Epilogo – Come Cortàzar, quella linea che unisce Buenos Aires a Parigi
À rebours. Francia, 1996 – un anno dopo L’odio di Kassovitz – un gruppo di ballerini è riunito in un edificio isolato in mezzo a montagne innevate. Il film si apre su una ragazza del corpo di ballo che, urlando, si trascina nella neve, quindi – colpo di scena – arrivano i titoli di coda. È l’incipit di Climax, l’ultimo lungometraggio di Gaspar Noé, réalisateur terrible del cinema francese, nato in Argentina – figlio del pittore Luis Felipe “Yuyo” Noé, emigrato con la famiglia a Parigi nel 1976 per sfuggire alla dittatura militare di Videla. Cinque lungometraggi all’attivo: Seul contre tous (1998), Irréversible (2002), Enter the Void (2010), Love (2015) e, appunto, Climax (2018).
Un inizio di carriera affidato ai cortometraggi, quindi Seul contre tous che ne ampliava uno – Carne – in forma di primo lungometraggio. Ma è con lo scandalo di Irréversible – con Monica Bellucci e Vincent Cassel – che Noé si conquista il lasciapassare se non verso il grande pubblico, certamente verso la grande platea dei Festival e degli amanti del Cinema o del cinema altro.
Eppure, nonostante il successo del film e le luci accese d’improvviso su un regista provocatore e irriverente, capace di realizzare opere che inchiodano lo spettatore alla poltrona – del resto è lo stesso Noé a definirsi un regista dall’idea vintage che il Cinema debba essere fruito solo nelle sale cinematografiche – le nostre strade si sarebbero incrociate solo molti anni più tardi in un bar appena aperto, e con una ragazza appena conosciuta. Mi parlò di Love in maniera entusiasta: da lì l’idea di recuperare il tempo perduto. Solo pochi giorni dopo, un post su Instagram della scrittrice Violetta Bellocchio parlava proprio di Climax: la trappola era scattata, fu certamente un caso, ma tutta la mia avventura con Noé è stata una conoscenza indietro nel tempo come in un grande e immenso reverse. Quel caso mi offrì l’approccio perfetto che molto ha da dire su un regista che, come vedremo, è ossessionato dal tempo in tutta la sua filmografia.
Shining Rave sulla neve: Climax (2018)
Vas-y, lâche-toi. Vai e lasciati andare. Nessuna sceneggiatura, nessun copione, solo una paginetta di soggetto. Nessun attore professionista, tranne Sofia Boutella e Souheila Yacoub a guidare gli altri. Richard Wagner definì la settima di Beethoven come “l’apoteosi della danza” ed è difficile non prendere in prestito la stessa definizione per i novantasette minuti di Climax. Ma se l’idea di Wagner aveva molto a che vedere con il senso di armonia che pervadeva l’opera del compositore tedesco, è chiaro, fin dalla prima scena, come Climax si muova su territori ritmici ed emotivi ben differenti.
Subito dopo i titoli “di coda” – piazzati in modo inverso all’inizio del film – Gaspar Noé introduce tutti i ballerini attraverso un filmato in VHS riprodotto su una tv incorniciata da libri e videocassette – sorta di pantheon di influenze del regista – per poi trascinarci dritti sulla pista da ballo e non staccare, da quel momento, la camera per ben tredici minuti, dando vita a un unico straordinario piano sequenza che nulla ha, però, della carrellata classica: la camera segue da vicino i ballerini, si muove all’interno della sala, quasi a presentarli uno a uno come da dietro le quinte di una tragedia shakespeariana, per poi salire verso l’alto e precipitare sui corpi, perché non esiste danza senza corpo e Gaspar Noé è anche e soprattutto questo, un regista di corpi: amati, violati, violentati, uccisi e picchiati ma anche follemente desiderati, cercati, toccati, bramati.
