Nel 1973 la casa editrice Garzanti pubblicava “L’ultima estate in città”, romanzo d’esordio di Gianfranco Calligarich, vincitore del Premio Inedito di quello stesso anno. Nella postfazione dell’edizione Bompiani di maggio 2021, lo scrittore André Aciman ci tiene a specificare che prima di finire nelle mani di Natalia Ginzburg e Cesare Garboli, che ne intuirono il potenziale e spinsero per la pubblicazione, il romanzo «fu rifiutato da tutte le case editrici italiane». È una consolazione, penso io al momento della scrittura di questo testo, anche se non saprei nemmeno di che tipo in realtà, ma capisco che questo libro è frutto di una serie di coincidenze ed è davvero una fortuna che qualche persona all’epoca sia stata capace di guardare più lontano delle case editrici. E chissà come Calligarich immaginava la sua pubblicazione; aveva ventotto anni e quella che racconta nel romanzo era anche parte della sua storia privata. “L’ultima estate in città” vendette diciassettemila copie nell’estate del ‘73 e poi scomparve. Stop, basta, tutto finito nonostante Ginzburg, anche se Calligarich scriverà sempre e con le parole ci lavorerà come giornalista, sceneggiatore e con altra narrativa. Il primo romanzo farà ritorno nelle librerie nel 2010 grazie all’editore Aragno, per poi essere pubblicato con Bompiani nel 2016. Nel periodo in cui lo leggo, in un’edizione recuperata all’usato che contiene messaggi perduti di una bambina a sua madre, sono le prime settimane del 2023 e l’ho comprato in Italia dopo averlo sfogliato in una traduzione statunitense pubblicata da Farrar, Straus and Giroux. L’altra coincidenza che conviene raccontare è che quando finisco di leggere e mi decido a scrivere di Calligarich, lui, senza conoscere nemmeno lontanamente la mia esistenza né consapevole che prendo appunti sul suo libro e rifletto sugli accostamenti di parole che ha scritto decenni fa, esce con un nuovo romanzo per Bompiani, “Passeggiate con i cani”. È il destino, direbbero le persone romantiche, ma io non sono romantica e al destino non credo.
Dicevo, allora, che ho visto “Last summer in the city” nella libreria Type Books di Queen Street West a Toronto, ma non lo specifico per esibire viaggi che non faccio, piuttosto mi vanto delle coincidenze, la corrispondenza di sensi, il contatto reale tra me e Leo Gazzarra, il protagonista e alter ego di Calligarich in questo romanzo, che ci siamo incontrati dall’altra parte del mondo all’insaputa dell’editoria italiana. Con la lettura, occuperò il suolo di questo romanzo con l’entusiasmo prepotente di cui sono capace e lo faccio mio, talmente mio che a Leo penso spesso e nell’assenza di riscatto che lo investe mi ci specchio a lungo, mi crogiolo e coi suoi fallimenti e i miei, messi insieme, mi ci seppellisco e, infine, col peso addosso riposo serena e sconfitta. Diverso è stato poi il rapporto con “Passeggiate coi cani”, ma anche qui ritrovo Leo/Calligarich e una malinconia di vivere che mi avvolge senza particolari rimorsi.
Il protagonista de “L’ultima estate in città” è, quindi, Leo Gazzarra, un “esteta della disperazione”, uno sconfitto che rinuncia eppure ama in questo romanzo esistenziale, nelle parole di Calligarich, con tratti autobiografici. Ancora una volta mi ritrovo a pensare, e quindi scrivere, se mai ce ne fosse ancora bisogno, che il genere autofiction non guarda solo sé stesso come millantano, ma saprà andare sempre oltre l’io, mentre lo racconta, e rivolgere lo sguardo al mondo intorno. Guarda me, come potrei dare la mano a Leo senza questa universalità?
Leo è di Milano, ma arriva nella Roma degli anni Settanta a trent’anni per conquistare una prospettiva di vita e lavoro che passi anche attraverso i libri e la scrittura. Tutto quello che troverà, però, in questa capitale abbagliante e indifferente, sarà un amore irrisolto, amicizie in fuga, un alcolismo persistente e una solitudine continua, esasperante, morbosa. Quella raccontata è un’altra epoca, eppure Roma è bella e impossibile come adesso e le ambizioni di una persona si frantumano sempre con la stessa forza distruttiva. La tristezza che ne consegue è pure la stessa e la scarsa consolazione che Leo cerca nell’amore per Arianna, donna incrinata almeno quanto lui, è maledettamente sfuggente e si perde nelle strade di Roma. La Capitale, ruffiana come suo solito, di contro esibisce cieli intensi e giornate assolate a falsificare colori e percezione. Cinquant’anni dopo Leo è fermo come in una fotografia fatta di parole, mentre Calligarich torna a rimuginare, nel recente “Passeggiate con i cani”, con un nuovo protagonista «considerevolmente anziano», nonché «solitario sopravvissuto» che passeggia per la stessa Roma intensa. Io leggo e agito le mani nella speranza che i due alter ego di Calligarich mi vedano, anche se abito una dimensione parallela. «Sono qui, non mi vedete che anche io cammino col cane sulle macerie delle mie ambizioni? Ma non preoccupatevi, non provo più dolore mentre lo faccio.»
