La musica di Giovanni Truppi è sempre stata di difficile classificazione, un crossover di generi ed emozioni che se però ti prendono è poi difficile uscirne. Una musica che, se glielo lasci fare, ti dà del “tu” in modo profondo e concreto. Ho quindi raggiunto Giovanni via mail per parlare di alcuni suoi brani in un arco temporale dal primo all’ultimo, bellissimo, album Solopiano che il nostro ha portato in tour per l’Italia e anche l’Europa e di cui ci sarà la conclusione il 29 Aprile all’Auditorium di Roma.
Siamo partiti da Mandorle, contenuto nel suo primo album, C’è un me dentro di me una canzone d’amore, ma alla sua maniera, che per chi ha sperimentato sensazioni e storie simili fa quasi male. Quel tipo di dolore però dal quale non si può prescindere ogni tanto, soprattutto di Domenica pomeriggio.
“La questione della domenica riguarda un sacco di canzoni di un sacco di cantanti, inevitabilmente anche le mie. Sono molto affezionato a Mandorle, anche se non la suono più. È una delle prime canzoni che ho scritto, la suonavo con la band che avevo prima di iniziare a presentarmi da solo. Quando ho iniziato a lavorare a C’è un me dentro di me l’ho modificata molto – nella versione iniziale c’era un altro ritornello e per una serie di motivi suonava molto più grunge, anche se la melodia delle strofe aveva già questo sapore rétro. Mi piacerebbe provare a rifare la vecchia versione.”
La capacità di Giovanni di donare poesia a momenti quotidiani è sempre stato uno dei suoi punti di forza, momenti situazioni e personaggi che spesso sembrano vivere in mondi paralleli ed ammantati di ambiguità, galleggianti in capsule spazio-temporali non ben definite. Ad esempio in Ti voglio bene Sabino, la seconda traccia del suo secondo album. Giovanni, chi diamine è Sabino?
“Per più di dieci anni ho lavorato come insegnante di canto. L’ultima scuola dove ho insegnato era molto bella. Tra le varie cose, tutte le aule avevano porte trasparenti. Questa caratteristica ha implicato, per diversi pomeriggi a settimana e per almeno due anni, che fossi costretto a guardare per ore il mio collega che lavorava nell’aula di fronte; a volte il lavoro (come la scuola o il carcere) ci porta a vivere rapporti di convivenza continuata, forzata e soprattutto non scelta con altri esseri umani. In quel periodo avrei voluto dedicarmi esclusivamente alle mie canzoni e sentivo che la scuola “rubava” il mio tempo quindi spesso non ero felice e una cosa che mi turbava davvero molto era che il mio disagio fosse accompagnato da sentimenti affettuosi nei confronti del mio dirimpettaio, che non conoscevo quasi per niente. Iniziavo a volergli bene per inerzia e questo mi faceva arrabbiare. Sabino è una canzone allegra ma è una canzone di disperazione. È una canzone di lavoro e contro il lavoro“.
Il secondo album Il mondo è come te lo metti in testa è stato quello che ha cominciato a farlo conoscere veramente, ed a ragione, visto che contiene tante canzoni bellissime come la precedente e la prossima del nostro percorso, Amici nello spazio. La naturalezza della dialettica fra Giovanni ed il suo amico all’interno del pezzo è quasi insopportabile per chi, come il sottoscritto, ha spesso e volentieri problemi nei rapporti con le persone, lasciando che la passivo-aggressività e la noncuranza consumino le fondamenta di un’amicizia. La sensazione conclusiva che lascia la canzone è però sicuramente di estrema dolcezza ed infatti – come mi dice Giovanni – “anche a me capita di avere dei problemi nei rapporti con le persone; questa canzone non parla di problemi, parla di amore.”
Il pezzo è sicuramente uno dei picchi emotivi dei suoi live, mi è venuto quindi spontaneo provare a ricordargli che a Roma l’anno scorso qualcuno dei presenti nel momento più intenso del brano quando canta “io penso che non lo so, ma non glielo dico e poi gli do un bacio a questo mio amico” se ne uscì con un “HAI FATTO BENE GIOVANNI!” urlato a squarciagola. “No, non me lo ricordo. In linea di massima mi piace la partecipazione durante i concerti, anche quella eccessiva. Ci sono però dei momenti della scaletta che considero abbastanza sacri e quello di cui parli è uno di questi, sono contento di aver rimosso l’episodio.”