Climax è quello che vuole dire lo stesso titolo: un crescendo costante che conduce il film a una deriva quasi horror – tanto da far dire a molti che è proprio Climax più che ancora il remake di Guadagnino a essere il vero erede del Suspiria di Dario Argento. Il film è spezzato in due: se nella prima – attraverso la scoperta di personaggi ambigui, umbratili, ciascuno portatore a suo modo di un irrisolto personale – sono seminati i semi (cattivi), è nella seconda parte – anticipata da incredibili titoli di testa (a metà film, sì) ancora con camera fissa dall’alto – che quei semi germogliano con la complicità di una sangria corretta all’LSD.
Le riprese dall’alto del resto – lo vedremo/lo abbiamo già visto – sono un altro tratto distintivo del regista franco argentino che non ha alcuna intenzione di celarsi dietro la macchina da presa, anzi. La mano di Noé è presenza costante nei suoi film che riescono a essere, a un tempo, tanto realistici nel loro immergersi dentro i corpi e gli umori che li determinano, quanto astratti e teorici nella forzatura costante, nel parossismo di scene ed emozioni, nell’uso spudorato dei movimenti di camera.
La festa si trasformerà via via in un incubo crescente fatto di pulsioni che esplodono, di istinti incestuosi che si liberano, di desideri incontrollabili e – ancora più della violenza e del possesso del corpo dell’altro – del devastante potere della paura. I personaggi di Noé sono in fuga da qualcosa, la loro è una perenne sottrazione al disordine e al caos che, naturalmente, per contrappasso sono bilanciati alla regia da una straordinaria esecuzione formale che non è mai predeterminata e asettica, ma è, anzi, il frutto di una capacità tecnica, di una disinvoltura nell’uso del mezzo tale da condurre a un’assoluta naturalezza della ripresa anche nelle scene più complesse. Il climax del titolo porta a una fuga costante seguendo percorsi, come dentro a un labirinto di luci monocromatiche rosse, gialle, azzurre, verdi di corpi che s’incontrano, si scontrano e collidono.
Climax è per definizione dello stessa regista un film drôle – nella sua accezione di divertente – eppure come tutti i suoi film è la combinazione – cinematograficamente impeccabile – di amore e morte, della ricerca ossessiva di un contatto, di ambizioni spesso tènere dentro gesti aggressivi e violenti. È un giocattolino perfetto, una sfera stroboscopica che funziona come un’arancia meccanica che va incredibilmente a tempo e che – di là dalle dichiarazioni del regista – è uno sconvolgente detonatore di ansie che a ritmo di techno e house (ma c’è di tutto: dalle Gymnopédies di Erik Satie – autore fétiche che ascolteremo/abbiamo ascoltato nelle sue altre opere – alla metà dei Daft Punk incarnata da Thomas Bangalter e ancora Cerrone, Aphex Twin, Moroder, Soft Cell fino ai Rolling Stones con una versione strumentale di Angie che incornicia il finale sospeso nell’incredulità), ci fa precipitare dentro la violenza disturbata dall’alterazione chimica e ci trascina in una danza che, rovesciando la definizione wagneriana, è disarmonica e spettrale come i corpi che si agitano a terra nella scena finale, ripresi capovolti – ancora una volta torna l’ossessione del regista per ogni capovolgimento di prospettiva, temporale, spaziale e di senso – come marionette impazzite, incapaci di dare forma ai loro movimenti spezzandosi, anzi, quasi in movimenti innaturali, grattandosi la pelle al punto da strapparla via, fino all’arrivo della Gendarmerie a scoprire l’orrore dentro a uno spazio di scena colmo di simboli del potere che non solo fanno riferimento a tutta la nuova ondata del Nazionalismo francese ma che celano o svelano – è il caso di dire – l’amore viscerale del regista per Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pasolini.
