C’è una notizia in questo 3 dicembre 2020: Jean-Luc Godard non è morto ma fa novant’anni. E allora è bello ricordarlo mentre è ancora in vita senza aspettare che se ne vada. Questo mostro sacro e bizzarro del cinema, questo tipo particolare di essere umano, arriva quasi a toccare il traguardo del secolo e – almeno per il momento – scampa pure alla maledizione del venti-venti. E allora viene subito in mente il suo cinema come nuovo linguaggio di immagini, quella nuova ondata di cinema che conosciamo come Nouvelle Vague, ma poi a pensarci bene è così piena di sfumature e sfaccettature, perché nouvelle vague è Truffaut che prende la letteratura e la scaraventa dentro il cinema, Truffaut che ti fa seguire il flusso di una storia a mozzafiato con le immagini, ma è pure Godard che fa qualcosa di più azzardato, va oltre: mette uomini e donne a leggere poesie dentro vasche da bagno, prostitute che fanno filosofia al bar, anime in sommossa e fuga che si innamorano per un momento, gente che spara – o no – con la pistola in mano.
È davvero fatta così la vita?, non ha importanza – perché Godard ti fa vedere che è fatta così, e lo fa al ritmo cinematografico di “ventiquattro volte al secondo”. Lo fa con quei suoi titoli rosso-fiamma che si gettano come sangue sullo schermo, e ti si iniettano nelle vene. Lo fa fin dal primissimo film – fino all’ultimo respiro – con un solo tocco sulla bocca che resta impresso a futura memoria. Con le voci, la musica, gli echi lontani – new york herald tribune – e con il gioco, che è una delle parti più belle del cinema di Godard. Perché pure nei suoi film più ispirati Godard si mette a giocare, come quando azzarda rivisitazioni di musical americani solo per prendere in giro Walt-Disney e insieme a lui tutte quelle piccole manie che arrivano dall’oltre-oceano. Godard ci fa giocare, ci fa tornare bambini, ci fa tornare all’innocenza, ci fa ridere con l’assurdo-comico di conversazioni in cui pure ritroviamo pezzi di verità quotidiana – e non è un caso che uno dei grandi estimatori del suo gioco di assurdi e immagini sia Quentin Tarantino, che lo estremizzerà con il pulp. Ma poi Godard non è solo gioco e provocazione estetica: ci fa pure infiammare, come era infiammato lui quando dibatteva di cinema, scriveva sui Cahiers, e cominciava a girare i primi film.
Dopo i corti, il primo lungometraggio è À bout de souffle nel 1960, con un’indimenticabile Jean Seberg che ricordiamo a scorrazzare sugli Champs-Élysées e tra camere soleggiate intrappolate dentro un bianco e nero senza tempo, e un Jean-Paul Belmondo che tornerà anche dopo a lavorare con Godard come se il regista francese si fosse spiritualmente riconosciuto dentro un alter-ego dalla faccia balorda, o magari no. Il sodalizio artistico e sentimentale con Anna Karina arriva solamente dopo, un’attrice che è difficile cacciar via dall’immaginario non solo dei film del giovane Godard ma dell’intera nouvelle vague e del cinema francese di quel periodo. Jean-Luc Godard e Anna Karina iniziano l’esplorazione del loro legame artistico e sentimentale con Le Petit Soldat, un film di contestazione alla relazione a doppio filo della Francia colonialista con l’Algeria, un film politico che però usa le immagini per agire politicamente, ed è questa una delle grandi piccole cose che riesce a fare Godard, qualunque cosa stia cercando di dirti lo fa attraverso le immagini. Questo non vuol dire che i suoi film siano mezzo muti, tutt’altro: le parole ci sono, ma sono parole da vedere, in un certo senso si tratta di parole che corrono in sovraimpressione, dipinte – come se staccare le parole dalle immagini potesse nuocere gravemente al film.
