Gli spatriati di Mario Desiati

Il fascino di “Spatriati” di Mario Desiati (Einaudi, 2021) comincia, innanzitutto, dal titolo e quel mondo intero di significati che porta con sé. Da pugliese, mi fanno sentire in qualche modo privilegiata e commossa: non si ha sempre il lusso di “vedersi” sulla copertina di un romanzo di questa portata. Mario Desiati, pugliese di origine, ha restituito la possibilità di scrutare nel profondo la mia generazione con le sue contraddizioni, i fallimenti e i bagliori dorati da tramonto sulla campagna di casa nostra. Ma non si faccia l’errore di reputarlo un romanzo regionale perché Spatriati riguarda una categoria più ampia, quelli che, come da definizione fornita dallo stesso autore

qui chiamano gli incerti, gli irregolari, gli inclassificabili, a volte i balordi o gli orfani, oppure celibi, nubili, girovaghi e vagabondi, o forse, nel caso che ci riguarda, i liberati.

Gli spatriati sono stranieri in terra natia, i difformi alla ricerca disperata e continua di un sé diverso da quello che gli propinano decenni di patriarcato e strutture sociali precostituite.

“Spatriati” è un romanzo dotto, pacato, cucito addosso a ricordi sicuramente personali, ma reinterpretati per due protagonisti paritetici. Claudia Fanelli e Francesco Veleno sono gli spatriati per eccellenza; nascono a Martina Franca e poi, con tempi e modalità differenti, dalla loro terra sono fuggiti. Claudia con una furia riconoscibile, la stessa di migliaia di pugliesi che sono andati via negli ultimi trent’anni lasciando alle spalle radici e famiglia, e che hanno maledetto ogni ritorno, anche breve. Parafrasando l’adagio di uno di noi che ce l’ha fatta, Caparezza, ogni spatriato porta nel cuore la sua terra, muore un po’ quando va via, ma sa che morirebbe anche rimanendo. È un dilemma che non ha soluzione. Francesco Veleno, invece, a Martina Franca dedica la vita e ci rimane più a lungo perché «placava la sua ansia»; incontra Claudia a scuola, la ama sin da subito, ma questo amore prende una forma inaspettata ed evolve durante tutta la durata del romanzo. Non esiste un momento in cui Claudia e Francesco non stiano esplorando le loro identità e la connessione che li lega. Attorno a loro, una costellazione di personaggi, tra meteore e presenze granitiche come quelle dei genitori; la loro caratterizzazione, assieme a quella di Francesco Veleno, è la punta di diamante del romanzo. Elisa Fortuna e Vincenzo Veleno, in particolare, madre e padre di Francesco, sono un distillato purissimo di provincia e “pugliesità”. Il loro rapporto è sepolto da dinamiche familiari note e infestanti, il disamore regnante e gli strati polverosi di “non detto” che soffocano, ma in cui c’è tutto dentro, anche la storia stessa della famiglia.

Prima di Claudia, la realtà era quella che ti raccontavano e non quella che vedevo. facevo parte del novero di quelli che si lasciano spingere dagli altri, dagli eventi, dalle prescrizioni, dai pregiudizi. I coniugi Veleno mi spingevano verso una vita senza smottamenti, tranquilla, il minimo necessario per non soffrire. A loro, in fondo, era andata bene così.

Veleno, come lo chiameremmo in Puglia, dove la famiglia di appartenenza ti definisce prima del nome proprio, è l’unica voce narrante del romanzo, scritto in prima persona. Lui sa tutto di Claudia, sia per sintonia di sensi, sia per un trucco tecnico che Desiati usa nella scrittura: ogni digressione su Claudia segue sempre un contatto fra i due protagonisti, un messaggio, una telefonata, un tramite di qualsiasi forma. Questo salvaguarda la credibilità di Veleno e dà al romanzo una struttura estremamente solida.
Claudia e Veleno si riconoscono subito nel loro essere spatriati, anime diverse in cerca di una forma più simile alla propria natura, senza sovrastrutture sociali e relazionali. Veleno con il suo «cristianesimo da oratorio» che cerca la felicità, quella della terra e delle «cose pratiche». Veleno è talmente “materico” in questa narrazione che quasi lo si vede struggersi e ricomporsi ogni volta, come un vecchio amico, quanti ne ho visti come lui in questa Puglia che è, per il tempo del romanzo, metafora di un Meridione intero. Il rapporto con Claudia, poi, innamora e destabilizza, perché loro sono anime affini, sono individui che comunicano da lontano, comuni e speciali allo stesso tempo.

