo abbastanza radicale. Volevamo essere super minimalisti, senza sovraincisioni, senza overdub, senza armonizzazioni, senza niente. Poiché questo disco qui nasce praticamente al computer, perché c’erano le difficoltà logistiche che tutti quanti abbiamo avuto col covid, ad una certa tu cominci anche a fare un ragionamento del tipo, perché mi devo limitare… Ok, i Gomma siamo noi quattro, però comunque niente ci impedisce di andare a suonare con un’altra chitarra, una tastiera, un synth o quello che ci pare. Per mettersi alla prova e per capire se si è in grado di uscire da questi limiti. Ed è una cosa che noi già stavamo facendo con il disco che avevamo preparato nel frattempo e che non è mai uscito, dove c’erano viole, archi, pianoforti… Quello che ne deriva è il fatto che ci siamo inseriti in un contesto western, dark e quindi con tutti quei riferimenti e quei rimandi ad un certo modo di comporre però in un modo molto più ampio perché uesto ti permette di avere un pezzo ironico come Louis Armstrong e pezzi super drammatici, senza essere incoerente nello stesso disco. È stato appagante togliersi queste pippe mentali.
[Ilaria] Ricollegandomi anche un po’ alla domanda sulla scena in cui collochiamo: il sound non deve per quanto mi riguarda non deve diventare un limite, è un mezzo. Come può esserlo la lingua. Il sound è stato un mezzo per poter racchiudere appieno quello che volevamo trasmettere con questo disco.
[Giovanni] Diciamo che per me, le cose importanti sono essenzialmente due. La prima è l’unica cosa che mi fa ascoltare qualcuno ed azzeccarmi, cioè è il fatto che quello è riconoscibile. Quindi anche se dicono questo disco dei Gomma è diversissimo da quest’altro, fa più schifo di quell’altro, è più bello… l’importante è che si senta che siano i Gomma, quindi che sia riconoscibile. La seconda cosa è quella di cercare di confrontarsi sempre con sé stessi. Per me l’unica competizione che c’è è col disco prima. L’unica cosa che mi interessa è che Sacrosanto sia meglio di Toska, che Zombie Cowboys sia meglio di Sacrosanto e che il prossimo sia meglio di questo qua. Magari il disco più bello che faccio per me è l’ultimo. Alla fine, contano solo queste due cose per me.