Marco Pane ha quattordici anni e per i suoi tratti mediterranei lo chiamano Marocco. È lui il personaggio che ci presta la voce e gli occhi per inoltrarci nelle vicende di Giovanissimi (NN editore), il secondo romanzo di Alessio Forgione (qui l’intervista in occasione del suo esordio con Napoli mon amour), selezionato per la dozzina del premio Strega 2020. La storia si svolge in un tempo narrativo diverso da quello in cui Marocco racconta: la parabola degli eventi ricopre un arco temporale vasto che l’autore rende attraverso i verbi, fino a sciogliersi sul finale. Tutto ciò che c’è da sapere su Marocco lo apprendiamo nel passato. Siamo probabilmente sul finire degli anni Novanta, c’è ancora la lira, non esiste internet, i protagonisti si incontrano per strada, nei posti consueti, rituali. È prima dei cellulari, prima degli smartphone, quando stare fuori voleva dire scappare da famiglie ingombranti o assenti e le serate si consumavano su un muretto, a parlare, a progettare: è l’adolescenza noiosa, collettiva ma pure solitaria, di quanti sono nati negli anni Ottanta, distante anni luce da quella toccata in sorte ai nati dopo.
Marocco vive col padre a Soccavo, quartiere periferico di Napoli, gioca a calcio, frequenta il liceo con scarsi risultati, ascolta Battiato, ha una passione per Dylan Dog, per le storie di extraterrestri, fantasmi e simili. Il suo miglior amico è Lunno e le vite di quelli che frequenta deragliano (furti, spaccio, risse), una dopo l’altra. Sua madre se n’è andata un giorno di luglio, senza spiegazioni: se il marito prova a cancellarne le tracce e ad ucciderla idealmente senza più nominarla, il figlio ne è ossessionato. La casa, avvolta in una atmosfera “cortazariana” è un veicolo di ricordi, suggestioni e Marocco ne esce spesso stremato. La sua è una mancanza incolmabile che mette alla prova la risolutezza di un ragazzo che insegue la serenità. E non è un caso che la ragazza di cui si innamora si chiami Serena: la fiducia di lei è la spinta di cui Marocco ha bisogno per riuscire a guardare oltre il pozzo dei giorni storti dell’adolescenza e le complicazioni del contesto. La sua visione è romantica ma verista, dribbla l’orrore pur conoscendolo e avanza ricercando un dettaglio – una storia, una ragazza, un film, una partita di calcio – che possa proiettarlo oltre la routine, oltre la violenza di cui sono impastati i suoi amici e conoscenti.
Sulle vicende aleggiano due forze contrastanti, la vita e la morte (eros e thanatos): un binario sul quale corrono le esistenze di tutti i protagonisti, ed è qualcosa che chi è cresciuto lontano da salotti e stanze dorate, conosce bene. Alessio Forgione sceglie una porzione di questa vastità: si concentra su Napoli, sul quartiere dove è cresciuto, sulle esperienze che ha attraversato, direttamente o indirettamente. Leggendo il romanzo è inevitabile un lieve batticuore. La causa è la sensazione, perenne, che possa accadere qualcosa di terribile da un momento all’altro ed è la resa, perfetta, del vivere in bilico tra legalità e illegalità, tra possibilità e negazioni. Le dicotomie di una città (come di tante altre) traslate nelle vicissitudini dei protagonisti. Il lettore si scherma dietro Marocco, che è giovane, sì, ma possiede una consapevolezza illuminante. Una emotività che lo distanzia da quelli che ha intorno, verso i quali nutre amore e benevolenza, con qualche eccezione. Marocco detesta gli sbruffoni e gli impersonali, come la sua professoressa di latino, ad esempio, incapace di trasgredire il programma ministeriale e di appassionare i suoi alunni. A differenza dei suoi amici, lui ha qualche vantaggio in partenza: suo padre lavora, è presente, è autoritario ma comprensivo, aperto al dialogo. Inoltre, Marocco alimenta la sua interiorità, la nutre e ne fa un viatico per il futuro, una leva per distanziarsi dall’irreparabilità di certe azioni: così si salva, anche se gli pare di no. Il calcio è molto presente tra le pagine: Marocco gioca in una squadra, il suo allenatore è un riferimento. Le partite sono collisioni con la vita. Sono sfoghi, diversivi (“Giocai e smisi e il sudore mi si asciugò addosso. Andai a casa. Trovai mio padre seduto al tavolo della cucina. Lo salutai, feci una doccia e tornai da lui. Nel mio corpo c’era il silenzio che c’è sulla Luna”), sono tafferugli. Si corre per sfinire i pensieri, per misurarsi, per elevarsi e immaginare di essere altro. Le descrizioni degli allenamenti sono minuziose, passaggi esemplari. La lingua di Alessio è una scrittura invitante ma tagliente, tragica, piena di pietà. Una lingua sporca, urbana, disadorna. La chiave per accedere senza retorica al segreto di esistenze di vetro in una città in sovraesposizione, a dimostrazione che niente può considerarsi già detto se trovi il modo per farlo. Giovanissimi è un punto di vista, un romanzo intimistico e sociale al contempo. Un romanzo di morti e resurrezioni, di perturbazioni emozionali, di sentimenti che assomigliano a viaggi interstellari. Doloroso, indigesto, bellissimo.