Non so se ve ne siete accorti ma ultimamente si sta un pochino abusando del suono dei sintetizzatori nella musica italiana. Sarà per la situazione politica disastrosa cui consegue la ricerca di tempi d’oro da elogiare, sarà perché la moda ormai corre sempre più veloce e si ripropone la qualunque: negli ultimi tre anni abbiamo assistito all’exploit di una strana quanto non richiesta nostalgia degli anni ’80 nel nostro paese. Ovviamente, essendo anche la nostra amata musica un prodotto dell’industria culturale, questo ha avuto ripercussioni nella proposta: tutto ciò è poi degenerato nell’It-pop, che ormai è entrato negli annali come fenomeno di costume conclamato. Mai ci saremmo aspettati nel 2016 (- quanto eravamo ingenui) che tre anni dopo le fortune di Mainstream e Fuoricampo ci saremmo dovuti sorbire frotte di epigoni degli autori dei dischi sopracitati, tanto da creare un genere a sé e da spingere tantissimi artisti ed etichette a reinventarsi “indie italiani”, con synth, disagio e chitarrine per provare a fronteggiare la domanda del pubblico.
Questo non è certo il caso dei Gomma, che in una recente intervista allo Sziget (c’eravamo anche noi), lamentavano proprio il fatto di essere stati scambiati erroneamente per un prodotto It-pop ai tempi del loro esordio. Nati nel 2016, esordiscono con Toska nel 2017 che li porta in giro per l’Italia quasi fino allo sfinimento, tant’è che hanno più volte confessato di essersi stancati di suonare quei brani. Ricorderete sicuramente il pezzo Elefanti che era anche finito nella fortunata playlist IndieItalia di Spotify, nonostante il gruppo fosse dichiaratamente punk.
Ed eccoci qui: a gennaio 2019 lanciano SACROSANTO, uscito per V4V, il loro secondo album. Vi è certamente un’evoluzione, coerente con ciò che avevano iniziato due anni fa, sia nei suoni che risultano più articolati e sia nei testi che sono più impegnati e intimi. Sono maturati, sono più consci del loro potenziale – e si sente: il risultato che hanno ottenuto è qualcosa di molto più complesso rispetto a ciò che avevano realizzato in precedenza, l’intensità è diversa, sono meno scanzonati e più coinvolti. Ricordano i Cloud Nothing, c’è meno punk puro (anche se Balordi è degna di menzione) e più emo. Se prima erano molto Prozac+, ora si avvicinano alle sonorità dei FBYC, del loro idolo Capovilla (in tutte le sue varie declinazioni) e dei Gazebo Penguins. Nella produzione tra l’altro figura Andrea Sologni, membro di questi ultimi. Una scelta che detta la linea a cui si vogliono attenere Ilaria, Giovanni, Matteo e Paolo.
Il disco si apre con Fantasmi, un brano cupo che racconta l’indifferenza portata allo stremo, l’ipocrisia di chi non riesce a convivere con i propri scheletri nell’armadio e l’individualismo dilagante, che ci rende una sorta di silenzioso popolo di fantasmi. Un’introspezione raccontata attraverso le inadeguatezze di ciascuno di noi e gli imbarazzi che ognuno affronta quotidianamente. C’è Verme, in cui si gioca con le sfumature che può acquisire la parola “verme” cambiando la preposizione che le sta vicino, arrivando alla conclusione che siamo tutti “esseri minuscoli e striscianti”. Ci parlano di fughe che non portano da nessuna parte, di corse disperate e solitarie il cui risultato è solo un vano allontanarsi (Strade) e di “amori animali” dove ci si fa male da morire. Nel finale Santa Messa, che terminando con il verso lapidario “la messa è finita”, conclude questo esorcismo o liberazione da un malessere quasi spettrale. Anche la copertina ce lo ricorda.
Un coacervo di amore e sofferenza, narrato con numerosi escamotage e metafore. La ripetizione esasperata di alcuni termini che arriva a mutarne e a stravolgerne il significato, soprattutto attraverso giochi di parole. Tanto espressionismo linguistico, ricco di immagini violente e carnali che sposano molto bene questi suoni post- hardcore — a parer mio leggermente ripetitivi. Tutto sommato il lavoro non è per niente male: cupo, intenso, senza nulla da invidiare a progetti stranieri simili. Apprezzo molto questa scelta impopolare di non allinearsi ma anzi di suonare coraggiosamente un genere quasi demodé per quello che è il panorama musicale italiano. Potremmo definirli l’ultimo baluardo della resistenza a tutto questo indie/it-pop, nella speranza che possano invertire, anche solo leggermente, la rotta.