Sarà stato che la serata di venerdì vissuta a Sexto ‘Nplugged era l’unica occasione per poter ascoltare questa estate in Italia Goldfrapp dal vivo. Sarà che i Goldfrapp non suonavano da un po’ in Italia in generale. Sarà stata la sequela di corti animati che sono stati riprodotti in attesa dell’inizio del concerto, in vista della collaborazione con Lago Film, ma l’ora e mezza antecedente la salita di Alison Goldfrapp sul palco si può dire sia stata a dir poco concitata.
Come sempre avviene all’interno della meravigliosa cornice del festival -il complesso abbaziale di Piazza Castello di Sesto al Reghena– il clima che si respira è unico, quasi magico, ma soprattutto gentile. “Gentile” perché il pubblico di Sexto ‘Nplugged si sarà anche sicuramente ampliato col passare degli anni ma se c’è una cosa che non sta perdendo e che speriamo non perderà mai è proprio la gentilezza: poche chiacchiere durante il concerto, tanta curiosità nell’ascolto e pochi smartphone in aria. Con Alison Goldfrapp davanti, poi, sarebbe stato difficile comportarsi diversamente.
L’ unica tappa italiana della band che ha segnato gli anni 2000 e che –fresca della pubblicazione dell’ultimo disco Tales of us– continua a far sognare il “vecchio” pubblico e al contempo a farsene di nuovo. Famosi per la loro propensione onirica, capace di trasportare direttamente in un immaginario degno di un film di Lynch, la band accoglie fin dai primi pezzi le aspettative del variegato pubblico di Sexto ‘Nplugged. Il live inizia con alcuni pezzi tratti da Tales of us: le delicate note di Jo – run, you better ru, you better run for your life canta la magistrale voce di Alison, che da 5-6 file dal palco, con il suo elegante vestito nero e col capello biondo mi ricorda solo che Jessica Lange in American Horror Story [ndr. è un complimento]. Si passa in seguito a Drew, Stranger, Alvar, Annabel e Clay. Tutti pezzi che all’interno dell’ultimo album dimostrano la volontà di tornare a suoni decisamente più intimisti rispetto le svolte più agitate dei dischi degli ultimi anni. In piazza Castello riecheggiano suoni che riportano direttamente a quella ormai pietra miliare che è Felt Mountain (Mute Records; 2000) rasserenando il cuore dei fan della prima guardia. 40 minuti di incanto che personalmente raggiungono l’apice col tripudio degli archi in Stranger e la malinconia sognante di Annabel. Quando il ritmo si è ormai stabilizzato nelle nostre orecchie, ecco che arrivano le sonorità molto più seventies, incalzanti e slow-tempo di Little Bird (Seventh Tree; 2008 – Mute Records) a riscaldare ancora di più l’atmosfera. Il climax crescente probabilmente raggiunge la vetta con uno dei cavalli di battaglia della band: il fischio iniziale di Lonely head è il segnale premonitore di uno dei pezzi più amati della band inglese. Un tuffo nella pura cupezza malinconica degli esordi. Una cupezza, però, che se si dovesse traslare in immagine sarebbe a-là Burton. Un cupezza quasi serena che il pubblico di Sexto non vedeva l’ora di riassaporare.
I pezzi successivi non smorzano il tono creato da Lonely head: You never know –tratto dalla svolta techno-pop di Supernature (Mute; 2005)- e Ride a white horse sono decisive per far alzare tutti i presti in piedi per tenere il ritmo glam ‘80s, che nonostante avesse deluso molti nel 2005, ora non disturba assolutamente il proseguo del concerto. Anzi, lo fa proseguire con coerenza implementando il livello empatico tra il pubblico ed Alison.
Train è l’ultimo brano prima del bis. Utopia, Number 1 e Strict chiudono efficacemente e definitivamente il concerto di Goldfrapp, una chiusura dove l’unica malinconia poteva derivare solo dal fatto che fosse finito e che, visti i precedenti, sarà difficile da ripetersi.
Un’idea di come si è concluso il live
N.B. si dice “i Goldfrapp”, “la band Goldfrapp” o “Goldfrapp” inteso solo come Alison?
Io non riesco a decidermi, si accettano suggerimenti.