E stringo le spalle, contraggo i muscoli fino a sentirli schioccare, perché pure nel desiderio di essere vista, non voglio che i due protagonisti si preoccupino per me. Insieme abbiamo perso più volte il senso delle cose, e quando l’abbiamo riacciuffato, per un istante veloce e brillante, ci siamo resi conto che un senso non ce l’hanno mai avuto, anzi, no, perdonami Leo, non volevo essere così definitiva: il senso lo abbiamo deciso noi e plasmato a nostra immagine e somiglianza. Leo l’ha trovato nell’alcool e nel mare, l’anziano scrittore di “Passeggiate con i cani” nei ricordi, e io in queste parole lanciate al vento.
Leo Gazzarra, allora, parte da Milano per cercare fortuna, saluta il padre silenzioso e incapace di comunicare che l’ha accompagnato in stazione, e vede il corpo anziano di lui che «sussulta» alla partenza del treno. Quando Leo arriva a Roma entra in contatto con una umanità che Aciman, nella già citata postfazione, associa a “La dolce vita” e “La grande bellezza”: decadente, problematica, che infesta i salotti borghesi intrisi di cultura e ipocrisia. In questi salotti Leo non ha vita facile, passa da un lavoro all’altro per racimolare i soldi contati per la sua sopravvivenza. Quando in una di queste case borghesi e acculturate incontra Arianna, scoppia l’incendio. È una storia d’amore come la concepisce uno scrittore, con una donna, Arianna per l’appunto, eterea e civettuola che camuffa la sofferenza con una vitalità posticcia.
“[…] Come passi le giornate?”
“Leggendo.”
“E cosa, leggi?”
“Tutto.”
È qui che c’è il nucleo del loro amore; curiosa lei, lapidario lui, ma sarà Arianna l’unico personaggio a suggerire a Leo che: «Perdio, si poteva ancora salvare qualcosa, nel mondo!».
Era amore vero? Forse, perché quando lei va via, Leo sente il «silenzio insostenibile» che lascia accanto a sé. Anzi, niente forse, ora che ci penso era davvero amore.
Tra questo amore che non avrà un lieto fine e le amicizie alcoliche, altrettanto segnate, Leo spicca con la sua furia, si chiude in casa «deciso a non uscire finché il mondo non mi avesse chiesto scusa». E quando il mondo, nello specifico Roma, ignora imperterrito il suo broncio, piange inconsolabile.
Arianna, dal canto suo, non assume uno stato definito della materia. È stata ricoverata in una clinica, «uno di quei posti orribili dove la gente entra un po’ nervosa ed esce pazza completa», «fragile di nervi» le dicono, ma sono gli anni Settanta, i metodi sono spicci e violenti. Quelle di Arianna e di Leo sono «vite svalutate», lo sa chi legge il romanzo, lo sapeva l’autore, e per quanto esista un impulso a cambiare, è il contesto in cui l’azione si svolge a tirare giù, è la ripetitività, sono i salotti della Roma bene, è l’editoria in cui lavora a spegnere Leo con un «invincibile senso di inutilità». Un uomo disincantato, duro nell’aspetto, fragile in potenza, perso nei fatti.
[…] e sentivo con selvaggia chiarezza come ogni minuto che passava fosse uno in meno della mia vita.
Il senso di perdita del futuro, di fine e di stasi eterna permea ogni pensiero di Leo che è magma vivo in quell’ambiente pretenzioso e vacuo.
C’è ancora un po’ di Leo nell’ultimo romanzo di Calligarich, la stessa malinconia, ma meno solitudine perché ad accompagnarlo ci sono i cani e la loro morbidezza che scioglie l’altra voce narrante nella comunione di un pezzo di pane «che ti fa sentire innocente come loro», sempre i cani. È ritornata la vita sfuggente e marinaresca di Leo, «le mani tremanti a forza di afferrare la vita», ma anche una spolverata di fortuna nel mondo reale, quella di Calligarich stesso.