Arriviamo dunque ad occuparci di due suoi pezzi estratti dal suo terzo, omonimo, album. Il primo è Superman un brano dal video sorprendente ed imprevedibile (a firma di Francesco Lettieri) che mostra in modo abbastanza palese la sua evoluzione musicale, dalla prevalenza di una raffinata chitarra di stampo jazz ad un approccio più diretto, che coinvolge anche altri strumenti, pianoforte e fiati soprattutto e che forse è più vicino al post rock se proprio bisogna cercare di classificare tutto. Il fatto è che poi il nocciolo, l’anima di ogni canzone rimane sua, personalissima e quindi i cambiamenti in realtà nemmeno sono così sconvolgenti suonano naturali, l’ascoltatore tende a farci subito pace.
“Anche per me le classificazioni sono spiacevoli da fare infatti cerco di non farle, in generale e soprattutto quando riguardano le mie canzoni. Credo che il post rock sia un rock che veniva suonato negli anni ’90 da gruppi come i Karate, i Deus e i Red House Painters. Mi fa piacere che le canzoni ti sembrino avere una coerenza comune derivata dalla matrice anziché dagli arrangiamenti, che effettivamente cambiano da disco a disco.”
C’è poi Conversazione con Marco sui destini dell’umanità che, se parlando di canzoni si usasse la terminologia pugilistica, dichiara il buon Giovanni vincitore per ko dopo appena due minuti e cinquantaquattro secondi. Perché qui l’ascoltatore lo mette all’angolo e lo stende con una serie di colpi uno dietro l’altro tutti di fila senza neanche dargli la possibilità di alzare la guardia, passando da riflessioni sul cambiamento del ruolo e del peso della donna all’interno della società:
“E te lo dico perché a volte mi sembra che tutto quanto parta proprio dalla donna. La cosa più sconvolgente che è successa in occidente da un centinaio d’anni a questa parte è proprio la rivoluzione del rapporto tra gli uomini e le donne,e che l’umanità sta ancora completamente stordita da questa cosa”
…a quelle sulla libertà:
“Quindi tu mi dici della libertà, ma io non sono convinto semplicemente perché la libertà che è stata lo sbaracco di tutte le tirannie nei secoli dei secoli adesso non fa paura ma fa soldi.”
Un soliloquio serratissimo che dal vivo è ancora più interessante da sentire e seguire anche perché ogni tanto capita che Giovanni abbia qualche indecisione o che debba ripetere un pezzo vista la difficoltà di esecuzione, anche se ci tiene a dire “Giuro che ultimamente non mi impiccio quasi più!”.
Arriviamo alla conclusione di questo piccolo viaggio all’interno della carriera e dell’arte di Giovanni, ed ovviamente l’ultimo brano non poteva non essere estratto dalla sua ultima fatica discografica Solopiano. Sono stato fino all’ultimo indeciso fra due canzoni ma alla fine l’ha spuntata La mia felicità per svariate ragioni, dalle più banali, perché è l’ultimo pezzo del suo ultimo album, a quelle un po’ più profonde. Ad esempio che suona un po’ spaventosa, al che si potrebbe obbiettare, come! spaventosa una canzone che parla di felicità? Beh sì, perché suona terribilmente come la chiusura del cerchio, di un ciclo, e tutte le cose che finiscono fanno paura. Poi magari mi sbaglierò e semplicemente stava bene come ultimo brano però mi dà proprio questa sensazione quasi anche di sollievo nell’essere arrivato a conclusione di un ciclo, di un percorso.
Giovanni però mi (anzi, ci) tranquillizza “Sono contento che tu abbia scelto una canzone nuova piuttosto che una antica. Proprio in quanto canzone nuova considero La mia felicità all’inizio di un ciclo nuovo, non in conclusione del ciclo precedente. Non tanto nel senso che quello che farò da qui in poi debba avere troppo in comune con questo brano, più che altro perché lo considero parte del lavoro che mi porterà al mio nuovo disco di inediti.”
Dopo aver tirato un lungo sospiro di sollievo ho trovato la forza di fargli notare che questo brano è, come tantissimi dei suoi, ascrivibile alla categoria agrodolce, per temi ed atmosfera e che proprio questa parola sarebbe ottima come titolo di una raccolta di suoi brani. Giovanni non è stato troppo d’accordo, ma in realtà anche la sua risposta è stata, in un certo senso, un misto di agro e di dolce “Agrodolce non mi piace ma ti do atto che non sarebbe un titolo inappropriato ad un compendio delle mie composizioni.”
E quindi grazie mille Giovanni, ci si vede con te e con tutti voi lettori dell’Indiependente Sabato 29 Aprile all’Auditorium di Roma per l’ultima imperdibile data del tour di “solopiano”.