“Gli aghi d’oro” e le opere di Michael McDowell oltre la narrativa di genere

Nelle poche testimonianze reperibili su Michael McDowell c’è una costante, ovvero una frase firmata da Stephen King che definì il suo amico scrittore “the finest writer of paperback originals in America”, il migliore scrittore di romanzi tascabili in America. Un’incoronazione in tempi non sospetti, quando la fama di entrambi si andava ancora consolidando. King è diventato il re che ha spalancato i confini della narrativa di genere e continua a scrivere anche adesso, McDowell parallelamente aveva intrapreso lo stesso cammino per l’horror e il gotico, ma è scomparso prematuramente nel 1999 e la sua eredità letteraria è andata persa per molti anni fino alle ripubblicazioni di Valancourt Books negli Stati Uniti, quelle in Francia nel 2022 e in Italia nel 2023 con Neri Pozza.

L’origine del successo postumo di McDowell è nella saga di “Blackwater” pubblicata proprio nel formato tascabile rispettando il volere dello scrittore. Dopo questo clamoroso e meritato successo editoriale, sia in cartaceo che in audiolibro, l’opera di Michael McDowell torna nelle librerie con l’edizione italiana de “Gli aghi d’oro”, romanzo del 1980 che si discosta parzialmente dai temi di Blackwater (che è del 1983), mantenendone, però, i toni cupi. Innanzitutto mancano gli elementi sovrannaturali per questo romanzo autoconclusivo che esplora la New York della Gilded Age alla fine del XIX secolo. Al centro della narrazione lo scontro tra due famiglie: le Shanks, truffatrici, donne libere e padrone del loro destino, e gli Stallworth, famiglia repubblicana di aristocratici determinati a conquistare il potere e dominare la morale della città. Le loro vicende si intrecceranno in più punti temporali fino alla resa dei conti, un picco assoluto di malvagità in cui gli aghi d’oro del titolo, intinti in una potente droga, avranno un ruolo determinante.

Si perdono gli elementi sovrannaturali, quindi, ma si confermano i grandi temi della narrativa di McDowell. Intanto la complessità e preponderanza dei ruoli femminili, con almeno una delle due famiglie matriarcale esattamente come lo sono i Caskey. Tra le Shanks, infatti, emerge la matriarca Black Lena: immigrata tedesca, un passato in prigione, un presente da ricettatrice, gli aborti clandestini gestiti dalla figlia Daisy a cui ha insegnato il mestiere in un’epoca priva di diritti per le donne. L’altra figlia, Louisa, si occupa del patrimonio di famiglia, mentre i due nipoti, Rob ed Ella, otto anni, figli di Daisy, partecipano alle attività criminali con la massima dedizione. Intorno a loro una squadra di truffatrici, lottatrici tatuate e maestre dell’inganno ottimamente collocate nella gilded age in cui il romanzo è ambientato, ma al contempo moderne e non solo per gli anni in cui McDowell scrive, ma anche nella contemporaneità. Lo scrittore dà a queste donne ruoli insoliti per il canone letterario, rendendole libere di essere mostri e salvatrici a loro piacimento.

Gli Stallworth, invece, dipendono in tutto e per tutto dal vecchio giudice James Stallworth, rigido e calcolatore, ossessionato dal successo della famiglia e il suo dominio nella società newyorkese. Due figli, Edward uomo di chiesa e la vanesia Marian Phair, il marito di lei Duncan, promettente avvocato, unica grande speranza del giudice per il piano politico che ha in mente, e i due nipoti: la pia Helen e il perdigiorno Benjamin. Quando i mondi delle due famiglie si scontrano per un omicidio nel Triangolo nero, zona malfamata in cui le Shanks esercitano, la guerra che ne consegue è spietata e dall’esito non scontato. Il ribaltamento del senso di giustizia innescato dallo scrittore con le scoperte sulle due famiglie rivali fa dilagare la malvagità che da Black Lena confluisce nell’anziano giudice Stallworth e viceversa. Il risultato è un’altalena di giudizi morali che non possono che inchinarsi davanti alla potenza e alla furia delle parti coinvolte. Tra le righe c’è una condanna all’ipocrisia, ai benpensanti e alla morale condivisa mossa dagli interessi personali.

