Gli hipster nelle parole di Pasolini

«La prima volta che ho visto degli hipster, o come si fanno definire, è stato a Praga. Nella hall dell’ostello dove alloggiavo sono entrati due giovani stranieri, con i risvoltini sopra le caviglie. Sono passati attraverso la hall, hanno raggiunto un angolo un po’ appartato e si sono seduti a un tavolo. Sono rimasti lì seduti, con i loro schermi, per una mezzoretta, osservati dai clienti, tra cui io; poi se ne sono andati. Sia passando attraverso la gente ammassata nella hall, sia stando seduti nel loro angolo appartato, i due non hanno detto parola (forse – benché non lo ricordi – si sono bisbigliati qualcosa tra loro: ma, suppongo, qualcosa di strettamente pratico, inespressivo).

 

Essi, infatti, in quella particolare situazione – che era del tutto pubblica, o sociale, e, starei per dire, ufficiale – non avevano affatto bisogno di parlare. Il loro silenzio era rigorosamente funzionale, era il loro modo di distinguersi. E lo era semplicemente, perché la parola era superflua. I due, infatti, usavano per comunicare con gli amici, con gli osservatori – coi loro fratelli di quel momento – un altro linguaggio che quello formato da parole pronunciate. Ciò che sostituiva il tradizionale linguaggio verbale, rendendolo superfluo – e trovando del resto immediata collocazione nell’ampio dominio dei «segni», nell’ambito ciò della semiologia – era il linguaggio dei loro tasti.
Si trattava di un unico segno – appunto la pretesa alternativa delle loro cose– in cui erano concentrati tutti i possibili segni di un linguaggio articolato.

 

Qual era il senso del loro messaggio silenzioso ed esclusivamente fisico? Era questo: «Noi siamo due Hipster. Apparteniamo a una nuova categoria umana che sta facendo la comparsa nel mondo in questi giorni, che ha il suo centro nel mondo vero e che, in provincia (come per esempio anzi, soprattutto – qui a Praga) è ignorata. Noi siamo dunque per voi una Apparizione. Esercitiamo il nostro apostolato, già pieni di un sapere che ci colma e ci esaurisce totalmente. Non abbiamo nulla da aggiungere oralmente e razionalmente a ciò che fisicamente e ontologicamente dice la nostra sottocultura. Il sapere che ci riempie, anche per tramite del nostro apostolato, apparterrà un giorno anche a voi. Per ora è una Novità, una grande Novità, che crea nel mondo, con lo scandalo, un’attesa: la quale non verrà tradita. I borghesi fanno bene a guardarci con odio e terrore, perché ciò in cui consiste il nostro stile non li contesta in assoluto. Ma non ci prendano per della gente maleducata e selvaggia: noi siamo ben consapevoli della nostra responsabilità. Noi non vi guardiamo, stiamo sulle nostre. Fate così anche voi, e attendete gli Eventi. Perché siamo come voi».

 

Io fui destinatario di questa comunicazione, e fui anche subito in grado di decifrarla: quel linguaggio privo di lessico, di grammatica e di sintassi, poteva essere appreso immediatamente, anche perché, semiologicamente parlando, altro non era che una forma di quel «linguaggio della presenza fisica» che da sempre gli uomini sono in grado di usare.

Capii, e provai una immediata antipatia per quei due.

Poi dovetti rimangiarmi l’antipatia, e difendere gli hipster dagli attacchi dei benpensanti e dei fascisti: fui naturalmente, per principio, dalla parte del twitting della primavera araba, dei post Je suis Charlie ecc.: e il principio che mi faceva stare dalla loro parte era un principio rigorosamente democratico.

Gli hipster diventarono abbastanza numerosi – come i primi cristiani: ma continuavano a essere misteriosamente silenziosi; i loro smartphone erano il loro solo e vero linguaggio, e poco importava aggiungervi altro. Il loro parlare coincideva col loro essere. L’ineffabilità era l’ars retorica della loro essenza.

Cosa dicevano, col linguaggio inarticolato consistente nel segno monolitico dei baffi, gli hipster nel ’14-’15?

