Goat – Requiem

A quattro anni dall’esordio World Music e a due dal precedente Commune, con Requiem tornano i Goat, il misterioso collettivo di musicisti svedesi di cui non si conoscono né nomi né volti, coperti come sono da variopinte maschere e da abiti dai colori altrettanto sgargianti. Secondo una leggenda da loro stessi raccontata la loro musica sarebbe l’eredità del culto voodoo portato in dono, nel piccolo paesino di Korpilombolo da una strega, ai pochi abitanti del posto che da lì in poi non avrebbero smesso di cantare inni sacri e formule magiche.

Il termine collettivo ha rimandato fin da subito alla più interessante esperienza del genere, quella degli anni settanta a Monaco di Baviera da cui sarebbero nati gli Amon Düül e insieme a loro tutta la scena tedesca del krautrock (o kosmische musik che dir si voglia) verso cui, gli svedesi, sono sicuramente in debito per il massiccio uso di un tribalismo percussivo costante e ossessivo. In un continuo rimando di citazioni e (re)interpretazioni, su quella base, con solo due dischi sono stati capaci di costruire un universo sonoro intercontinentale da cui hanno saputo attingere a piene mani, mescolando l’afrobeat con la psichedelia, un certo respiro seventies con le atmosfere sub sahariane dei Tinariwen.

Se i padri putativi erano però fortemente politicizzati (nella comune di Monaco si andò formando quello che sarebbe stato il nucleo della Banda Baader-Meinhof, Fela Kuti con il suo Nigerian Movement of the People si candidò addirittura alle elezioni presidenziali nigeriane) e orientati a una musica che avvicinasse quella leggera a quella impegnata e colta (Karlheinz Stockhausen, la musica seriale e i seminari di Darmstadt) i Goat hanno invece scelto un percorso sicuramente più semplice che, partendo dalla ripetizione e dalla ritualità, ha sostituito le due anime (mistica e razionalista) del grande movimento tedesco con atmosfere più celebrative e festose.

Al terzo disco i Goat non solo confermano una vocazione tutt’altro che banale, quella di ripetersi senza mai stancare grazie a un’indiscussa capacità di essere riconoscibili nell’eterogeneità delle loro fonti e ispirazioni, ma riescono ad ampliare il ventaglio dei loro riferimenti musicali alleggerendo anche una certa pesantezza dei due lavori precedenti concedendosi venature e momenti più smaccatamente pop.

Il disco si apre, infatti, con i flauti di pan (come fossero gli Inti illimani) che, a partire da Union of Mind and Soul, accompagnano i primi tre brani sulle consuete percussioni e cori femminili. Alarms cavalca un’epica da anni sessanta da Moody Blues e sembra abbeverarsi alla fonte dei The Mamas & the Papas come a quella dei Byrds senza però avvicinarsi alle armonie dei Beach Boys, anzi mantenendo quasi un suono, chitarra- tamburello, da oratorio, spezzato dal finale che vira su un rock acido.

Lo sguardo sul continente sudamericano, dopo le Ande cilene e peruviane, fa poi tappa in Brasile con il tropicalismo scanzonato di Trouble in the streets che sembra poggiare addirittura sugli accordi della Dancing Queen dei connazionali ABBA.

Il muezzin di Psychedic lover ci introduce a un viaggio lisergico che, interrompendo l’allegria della prima parte, sa di disperazione, polvere e deserto. Jerry Garcia starà sorridendo da qualche parte.

Try me robe strizza l’occhio all’India contemporanea con tutte le sue derive kitsch mentre Goodbye va a recuperare i colori mistici di quel krautrock che proprio a Oriente (Florian Fricke e i suoi Popol Vuh su tutti) volgeva lo sguardo.

All seeing eye in poco meno di tre minuti costruisce su una batteria ipnotica una specie di gioiellino punk levigato che ricorda gli Strokes quando avrebbe potuto richiamare i Television: indizi che lasciano intravedere anche i limiti di una band spesso troppo ossessionata dalla ricerca di un suono nel migliore dei casi, di una suggestione nel peggiore come in Goatfuzz dove il funky rock di matrice philly devia pericolosamente verso suoni alla Lenny Kravitz.

Sorprende alla fine Ubuntu che chiude il disco con un’apertura all’elettronica new-age, puntellata dai synth e da voci che si rincorrono come in un carosello futuristico che sa già di passato come di una nostalgia da Blade Runner e si fa a poco a poco debole come il suono di un vento freddo non prima di aver seminato lontani echi di Diarabi (il brano che apriva il loro primo lavoro).

Arrivati al terzo disco, i Goat confermano tutti i pregi e i difetti già emersi in questi quattro anni: un’estetica musicale che più che alla world music sembra ispirarsi a un’immagine molto personale della stessa, filtrata più attraverso i dischi che da una vera contaminazione sul campo, un’idea musicale sicuramente non originale che, pur se basata sulla ripetizione rituale e mistica, tende a volte a strafare con pezzi troppo lunghi; eppure anche in questi sessantatre minuti la miscela appare credibile e personale con uno stile ben definito anche se sempre più aperto a nuove sonorità in grado di apparire convincente, coerente e affascinante e che di là dal mistero sulla loro identità è capace di sostenersi sulle proprie gambe. Non è poco.

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