Come afferma lo scrittore Christopher Fowler nell’introduzione all’edizione americana de “Gli aghi d’oro”: i personaggi di McDowell sono spesso «impotenti e insignificanti di fronte al tempo e all’elemento naturale», e in questa impotenza generale la malvagità di alcune figure femminili spicca lucente, come lucente è l’oro che accumula Black Lena nella sua attività e di cui tappezza oggi suppellettile della casa. Se in “Blackwater” il mostruoso si fa reale nella trasformazione di alcune delle donne Caskey, ne “Gli aghi d’oro” il mostruoso è metaforico e la trasfigurazione sta nella vendetta.

Storia di uno scrittore “commerciale”

Di McDowell sopravvivono due lunghe interviste: una del 1985 per la rivista “Fangoria” del 1984 e la seconda per il volume “Faces of fear: encounters with the creatore of modern horror”, di Douglas Winter, del 1985. In entrambe emerge, cristallino, l’approccio singolare dello scrittore al suo lavoro. McDowell si definisce uno scrittore commerciale non destinato a durare nel tempo, ma non perché insicuro della bontà della sua produzione, piuttosto perché è innaturale per lui parlare di scrittura «for the ages», ovvero eterna e memorabile. La sua idea di narrativa è circoscritta nel tempo e nella storia ed è talmente spontanea che nelle prime edizioni dei suoi volumi la biografia dell’autore è assente, impensabile in questi tempi di forte individualità editoriale e culto del sé. Eppure McDowell si laureò ad Harvard, PhD alla Brandeis University con una tesi dal titolo “American Attitudes Toward Death, 1825–1865″. Ma il suo destino è la scrittura e il genere horror è l’unico che può esprimere il suo personale lato gotico. Il debutto arriva nel 1979 con “The Amulet”, la storia di un amuleto maledetto che in una città del sud degli Stati Uniti, porta morte a chiunque lo indossi. McDowell ha già scritto, soprattutto romanzi d’ispirazione autobiografica che però verranno rifiutati a lungo, fino a quando gli viene l’idea per qualcosa di diverso. In un’intervista McDowell racconta di aver ragionato sul trailer di “The Omen” e poi su “L’esorcista”: perché non ci sono ragazzini demoniaci con un nome normale, ma solo Damien o Regan? Nasce così la storia di Fred e dell’amuleto.

McDowell si consolida soprattutto come autore di Southern Gothic anche con i romanzi successivi, portando avanti i temi narrativi cardine del genere: saghe familiari sviluppate in archi narrativi lunghi, il tema della vendetta e il sovrannaturale, ma spazierà anche in altri generi e tematiche. “Gli aghi d’oro”, infatti, fa parte della produzione dedicata al Nordest statunitense e sfocia nel romanzo storico.

La scrittura per il cinema e la tv sono solo un altro dei talenti di McDowell, che lo portano a collaborare con George Romero in tv per undici episodi del suo “Un salto nel buio”, ma soprattutto con un giovane Tim Burton alla stesura della sceneggiatura di “Beetlejuice” e “The Nigtmare Before Christmas”. Beetlejuice, per esempio, nasce dal ribaltamento dei ruoli nella letteratura gotica e horror: e se fossero i fantasmi infestanti i buoni e gli umani che occupano la casa i cattivi? Il risultato è nel film brillante di Burton, che però ha toni più grotteschi e meno cupi dell’originale sceneggiatura. “The Nightmare Before Christmas” è, invece, l’adattamento cinematografico di una poesia di Tim Burton, ma McDowell lasciò il progetto molto prima della sua conclusione per divergenze creative col regista.

La formazione di scrittore di McDowell, invece, passa attraverso quegli stessi canoni che lui segue e sovverte: ci sono Eudora Welty e HP Lovecraft nelle sue letture, film horror e una fascinazione personale, quasi ossessione, verso la morte che gli consente di trattare il tema con un talento non comune: saper uccidere i suoi personaggi nel momento giusto, perché secondo la morte anche del protagonista più eroico «fa parte della vita». Il limite all’horror sarà quello della sua immaginazione, la sua peculiarità sarà sorprendere, che non vuol dire creare suspance, ma assecondare il ritmo del romanzo individuando la collocazione più giusta per i picchi di attenzione di chi legge. È questa la peculiarità de “Gli aghi d’oro” e “Blackwater”: temere per ogni personaggio ed essere comunque colti di sorpresa.

