Nel 1929 a New York, qualche mese prima del crollo di Wall Street, si poteva ancora respirare un’atmosfera talmente elettrizzante da attirare chiunque rincorresse il grande sogno americano. Oggi possiamo soltanto limitarci a sorridere e a tremare allo stesso tempo pensando che questo mito sia stato creato e alimentato da cronache e simboli destinati a resistere alle intemperie dei cambiamenti, anche e soprattutto a causa della frequente consuetudine che spingeva molti autori di romanzi ad ambientare le proprie opere tra i viali alberati in autunno o nei vicoli oscuri e malfamati della città.
Thomas Wolfe era tra questi coraggiosi e arrivava dalla Carolina del Nord come tanti giovani senza niente, pronti a inseguire il desiderio di intraprendere la professione di scrittore in una metropoli che era diventata celebre principalmente grazie alla presenza di numerosissimi circoli culturali che riempivano i mai così segreti locali notturni. Il percorso di Wolfe, però, non fu asfaltato, ma lastricato di frustrazioni. Per più di un anno bussò alle porte di ogni casa editrice della città senza ottenere nemmeno una risposta perché il suo romanzo era tanto corposo quanto difficile da inserire in un unico genere letterario.
Il giorno del riscatto si fa attendere, ma giunge finalmente nel momento in cui la Scribner’s Sons lo convoca nei propri uffici per comunicargli di essere intenzionata a pubblicare il suo libro. Non è un caso che a scommettere su Wolfe sia stato Max Perkins, uno dei più grandi talent scout ed editor letterari del Novecento, artefice del successo di molti celebri scrittori, tra i quali Francis Scott Fitzgerald ed Ernest Hemingway. Tra Wolfe e Perkins si instaura fin da subito un forte rapporto lavorativo e di amicizia basato sulla stima reciproca e la dedizione per la scrittura. O Lost cambia aspetto e da manoscritto che era diventa un romanzo di successo prendendo il titolo di Look Homeward, Angel. L’esordio di Thomas Wolfe parte da qui, ma chi è davvero responsabile di questo genio letterario? Lo scrittore o il suo editor?
È questa la domanda che accompagna Genius, il debutto cinematografico del regista teatrale inglese Michael Grandage, che ha presentato il suo lungometraggio anche alla Berlinale e alla Festa del Cinema di Roma. Il film è costruito intorno alla biografia Max Perkins. Editor of Genius di Andrew Scott Berg (tradotto in italiano per Elliot edizioni) e si avvale della presenza di un cast di livello, che comprende Colin Firth nei panni di Max Perkins, Jude Law che sveste l’abito talare di The Young Pope di Sorrentino per indossare quelli non meno eccentrici ed egocentrici di Thomas Wolfe e infine Nicole Kidman che è Aline Bernstein, scenografa, musa ispiratrice e amante dello scrittore.
Cosa accade quando al cinema esplode una mania per la letteratura e il mondo dell’editoria? Il fascino che quest’universo trasmette è innegabile, ma siamo davvero così sicuri che la macchina da presa sia capace di raccontare cosa sta dietro gli sforzi di chi maneggia la parola? Sono tanti gli esempi di questo tipo che ci vengono in mente, alcuni riusciti, mentre altri meno, a partire dalla ricostruzione della vita di Leopardi in Il giovane favoloso di Mario Martone alla trasposizione letteraria di On the road di Walter Salles o di Ask the dust di Robert Towne fino ai viaggi nel tempo di Woody Allen in Midnight in Paris.
Sebbene la sceneggiatura di Genius punti i riflettori sul rapporto tra lo scrittore e l’editor, risulta piatta e a tratti soporifera, senza colpi di scena rilevanti. Tuttavia il problema più evidente riguarda la resa dei personaggi che appaiono stereotipati, appartenenti a una categoria intellettuale ben riconoscibile e decisamente simili a delle macchiette. Quello che, invece, emerge con chiarezza è cosa sia un editor, vale a dire non è un ghost writer, ma una figura che abilmente accompagna come un amico o meglio come saprebbe fare un confidente lo scrittore, prima attraverso i propri pensieri poi permettendogli di vedersi da un punto di vista esterno. Max Perkins agisce in questo modo con Thomas Wolfe: lo aiuta a tagliare centinaia di pagine e a limare le parole senza sentirsi un orfano errante.
Le premesse possono sembrare discrete, ma il film di Grandage è poco coinvolgente sia per chi non conosce i personaggi sia per chi ha ben chiara la vicenda. Il linguaggio cinematografico in questo caso non è in grado di imprimere i meccanismi del difficile lavoro editoriale se non attraverso un’analisi superficiale. Inoltre, manca la descrizione del contesto letterario e sociale da cui provengono Wolfe e Perkins, caratterialmente contrapposti attraverso la pacatezza di Firth e l’impulsività di Law. Fitzgerald ed Hemingway non esistono quasi, appaiono come tappabuchi in un paio di scene, ma fungono semplicemente da tappezzeria. E così, sui titoli di coda e le luci che si accendono in sala, abbiamo smesso di domandarci chi sia il genio, ma continuiamo a chiederci dove sia finita la storia.