Love o di altre cose impossibili (2015)
2’ 45’’. Noé non lascia spazio ad alcuna immaginazione nella sequenza e nelle intenzioni con cui apre il suo quarto lungometraggio, quel Love presentato al Festival di Cannes che annunciò – e mantenne – la sua aura di film scandalo. Con camera fissa, il film – dichiaratamente erotico – si apre con i corpi bellissimi e nudi dei due attori principali, anche qui non professionisti – Aomi Muyock (Electra) e Karl Glusman (Murphy) – che si masturbano reciprocamente su un letto, sulle note della Gnossienne No. 3 di Satie. Si tratta di una memoria, di un ricordo; lo comprendiamo nella scena successiva, quando Murphy, in hangover da sostanze, si sveglia accanto alla terza protagonista del film – Omi (Klara Kristin) – sentendo in lontananza il pianto del figlio. La tecnica è quella del voice over con i pensieri di Murphy a riempire le immagini – splendide – di un’apparente intimità coniugale.
Una telefonata – Nora, la madre di Electra che non sente più la figlia da due mesi – rappresenta il coup de théâtre che consente a Noé il suo viaggio nel tempo e – come apparirà chiaro più avanti – nella memoria del protagonista. Il salto è netto, Murphy è nella sua stanza – torneremo su questa stanza così piena di simboli – in un tempo certamente passato che parla ancora con Nora, ed è evidente che la loro storia è finita per sua culpa com’è indiscutibile – in questo viaggio a ritroso – che, ancora una volta, Gaspar Noé ci pone davanti a un meccanismo lampante: la distruzione di ogni possibile armonia. Se in Climax l’armonia della danza veniva/sarebbe stata distrutta, più che dalla sangria allucinogena, dalla capacità dell’LSD di portare in superficie il vero istinto dei ballerini, in Love la natura del male è tutta dentro i comportamenti del singolo.
In maniera anche fin troppo didascalica Noé gioca col nome del protagonista e con una scritta sovraimpressa che recita “Murphy’s Law. If anything can go wrong, it will” – Noé ci abituerà/ci ha abituati a scritte sovraimpresse sullo schermo di evidente ispirazione godardiana – ma l’ironia scanzonata del regista non deve trarre in inganno: se da un lato, infatti, Murphy sembra rappresentare una specie di calamita per la sfortuna, è nel finale catartico del film che in maniera chiarissima, quando viene pronunciata la frase “La vita è ciò che ne fai” che si tornano a sottolineare la responsabilità e la colpa delle proprie azioni.
Cosa accade allora dentro Love e, soprattutto come accade? Se all’inizio è lecito aspettarsi una storia totalmente in reverse – cosa che, vedremo/abbiamo visto, accadrà solamente in Irréversible – scena dopo scena ci si accorge di come il film alterni costantemente piani temporali differenti, approfittando dell’uso dell’oppio da parte di Murphy – droga cui l’aveva iniziato la stessa Electra – per costruire un percorso introspettivo che scava soprattutto nel passato del protagonista. Cos’è che ha davvero distrutto la storia d’amore tra uno studente americano di cinema di stanza a Parigi, innamorato di 2001 Odissea nello Spazio – altro tratto autobiografico dello stesso regista – e una modella che sogna di diventare una pittrice? Cos’ha davvero unito queste anime giovani e inquiete? Love è dichiaratamente il tentativo di mettere in scena un amore sessuale, di non nascondere al pubblico quello che, inequivocabilmente, è uno degli aspetti maggiormente presenti nella vita di ogni persona e Noé ci riesce ricorrendo a lunghe scene di sesso, per sua stessa ammissione, curate nel dettaglio per quanto riguarda luci e inquadrature – affascinanti le prime come impeccabili, sempre, le seconde – ma lasciate alla libera fantasia degli attori per la loro stessa “messa in scena”.
Il desiderio è la brama di consumare. Di assorbire, divorare, ingerire e digerire – di annichilire […] Per contro, l’amore è il desiderio di prendersi cura e di preservare l’oggetto della propria cura. Un impulso centrifugo, a differenza del desiderio, che è centripeto. Un impulso a espandersi, a fuoriuscire, a protendersi all’esterno; a ingerire, assorbire e assimilare il soggetto nell’oggetto.