Gli altri protagonisti migliori di Spatriati sono i luoghi, a partire da Martina Franca, poi Milano, Londra e Berlino, amatissima da Claudia e da Desiati stesso. Sono luoghi che risplendono nella scrittura dell’autore. Quello di Desiati è un Sud soffocante e magico e la Puglia appare sontuosa e fallace. In questi personaggi ci sono le persone che, da pugliese, ho incontrato, i panorami che ho visto dai finestrini nelle ore più calde dell’estate. Desiati ne celebra i successi, soprattutto la cosiddetta Primavera pugliese di almeno venti anni anni fa; qualcosa, da allora, è andato bene, ma non è stato abbastanza e l’ossessione di riportare gli spatriati in Puglia si è sbriciolata anche negli irriducibili. Francesco ero io, ora non più.

Una Puglia fatta di processioni, il cielo rosso di Taranto, «la Valle d’Itria e i crateri bianchi di Ostuni e Locorotondo», Martina Franca che «profumava di grano e alberi di fico […]», Cisternino, Savelletri, luoghi dalle radici rurali, che ora scoprono una vocazione turistica promettente, ma che saccheggia la loro bellezza per le foto su Instagram del turismo del relax. Ma solo noi indigeni vediamo, con dolente rassegnazione, lo sgretolarsi per l’incuria. È Claudia a mostrare la maggiore insofferenza per questa terra matrigna:

[…] io non respiro qui. Voglio stare dove succedono le cose, e qui non succede niente, non imparo niente.

E chi può biasimarla, lei che va incontro alle cose, spavalda e furiosa, travolgendo anche il flemmatico Veleno che aspetta, più seraficamente, che le cose succedano, convinto che la sua vita gli sarebbe bastata così come era, invece no. Quante volte lo abbiamo pensato noi pugliesi, noi meridionali; quante volte ce ne siamo andati e poi tornati pensando a che meraviglia fosse la Puglia, “ma no grazie, non ci vivrei”. Siamo spatriati anche in questo.

Eravamo nozionisti e idealisti e guardavamo al futuro pieni di paura e possibilità (io), speranza e determinazione (lei).

Tutto funziona in Veleno: Desiati gli confeziona un misticismo antico, gli fa sperimentare l’amore in tutte le sue forme anche se il suo personaggio si sentirà, quasi per tutto il romanzo, un «essere informe», che non lotta per la sua sopravvivenza, ma si adagia in attesa. Frank, come lo chiama a volte Claudia, è lento e speranzoso, mentre per lei di tempo non ce n’era già più a vent’anni. In loro c’è uno spaccato di una generazione che viveva anche di stereotipi, di speranze esagerate, di voglia di cambiare il mondo e la successiva consapevolezza che forse bastava anche solo cambiare sé stessi.

L’omaggio di Desiati alla sua generazione e alla sua Puglia passa per citazioni pop lungamente argomentate nel capitolo finale del romanzo, da “Giochi senza frontiere” allo spot anni ’80 della Gessyca gelati, ma soprattutto passa per la letteratura pugliese che Claudia legge avidamente. Trovano, così spazio, il sociologo Franco Cassano, scomparso di recente, Maria Marcone, Rina Durante, Vittorio Bodini, Maria Corti, solo per citare alcuni nomi. L’invito implicito è quello di rispolverare il patrimonio dimenticato della letteratura italiana, sepolto, soprattutto, dalla memoria corta.

“Spatriati” di Mario Desiati è un romanzo che quasi verrebbe voglia di citare tutto, a patto che lo si faccia decantare con lentezza e grande spirito di osservazione. Non può essere consumato velocemente, non si divora, ma, anzi, forse è lui a divorare lettrici e lettori, si ciba dei loro ricordi e ne innesta di nuovi. Il risultato finale di questa lettura è che siamo tutti un po’ spatriati, sia che si nasca in Puglia, che direttamente a Berlino, perché è la ricerca del sé a fare la differenza: l’ambizione di diventare, evolvere e conoscersi nonostante tutto, nonostante la terra che ci genera.

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