Il corteo funebre attraversa le vie di Leningrado destando grande meraviglia nel pubblico; dopo la cremazione, le ceneri sono sepolte nella regione di Mosca e sulla tomba è deposto un quadrato nero. Malevič sarà riuscito a fare della propria morte un atto suprematista. –Tzvetan Todorov
Se vi è mai capitato di provare a cercare Giorni Maledetti di Ivan Bunin in libreria allora lo sapete: è la prima volta che il libro esce in edizione italiana. Quindi bisogna partire con un elogio a Voland, che finalmente fa circolare i giorni maledetti di Bunin anche nella nostra lingua, con traduzione di Marta Zucchelli. Ma cosa sono queste giornate maledette che racconta il poeta, scrittore (e nobel) russo? Nient’altro che un’appassionata cronaca dei giorni della rivoluzione in Russia dal punto di vista di un odiatore che vive quel momento della storia come una catastrofe. Un diario che fa parlare le strade, i poeti, il popolo, i cadaveri, un’immersione nella guerra civile che si combattè tra rossi e bianchi, un’opera scritta tra il 1918 e il 1919. Bunin finirà per lasciare la patria, e non sarà il solo: se ne andranno la grande poeta Marina Cvetaeva, se ne andrà Nabokov, se ne andrà Chodasevič, autore di Necropoli – che è il resoconto della necropoli di poeti russi nel corso di quella stagione di fuoco. Nei suoi Giorni Maledetti Bunin presente la necropoli di cui racconterà Chodasevič, a volte con una vena da odiatore che può provocare fastidio. È fastidioso come bistratta Majakovskij, raccontandone le avventure da picchiatore dentro i bar, o Aleksandr Blok, a cui dedica a malapena un po’ di ironica sufficienza. A volte Bunin è così incarognito da dimenticare la bellezza dei versi dei suoi colleghi, ma allo stesso tempo la sua penna riesce a catapultarci in giornate che storicamente hanno provato a sovvertire la materia della storia, e ci permette di entrare nella battaglia che si è combattuta tra due schieramenti, nel vagabondaggio buniniano tra Mosca e Odessa, negli incontri e scontri con amici e poeti. Quelle giornate maledette saranno la premessa di una sciagura per molti poeti e artisti russi: c’è chi finirà ammazzato come Gumilëv, chi se ne dovrà scappare dal paese, e chi ci resterà come Pasternak accettando quel che ne viene.
Giorni Maledetti; Teleshov, Bunin, Gor’kij
Non è difficile capire il perché del collasso: in uno stato che tendeva a un sistema di esaltazione del collettivo, il poeta e l’artista potevano finire messi al bando se si abbandonavano troppo alle loro individualità. Così se qualcuno prova ad adeguarsi e a cantare lo stato (ma si muore d’aria brutta a far canti di stato), altri si allontanano dalla burocrazia e dall’ode al potere. Il poeta deve sentirsi libero, cantare il popolo se lo vuole, ma pure la notte fonda, l’io-sé-stesso vagabondo; il poeta deve mettersi in contatto con le forze sotterranee del mondo e cantare come opera di sovversione e meraviglia quello che emerge dal profondo. Non avremmo avuto versi più belli di Marina Cvetaeva se fosse rimasta a cantare lo stato: lo stato non si canta, il potere non si canta; si può cantare la rivolta, l’idea rivoluzionaria, si può cantare la gente, ma i meccanismi del potere, l’ode al regnante, è una cosa che suona falsa anche mentre ti esce dalla bocca. È per un epigramma a Stalin che Mandel’štam fu condannato ai lavori forzati e arrivò a morire. E con Mandel’štam abbiamo già fatto i nomi di un bel po’ di poeti che ci hanno lasciato la pelle a forza di cantare dissidenza.
Dopo un generico sentimento di entusiasmo e di partecipazione, c’è chi arrivò a pagare il prezzo delle parole. La cosa originale dello scritto di Ivan Bunin è che lui sembra non essere mai stato veramente entusiasta all’idea della rivoluzione, non le ha dato alcuna possibilità – Bunin è inferocito e si aspetta già il peggio. Sembra già di vederlo, mentre scrive, sbuffando, pronto con la valigia in mano per andarsene verso un’isola italiana, forse quella Capri dove aveva condiviso giornate e versi con l’amico Gor’kij – lo stesso a cui non risparmia stilettate nel diario dei giorni maledetti. Gor’kij andrà sempre più deciso verso il realismo, Bunin se ne andrà soltanto via.
“Questo anno maledetto è finito. E ora? Forse qualcosa di più terribile ci attende” – la ferocia di Bunin si sente sin dalle prime pagine, quando ancora è tutto in gioco sul campo di battaglia. Se Majakovskij cantava “Aderire o non aderire? / La questione non si pone per me / È la mia rivoluzione”, sembra che la questione non si ponga neanche per Bunin: non è la sua rivoluzione. Tutt’altro: è arrabbiato con Majakovskij e con chiunque canti con entusiasmo la rivoluzione sovietica. Bunin non canta, prende appunti su quella che considera una catastrofe: così quei giorni sono maledetti perché lui è già pessimista riguardo al futuro.
Altri saranno più ottimisti sulle sorti della rivoluzione, e vivranno con un sentimento di attesa confidente quelle giornate. Del resto la vita sotto la zar non era certo giusta, e tanto valeva provare a cambiare le cose – se i soldati che lo zar aveva mandato a combattere contro i tedeschi nella prima guerra mondiale se ne tornavano indietro per mettere in moto la guerra civile qualcosa nel paese non andava bene, e al solito è sempre una storia di disuguaglianze ed esasperazioni a smuovere il sentimento dell’ingiustizia e quel che ne consegue. Per Bunin però la rivoluzione è già spacciata in partenza. Se Pasternak si rifugia nel suo mondo di nuvole dove trova un salvacondotto dalla necropoli, Bunin è già pronto a lasciare il paese e non tornarci più. Marina Cvetaeva ci tornerà molto tardi, quasi costretta dagli eventi, per trovarci una brutta morte. Anna Achmatova si rinchiuderà in un silenzio imperfetto fatto di lacrime per il figlio. Nadežda Mandel’štam scriverà le sue odissee ripetendo a memoria i versi del marito morto.
I Giorni Maledetti di Bunin sembrano preannunciare il collasso della poesia, o di quell’arte suprematista di Malevič considerata troppo astratta rispetto al realismo socialista, un collasso generazionale fatto di speranze e sangue, schianti cupi; ma Bunin quel collasso non lo vorrà vedere e vivere sulla propria pelle, se ne andrà portandosi appresso una nostalgia ambulante da una parte all’altra dei continenti. Resteranno queste pagine a futura memoria, e se siete appassionati di questa atmosfera forse dovreste proprio leggere un classico come Giorni Maledetti, finalmente arrivato in libreria anche in lingua italiana. Il diario di uno scrittore che incontra e scontra la storia.