Zygmunt Bauman, Amore Liquido, 2003
Se, però, nella prima parte assistiamo a una celebrazione del sesso e dell’amore anche lì dove si concede il deragliamento del desiderio verso chi è estraneo alla coppia – del desiderio proibito – nella seconda il sesso appare sempre più lugubre e macchinoso, specchio deformato di un tentativo – giovane e maldestro – di allargare gli orizzonti, di portare la coppia fuori da se stessa fino al club di scambisti e all’esperienza con una trans cui Electra costringe Murphy quasi come punizione per averle – dal suo canto – indotto desideri che (forse) non le appartenevano.
Bello è il bosco, buio e profondo / Ma io ho promesse da non tradire / E miglia da fare prima di dormire / E miglia da fare prima di dormire.
Robert Frost, Fermandosi accanto a un bosco in una sera di neve (da ‘New Hampshire’, 1923)
Nel segmento del loro incontro, dall’attrazione iniziale e immediata, nel rosario di promesse – E se la vita ci porta in un posto che fa male? / La vita è ciò che ne fai – che sgranano gli innamorati, come ormai appare evidente nel cinema di Noé, si percepisce l’eco del male riflesso dal futuro già noto: il tradimento (reciproco, quello di Murphy con Omi ma anche con una sconosciuta a una festa; quello di Electra con l’ex compagno gallerista interpretato da un divertito Gaspar Noé), il tentativo di allargare la coppia, la rivalità tra i due – frutto di una frustrazione che appartiene a entrambi (Murphy parla solo di cinema, mette t-shirt con il nome di Fassbinder ma non andrà mai oltre alcune foto alla sua compagna che, artista, non vedremo dipingere mai), la gioventù sospesa tra voglia di provare qualsiasi cosa e una debolezza che la incatena all’errore perpetuo.
Forse non mi piace il mio passato in generale
Come se – non bastandosi – Murphy ed Electra rinunciassero a se stessi, a quell’idea solo apparentemente ingenua, eppure ben espressa da una giovanissima Electra “Non mi intendo d’amore ma nella mia mente è come un posto che non vuoi lasciare” mentre Love sembra raccontare proprio questo: l’allontanamento dal calore dell’amore che li aveva avvicinati in una spirale di colpa e perdita.
Noé dissemina la sua opera di tracce e indizi. La scena, bellissima, del threesome è sorretta nei suoi sette minuti da Maggot’s Brain dei Funkadelic, pezzo dominato da un assolo registrato come invito a dialogare con la perdita e la morte. Come Climax, anche Love è pervaso dal dualismo amore/morte, qui declinato ancora di più nella dicotomia desiderio/annientamento quasi che i protagonisti perseguano volontariamente la distruzione del loro rapporto. Torna, del resto, anche il tema horror e, se in Climax veniva citato esplicitamente, qui è sotteso all’uso del tema di Profondo Rosso nella scena di sesso con Omi che darà avvio al segreto disfacimento della fiducia reciproca.
Ci siamo fatti una promessa! / Sì, e tu l’hai spezzata
Io ti amo / Tu non sai cos’è l’amore
Aggrappandoci per un attimo a quel voice over così presente nella produzione di Terrence Malick – ed è, certo, difficile immaginare due registi così lontani – e soprattutto al Soldato Witt de La sottile linea rossa, ci piace far notare come, mentre in Malick la ricerca del male conduce sempre a una riflessione metafisica e al rapporto divino tra male e bene, Gaspar Noé – che si muove in una dimensione assolutamente materialista: «il cazzo e la religione sono gli ultimi tabù» dirà proprio a proposito dei limiti imposti al film – sottolinea in maniera netta e decisa l’errare umano come elemento disgregante dell’armonia – in questo caso quello dell’amore (vero?), perso, in fondo, per il più classico e banale dei capricci come in maniera parziale avverrà/avveniva in Irréversible.
Quello di Murphy è un personaggio presentato senza scampo in ogni sua debolezza, in diversi momenti del film appare lampante il suo essere infantile, la sua incapacità di amare in senso pieno lì dove, invece, allo stesso modo emerge il senso del possesso o della donna come ebbe a dire De Andrè nella sua giovinezza come “di una cosa da fare”.
