Basta ascoltare il telegiornale per venire a conoscenza dell’occupazione del Gezi Park nel centro storico della città di Istanbul. Questa, nata con il fine di impedire l’abbattimento di oltre 600 alberi in favore di un progetto che prevede la costruzione di un centro commerciale oltre che di caserme ed una moschea, si è trasformata in un vero e proprio movimento di protesta contro l’attuale governo, dilagato in tutto il Paese e coinvolgente numerose città tra cui soprattutto la capitale Ankara.
Dico basta ascoltare il telegiornale dando per scontato che tutte le persone si documentino su reti internazionali perché qui, la Turchia, sembra vittima di un blackout informativo generale. Nessuna rete locale né giornale accenna a quello che sta accadendo, come se non parlarne non rendesse il fatto reale.
Vivo in Turchia da quasi cinque mesi e, nonostante mi sia sentita a casa sin dal primo giorno, mi sembrerebbe pretenzioso mettermi ad esprimere giudizi su una realtà molto più profonda dell’apparenza. Sarebbe altrettanto prematuro definirmi già parte integrante e attiva di questa causa, nei confronti proprio di chi questo Paese lo vive e ce l’ha nel sangue.
Mi limito a riportare i fatti di quanto sta accadendo per poter permettere, a chi abbia davvero voglia di saperlo, di farsi un’idea su una realtà forse troppo poco conosciuta.
Quattro giorni fa alcune persone si sono dirette al Gezi Park con coperte, libri e bambini. Hanno montato le tende e passato la notte sotto gli alberi. Sin dall’inizio la manifestazione è stata pacifica, nel vero senso della parola, non come siamo abituati ad intendere noi una protesta, che prende invece sempre risvolti violenti a causa di gruppi che sfruttano queste occasioni per sfogare non so quali sentimenti repressi.
La mattina presto non hanno fatto altro che restare in piedi di fronte alle ruspe che avrebbero dovuto iniziare i lavori, ma la polizia è arrivata e ha disperso i manifestanti con idranti, fumogeni e spray al peperoncino. Nessun giornale né emittente televisiva era lì per raccontare la protesta.
Il numero di manifestanti ha iniziato però a moltiplicarsi e a niente è servito chiudere la metro, cancellare i treni e bloccare le strade e le vie d’accesso alla piazza. Migliaia di persone hanno semplicemente marciato contro la demolizione della salvaguardia della libertà di esprimere i propri ideali o il rispetto per i diritti umani che, invece, sono stati calpestati con violenza inaudita da chi dovrebbe difenderli sopra ogni cosa.
Scuole, ospedali e anche hotel a cinque stelle intorno a piazza Taksim hanno aperto le porte ai feriti. I dottori hanno riempito le classi e le camere di albergo per dare primo soccorso.
Intorno alla piazza sono stati posti disturbatori per impedire la connessione internet e i network 3G sono stati bloccati.
I residenti e i negozi della zona hanno dato alla gente per strada accesso alle loro reti wireless, i ristoranti hanno offerto cibo e bevande gratis.
Gli episodi violenti sono stati numerosissimi e le foto che circolano ne sono la testimonianza. I dimostranti parlano di dittatura, di repressione, di soppressione dei diritti di espressione. Da tenere in considerazione è anche però proprio l’esercito stesso, che ha sempre giocato un ruolo chiave negli equilibri di potere della Turchia in quanto gode di maggiore libertà ed autonomia rispetto ad altri paesi. Esercito che spara ad altezza uomo, che riduce persone disarmate e non violente a perdere la vista, l’udito, la capacità di deambulare, se non addirittura la vita. Esercito che vuole inginocchiare le idee della sua stessa gente che lotta anche per la loro, di libertà. Ho visto immagini molto forti e probabilmente l’unica giustificazione deriva dal fatto che maggiore é la forza e l’altezza di un’idea e più grande dev’essere la violenza che i disarmati detentori del potere devono utilizzare per non cadere al suo cospetto.
La popolazione si è unita contro la consapevolezza che l’intero Paese sia stato venduto dal governo alle corporazioni per la costruzione di centri commerciali, case di lusso, autostrade, dighe e impianti nucleari.
Si protesta quindi per fermare la demolizione di qualcosa di più grande di un parco: il diritto a vivere in democrazia. La città si stringe solidale contro il governo. Il messaggio è chiaro a tutti: Atatürk è stato il fondatore della Repubblica e rimane il simbolo di una Turchia che divide lo Stato dalla religione e che guarda a Occidente, ispirata da valori democratici, contro l’impronta capitalista di matrice islamica che sta prendendo il Paese sotto la guida di Erdogan.
Ieri non ho potuto fare a meno di scendere a piedi e unirmi ad un corteo di manifestanti in marcia verso il centro caldo della rivolta.
Le strade brulicavano di rumori di vita comune tra venditori ambulanti che avevano convertito temporaneamente il loro commercio in maschere antigas ad 1TL l’una, come se nulla fosse e tutto questo insieme con il suono dei passi della marea di gente che marciava, verso la stessa e comune prospettiva.
Ho visto fiumi di persone, tutte diverse eppure tutte uguali allo stesso tempo, convergere verso la propria storia. Migliaia di identità che si muovevano con la consapevolezza di poter fare la differenza, con la consapevolezza di avere in mano il futuro del proprio destino.
Uomini e donne avanzavano tenendo alte le bandiere delle proprie idee, ed è questo che mi ha impressionato più di tutto. La forza con cui un’idea può smuovere migliaia di corpi, che lottano per vedere realizzata nel concreto l’altezza di un proprio progetto.
Quel che compare nella mia mente è un immediato paragone con il mio di Paese, con l’Italia in cui sono nata e che ho imparato ad amare giorno per giorno.
L’unica cosa che riesco a sentire è una fortissima amarezza per la staticità e il ristagno che ho sempre respirato e vissuto, mentre la libertà e la partecipazione erano ricordi sbiaditi di racconti ormai troppo lontani.
Qui le persone hanno capito che non si può avere cambiamento senza azione, risultato senza impegno o mutamento senza presenza.
Ed è qui che la causa turca sorvola i confini e si estende a tutte le popolazioni senza alcun distinguo.
Una causa che parte da loro ma che diventa nostra, perché agire per far rispettare le proprie idee unisce tutti senza escludere nessuno.
Forse gli Italiani si sono dimenticati che la Repubblica sono loro e siamo noi, uno per uno, nome e cognome.
è nel valore di un’idea che spero che gli Italiani capiscano di essere gli elementi costitutivi dell’Italia, e non il contrario.
È nel valore di un’idea che spero che possano prendere coscienza della responsabilità che incombe sulle loro teste, quella di essere il metabolismo della nostra storia, di avere in mano il destino del nostro tempo.
Qui la pioggia non ferma i canti di protesta, non secca le idee che vibrano fuori e attorno ai sottili muri della realtà dove abitano i ministri del potere, proprio di fronte alla mia finestra.
Spero di poter prendere il buono di questa vita e riportarla alle mie terre con la speranza e l’obiettivo di una rinascita e una ricrescita rigogliosa di una delle più belle culture del nostro mondo, che pare aver dimenticato svogliatamente e distrattamente quanto valga.
Testimonianza raccolta da una ragazza italiana a Istanbul che per motivi di sicurezza lasciamo anonima