Ma non riesco a sganciarmi da Leo e dal suo non riscatto che è la verità assoluta a cui sono devota, perché se c’è una cosa che ho imparato dalla mia esperienza e dai salotti pretenziosi è che un lieto fine non è dovuto, ma non per questo perdo di valore. Se l’io-crazia (come definita da Marco Rovelli nel suo saggio “Soffro dunque sono”, 2023, Minimum Fax) in cui viviamo ci hanno abituato all’utilità, all’eccellenza come unica storia da raccontare, io prendo per mano Leo e rivendico a gran voce che lo scopo della mia vita non è essere utile, né eccezionale. Io valgo anche dopo il rifiuto reiterato dei salotti, la lentezza che mi contraddistingue, e varrò anche se la mia vita si perderà come quella di Leo.
Neanche a dirlo, anche gli altri personaggi che compaiono in “L’ultima estate in città” e con cui Leo si accompagna sono disillusi, sconfitti dalla tristezza, dai film mai realizzati, dagli amori inespressi, il «tremore delle dita», quello che c’è anche nell’ultimo romanzo, i ricoveri in psichiatria, i licenziamenti.
Considero una provocazione la coesistenza di un protagonista così irrisolto con la lingua che Calligarich sceglie per il romanzo. Un intento che dichiara sin dall’incipit:
Del resto è sempre così. Uno fa di tutto per starsene in disparte e poi un bel giorno, senza sapere come, si trova dentro una storia che lo porta dritto alla fine.
Quanto a me avrei fatto volentieri a meno di mettermi in gara. Avevo conosciuto gente di ogni genere, gente arrivata e gente che non era neanche riuscita a partire ma tutta prima o poi con la stessa faccia insoddisfatta per cui ero giunto alla conclusione che la vita fosse meglio limitarsi a osservarla, non avevo però fatto i conti con una sfigatissima mancanza di soldi in un giorno di pioggia all’inizio della primavera dell’anno scorso. […] Sia chiaro subito che non ce l’ho con nessuno, ho avuto le mie carte e le ho giocate. Ecco tutto.
E per tutto il romanzo risuonano accostamenti dissonanti di parole, immagini e concetti. Gli aggettivi sono attenti, precisi, circostanziano ogni luogo e azione con poesia. Nella sera che Leo affronta regolarmente c’è «qualcosa di crudele», il mondo che abita è «pieno di pioggia e bassezze», «il rumore soffice del traffico» allevia il senso di sconfitta come una solenne sbronza. Roma, ancora, scruta attentamente il declino di Leo, così come quello dello scrittore «anziano» di “Passeggiate coi cani”, ma quella di Leo è una città mai quieta che mistifica un senso di appartenenza, ma che di fatto «fracassa» la gente che ci vive dentro, così come fracassa il protagonista.
Roma era la nostra città, ci tollerava e ci blandiva e anch’io finii per scoprire che nonostante i lavori sporadici, le settimane di fame, le camere d’albergo umide e tenebrose, dai mobili giallicci e scricchiolanti come uccisi ed essiccati da una oscura malattia di fegato, era il solo posto dove potessi vivere. […] Roma ha in sé una ebbrezza particolare che brucia i ricordi. Più che una città è una parte segreta di voi, una belva nascosta.
In questa Roma notturna e crudele, Leo si dice: «Stiamo vivendo in tempi ben tristi ma cosa possiamo farci? Non abbiamo avuto scelta». Quando lo leggo sorrido. Non è curioso che me lo ripeta continuamente anche io? E allora che si fa? Perché non cambia niente da cinquant’anni? Come si vive con questo peso sulle spalle? Sono arrivata alla conclusione che le opzioni sono tre: ne sei felicemente inconsapevole e vivi nell’illusione, oppure ti acclamano come una fortunata eccezione e ti celebrano come tale nei salotti appositi, oppure sei come Leo, ti sbricioli e ti ricomponi a seconda del momento. E come quando ti guardi allo specchio dopo una notte travagliata, coi capelli appiccicati sulla fronte, e ti chiedi che diamine stai facendo del tuo tempo che avevi riempito con una scrittura non sufficiente per quei salotti, così Leo in “L’ultima estate in città” si specchia nel mare in un finale ambiguo, eppure così preciso.
Sono stati sempre tempi tristi, caro Leo, nulla è cambiato nemmeno ora che ti ritrovo a passeggiare coi cani nella Roma bella in cui hai sperato tanto. Il mondo che abitiamo, per citare le tue parole del ’73, è un «basso, sporco mondo in rovina». Camminiamo in due dimensioni parallele trascinando i piedi, la tua felicità è smarrita e non c’è verso di ritrovarla. Io alterno, Leo, non badare a me, perché se anche sperimento la stessa caduta delle aspettative, anche se mi chiedo ossessivamente come si capisce quando un sogno rimane tale o un fallimento paventato diventa reale, io la mano non te la lascio e ti accompagno in quel viaggio verso il mare. Non ho paura e non permetterò che mi definiscano un fallimento, e sappi che non lo sei stato nemmeno tu.