Non che Noé lo abbandoni al proprio destino – concedendogli colpe di gioventù condivise – eppure appare chiaro il senso se non di condanna, di assunzione di responsabilità, cui lo spinge il personaggio interpretato dallo stesso regista. Evidentemente, di là da possibili logiche di morale che tende sempre a tenere sospese – ma mai assenti, si badi bene – Noé sembra, però, metterci quasi in guardia dall’empatizzare con il suo antieroe, con quell’atteggiamento al limite del ridicolo che ha di percepirsi – attraverso un pentimento costante e tardivo – come la vittima sacrificale di scelte altrui e non come artefice delle stesse scelte che portano gli altri ad allontanarsi da se stesso.
I segreti ti rendono più forte / No, i segreti ti rendono più cupo
A volte mi manca…ridere.
La fine della storia, ambientata in un cimitero, sembra quasi indicare il peccato originale dentro la storia raccontata in Love e appare straordinariamente malinconico il ponte temporale con il loro primo incontro, ancora sulle note di Satie. Il volersi far grandi, il volersi spingere oltre, il voler leggersi sempre come eroi di una tragedia incombente: questo più di ogni cosa sembra travolgere e distruggere l’amore del titolo. Come nell’orgia di Stanley Kubrick in Eyes Wide Shut – Noé sembra quasi stendere un pesante drappo funebre sui corpi dei protagonisti: il suggello definitivo di un amore che ha commesso il più grave delle colpe, quello di non aver avuto la forza di mantenersi vitale.
Enter The Void o di neon acidi e divagazioni della mente (2010)
Due minuti e venti secondi di titoli di testa neon-psichedelici, otto minuti in soggettiva con la camera dietro la nuca di Oscar – interpretato, ancora una volta da un attore non professionista, Nathaniel Brown. Un aereo che passa in cielo, sua sorella Linda (Paz de la Huerta) che si affaccia al balcone di un piccolo appartamento di Tokyo. Di nuovo una vista dall’alto – e insieme l’idea di una prospettiva dall’alto di quell’aereo: “la paura di morire, falling into the void”. Luci al neon, Il libro Tibetano dei Morti – prestato a Oscar dall’amico Alex (Cyril Roy), la DMT fumata da Oscar che ci introduce a quattro minuti di trip lisergico: Enter The Void è già nei suoi primi minuti una dichiarazione d’intenti: It’s like Tokyo on acid, un viaggio per immagini in cui Noé gioca con la reincarnazione tibetana e con i sensi frastornati del pubblico.
Il vuoto del titolo avrà diverse interpretazioni lungo il corso del film ma è innegabile come, più di tutto, abbia a che vedere con la morte: dopo appena trenta minuti di film Oscar è, infatti, ucciso dalla polizia nel cesso di un locale – il Void, appunto – dove, ancora strafatto, stava portando della droga all’amico Victor, complice di una trappola ordita per vendicarsi del tradimento di Oscar, andato a letto con sua madre.
Enter The Void è, in fondo, la rappresentazione della morte e di un suo possibile “di là da” come un trip da DMT, un flashback lunghissimo nella vita di Oscar: l’infanzia, la separazione dalla sorella, l’arrivo a Tokyo e l’incontro con Alex, i suoi primi passi nel mondo dei drug dealer tra personaggi inquietanti e una città che si fa protagonista con le sue luci e la sua costante promessa di divertimento. La sequenza dell’anima vagante di Oscar parte con la camera che si solleva verso il cielo per seguire tra le strade di Tokyo la fuga di uno sconvolto Alex, quindi, per penetrare letteralmente dentro gli edifici dall’alto come fossero case di bambole – dapprima all’interno del locale di strip tease (Sex, Money, Power) dove lavora Linda e dove (l’ombra di Eros e Tanatos) scopa con il suo amante giapponese mentre Alex le lascia – invano – messaggi per dirle della morte del fratello; quindi attraverso un viaggio onirico e metafisico tra immagini distorte, offuscate, mai messe a fuoco, passaggi tra i muri delle case, visioni a volo d’uccello per un ritorno al grembo materno – nuovamente una vasca come nel finale di LOVE – ricordi d’infanzia (sulle note di una spettrale aria sulla quarta corda nella versione di Delia Derbyshire e immagini in auto che ricordano l’incipit di Shining).