Come diceva André Labarthe quello di Godard è “cinema allo stato puro”, che poi vuol dire pure che è impossibile scrivere di Godard come un film di Godard, così come è impossibile ballare di architettura, e tutto quello che stiamo facendo qui adesso è un gioco senza senso pure quello, come un gioco visivo è Une femme est une femme, celebrazione in forma di musical di Anna-Karina messa al centro della scena di un teatro immaginario, e un gioco ancora più iconografico è Vivre Sa Vie, un film che Godard racconta come fatto per blocchi, o quadri: la sigaretta alla bocca, la strada, gli incontri, e “alzo la mano, sono responsabile”. Perché Godard è un pazzo che sa che il cinema deve prima di tutto far sognare piazzandosi in gola, ma non per questo deve dimenticare la sua essenza brada, lo stato primitivo, i sogni di Méliès, l’arte della seduzione. Per farlo, il cinema deve fuggire il compromesso e arrivare alla libertà totale. I giochi visivi di Godard, le ardite sperimentazioni, devono essere liberi di scorrere come flussi dove si mescolano citazioni, colori, immagini, esplosive giovinezze, libri e pistole.
Forse proprio a forza di fuggire il compromesso Le Mépris / Il Disprezzo – che sulla carta è una sceneggiatura adattata da un soggetto di Moravia, con produzione di Carlo Ponti, con Brigitte Bardot nel ruolo della protagonista, e una Capri con parte del set nella villa di Curzio Malaparte – forse proprio per quella vena godardiana di chi non riesce proprio ad adattarsi alle regole, Le Mépris non sarà quel grande successo che il mondo del business cinematografico aveva fantasticato. Addirittura nella versione italiana diventa un film edulcurato e censurato: troppo oltre era andato Godard anche con un soggetto così mite, che in fondo raccontava una controversia di coppia. Un film che inizia con un nudo di Brigitte, scorre tra frammenti di litigi e bronci, e si commiata con una camminata dal sapore greco su una terrazza dove il mare è miraggio e limite irraggiungibile.
A quel punto è chiaro a tutti che Godard non si metterà a fare film classici o moderati, né si adatterà al pubblico: è chiaro a Carlo Ponti, è chiaro alle attrici e agli attori, e a chi lavora con lui, è chiaro a chi lo aspetta a casa per girare altri film irredentisti come Bande à parte e Pierrot Le Fou. Ma in fondo chi li vuole i film classici da Godard. Quello che vogliamo da lui è vedere film a modo suo. E con Pierrot Le Fou arriva probabilmente il coronamento di una prima fase del cinema di Godard: ci sono ancora Anna Karina e Jean-Paul Belmondo, c’è una storia d’amore di fuggitivi e pistole, c’è la bellezza e l’oppressione dell’amore, c’è il lamento-canto sul molo come un lungo addio, c’è una faccia dipinta di blu che vuole farsi esplodere, c’è Marianne che è l’allegoria di Francia e della sua bandiera, ci sono momenti per ballare e cantare, e momenti per fare a botte.
Ma Godard è anche l’impegno, la rivoluzione, il contro-canto al consumismo d’occidente, il rosso fuoco dei libretti di Mao, le canzonacce della gioventù e dei vent’anni che strepitano ne La Cinese, la moderna parabola materiale e esistenziale di Film socialisme – Godard vuole cambiarti con il suo sguardo, vuole buttarti una sommossa nel cervello, te lo vuole conquistare e vedere fino a dove va a finire, se c’è un punto dove si sfracella, e se pure tu ti metterai a cantare insieme a lui e guardare al mondo con quell’occhio nuovo. Vuole provocare con film come Je vous salue, Marie che è una rivisitazione dell’allegoria cristiana alla maniera di Godard, metterti davanti al fattaccio che il linguaggio è morto ma anche no, perché il linguaggio può essere quello delle immagini, una forma nuova e assoluta di linguaggio – e allora possiamo parlare con le immagini, possiamo scrivere appassionate lettere d’amore con le immagini, possiamo prendere il surrealismo e buttarlo dentro una dichiarazione da spedire in questura. Possiamo prendere ad accarezzare una televisione su un canale muto e farci suonare sopra Tom Waits. Sono proprio tutte queste immagini che resteranno nella testa, anche quando alla fine non ricorderai più nemmeno una parola. Ecco, il cinema allo stato puro in Godard è più o meno questa cosa qui: una corsa al Louvre, un uomo che fuma una sigaretta, due o tre cose che so di lei in giro per la città, le citazioni che improvvisamente ti appaiono luminose davanti agli occhi, i colori dentro cui ci si potrebbe smarrire, un cenno di danza, corpo e anima, teatro-poesia e rivoluzione.