L’altra peculiarità di McDowell riguarda i temi ricorrenti: abbiamo già parlato delle sue famiglie matriarcali in cui la vendetta e l’onore sono la priorità, ma sia negli horror più puri, che nel filone gotico e thriller, come “Gli aghi d’oro”, è proprio la famiglia il cardine dell’orrore, quello che lui stesso definisce «incubo americano», ovvero un’istituzione violenta e manipolatrice. E tra horror, famiglie opprimenti e presenze inquietanti, McDowell ci infila anche il black humor, perché una vita senza, secondo lui, è praticamente impossibile.

Quando propone “The Amulet”, il suo esordio, la Avon Books accetta il manoscritto a patto che ne raddoppi la lunghezza. McDowell riprende a scrivere, cosa che farà fino a poco prima della morte, lascia il lavoro da segretario al MIT, completa anche il dottorato a Brandeis e riceve l’anticipo per altri due libri. I ritmi di scrittura di McDowell ricordano quelli di King: ha scritto sempre e se non ha scritto ha insegnato scrittura creativa e sceneggiatura. La sua idea era scrivere quanto più possibile per non lasciare mai chi lo leggeva senza materiale. La scrittura, per sua stessa ammissione, è stata divertimento, vocazione e lavoro. «Write all the time. the more you write, the easier it becomes. It’s still hard work. It’ll always be hard work!» dice in una delle poche interviste disponibili. E sul suo stile di scrittura c’è tanto da dire.

McDowell è descrittivo sia nelle scene che nella caratterizzazione dei suoi personaggi a cui fornisce ogni genere di dettaglio utile non solo per immaginarli, ma per conoscerli intimamente. È evidente l’attività da sceneggiatore e la facilità con cui inserisce l’elemento horror e inquietante. Non è leggerezza la sua, è più capacità di padroneggiare il mezzo, creare un’atmosfera e destreggiarsi nei cambi di prospettiva durante la narrazione, spesso si passa da un personaggio all’altro nella stessa scena.

Foto di Alessia Ragno

L’incipit de “Gli aghi d’oro”, per esempio, è un piano sequenza che dipinge alcuni scorci di New York della notte di capodanno tra il 1881 e il 1882, in piena Gilded Age, tra miserie e agi, e presenta così le due forze contrapposte del romanzo.

Seppure con una solida formazione smaccatamente letteraria, Michael McDowell non ha mai dovuto ricorrere a una scrittura forzatamente ricercata, ha fatto suo il formato paperback, fortunatamente preservato anche nell’edizione italiana, ma anche la definizione di “commercial writer”. Ha collezionato etichette che farebbero arricciare il naso alla maggior parte degli scrittori di questo tempo, ma fortunatamente il tempo gli ha dato ragione.

Non c’è ragione di leggere se non per il piacere. […] Scrivo così che qualcuno possa leggere le mie cose con piacere. […] Sono uno scrittore commerciale e sono orgoglioso di esserlo. Scrivo per le persone di oggi. Scrivo cose che saranno messe in libreria il prossimo mese. E penso sia importante. Penso sia un errore cercare di scrivere per i posteri. Michael McDowell, 1985.

A molti anni dalla scomparsa, Chris Morgan scrisse su LaReview of Books un ricordo di McDowell e la sua chiusa è la sintesi perfetta dell’opera che ci è rimasta: uno scrittore che ha terrorizzato lettrici e lettori riversando sulla pagina scritta ossessioni e paure personali, soprattutto quella per la morte, che sopravvive nella collezione di memorabilia e oggetti funebri custoditi dalla Northwestern University in Illinois. Ma il talento più grande, secondo Morgan, è stata la capacità di terrorizzare e affascinare a distanza di tutti questi anni «anche dalla tomba». Per McDowell non ci poteva essere destino più significativo.

 

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