Dicevano questo: «La civiltà consumistica ci ha nauseati. Noi protestiamo in modo radicale. Creiamo un anticorpo a tale civiltà, attraverso il rifiuto parziale. Tutto pareva andare per il meglio, eh? La nostra generazione doveva essere una generazione di integrati? Ed ecco invece come si mettono in realtà le cose. Noi opponiamo l’executives a un destino di folla . Creiamo nuovi valori religiosi nell’entropia mainstream, proprio nel momento in cui stava diventando perfettamente laica ed edonistica. Lo facciamo con un clamore e un silenzio rivoluzionario (violenza di non-violenti!) perché la nostra critica verso la nostra società è totale e intransigente».
Non credo che, se interrogati secondo il sistema tradizionale del linguaggio verbale, essi sarebbero stati in grado di esprimere in modo cosi articolato l’assunto della loro moda: fatto sta che era questo che essi in sostanza esprimevano. Quanto a me, benché sospettassi fin da allora che il loro «sistema di segni» fosse prodotto di una sottocultura di protesta che si opponeva a una sottocultura di potere, e che la loro rivoluzione non consumistica fosse sospetta, continuai per un pezzo a essere dalla loro parte, assumendoli almeno nell’elemento anarchico della mia ideologia. Il linguaggio di quegli atteggiamenti, anche se ineffabilmente, esprimeva «cose» di opposizione. Magari della Nuova Emancipazione, nata dentro l’universo borghese (in una dialettica creata forse artificialmente da quella Mente che regola, al di fuori della coscienza dei Poteri particolari e storici, il destino della Borghesia).

Venne il 2015. Gli hipster non furono assorbiti dal Movimento Studentesco; non sventolarono con le bandiere rosse sulle barricate. Il loro linguaggio esprimeva sempre più «cose» di conformismo. (Il papa era hipster, YOLO, ASAP ecc.)

Nel 2015 – con la strage di Parigi, il veganesimo, la vittoria di Tzipras, l’espansione del Bio,[…] – gli hipster si erano enormemente diffusi: benché non fossero ancora numericamente la maggioranza, lo erano però per il peso ideologico che essi avevano assunto. Ora gli hipster non erano più silenziosi: non delegavano al sistema segnico dei loro smartphone la loro intera capacità comunicativa ed espressiva. Al contrario, la presenza fisica dei loro outfit era, in certo modo, declassata a funzione distintiva. […]
Benché gli smartphone – riassorbiti nella furia verbale – non parlassero più autonomamente ai destinatari frastornati, io trovai tuttavia la forza di acuire le mie capacità decodificatrici, e, nel fracasso, cercai di prestare ascolto al discorso silenzioso, evidentemente non interrotto, di quelle pose sempre più alternative.
Cosa dicevano, essi, ora? Dicevano: «Sì, è vero, diciamo cose alternative; il nostro senso – benché puramente fiancheggiatore del senso dei messaggi verbali – è un senso di opposizione… Ma… Ma…».

 

[…]
Insomma capii che il linguaggio degli hipster non esprimeva piú «cose» dell’underground, ma esprimeva qualcosa di equivoco, Underground-Mainstream, che rendeva possibile la presenza dei figli di papà.
Una decina d’anni fa, pensavo, tra noi della generazione precedente, un figlio di papà era quasi inconcepibile (se non a patto che fosse un grandissimo attore): infatti la sua sottocultura si sarebbe distinta, anche fisicamente, dalla nostra cultura. L’avremmo conosciuto dagli occhi, dal naso, dalla barba! L’avremmo subito smascherato, e gli avremmo dato subito la lezione che meritava. Ora questo non è più possibile. Nessuno mai al mondo potrebbe distinguere dalla presenza fisica un hipster da un figlio di papà. Mainstream e Underground si sono fisicamente fuse

Pier Paolo Pasolini, Contro i capelli lunghi, da Il Corriere della Sera, 1973

(Le frasi in corsivo sono, ovviamente, modificate, ma neppure troppo)

 

Potremmo continuare a dirci che Rimbaud non è mai morto, e che il suo vascello continua a veleggiare sopra i nostri disagi mai risolti dall’adolescenza, ma ci tradiremmo praticamente subito, perché l’unica veggenza che possediamo è sapere che tutto andrà male e sappiamo anticipare, confusamente, ciò che di scontato succederà. Possiamo scherzarci su, e rileggere il discorso sui capelloni di Pasolini e tacciarlo come reazionario, ma sostituendo alcune parole con un vocabolario più aggiornato ci accorgeremmo che le conclusioni sarebbero le stesse, solo con meno rivoluzioni immaginate e ancor meno pretese. Perché l’ortodossia e l’avanguardia non le abbiamo mai vissute, ma ne siamo un prodotto piuttosto inconsapevole. Da una parte un nostalgico rifugio quasi romantico, dall’altra una tensione inabile a completarsi, forse perché non ne esiste un motivo.

Cara avanguardia, cara ortodossia.

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