Ed è qui, nella separazione dei due fratelli bambini dopo la morte dei due genitori che torna prepotentemente il tema delle promesse di un patto d’amore, di un rapporto morboso, di vita, di fiducia; promesse che vengono come sempre spezzate nei film di Noé e a reciderle non è mai il ciclo naturale del tempo, quanto la corruzione dell’uomo, il suo perdersi in momenti piccolissimi – il gesto insano dell’LSD in Climax, la sfida a se stessi degli amanti di LOVE, il giocare con la droga di Oscar e vedremo/abbiamo visto, la superficialità di un solo attimo del Cassel di Irréversible.
È quel vuoto a colpire: è come se i personaggi di Noé fossero tutti terrorizzati dall’assenza, dal vuoto, dal restare fermi, dall’inattività, dallo status quo delle cose; in un meccanismo dominato dalla paura di appassire, di fermarsi, di rovinare le cose attraverso le abitudini, si gettano loro malgrado dentro un vortice folle di scelte sbagliate, lievi deragliamenti o improvvise fughe contro un muro – gegen die wand – che non fanno altro che accelerarne la fine. Senza che in questo vi sia mai nulla di eroico o di superomistico. Anzi, a tratti, sembra quasi di vedere Noé che, con il suo sorriso sadico e sornione a un tempo, sta lì a godere della loro caduta da una sorta di Paradiso Perduto.
Centrale nella sua cinematografia – per la sua posizione e per l’ossessione che ha rappresentato nell’immaginario del regista, che ebbe l’opportunità di realizzarlo soltanto grazie al successo di Irréversible – e dominato da una maniacale postproduzione ai computer, Enter The Void contiene, nella sua massima compiutezza, l’idea dell’oltrepassare tipica del suo cinema che qui si spinge fino ai confini della vita e della morte. In 161 minuti – lunghissimi, solo dall’uccisione di Oscar ne passeranno ben novanta per tornare a riannodare i fili della storia – Gaspar Noé sembra mettere in scena due inferni, uno terreno e corporale, dove i contatti sono sempre mediati dalle droghe, dove il punto d’incontro appare sempre come punto di scontro – quasi una coazione a ripetere dei due protagonisti che li riporta all’incidente in cui hanno perso la vita entrambi i genitori. E un altro, spirituale o ideale – Noé non crede alla reincarnazione che usa solo come strumento narrativo – che sembra la realizzazione sul grande schermo di un bad trip.
Nella seconda parte del film i corpi sono ormai esposti senza alcuna patina di desiderio: se Eros e Tanatos tornano ancora prepotenti nella prima lap dance di Linda dopo la morte del fratello, che nulla ha più di sensuale, ma è uno stanco lasciarsi andare alla malinconia con una mente separata dal corpo, più avanti Noé si concentrerà su un intervento di aborto con una soggettiva sul piccolo feto rimosso, e nel caotico finale – in cui grottescamente Oscar si reincarnerà nel bambino concepito da Alex e Linda, il sesso, consumato nel LOVE Hotel – il cui modellino farà/ha fatto bella mostra nella stanza di Murphy – non ha più nulla di gioioso o salvifico ma assomiglia più al tentativo di due naufraghi di tenersi in qualche modo a galla.
L’Enfer. O della rabbia Irréversible (2002)
Abbiamo visto finora come la filmografia di Noé sia ancorata al tema del tempo e alla sua manipolazione. Ma se nel suo intero corpo filmico c’è davvero un’opera che procede à rebours, questa è innegabilmente Irréversible, film del 2002 che a Noé diede successo, notorietà e fece esplodere la pletora di polemiche che da quel momento non avrebbero mai più abbandonato l’uscita dei suoi lungometraggi. Irréversible inizia con i consueti titoli di testa “particolari” che qui compaiono obliqui sullo schermo e con un gioco affascinante di caratteri grafici specchiati, per poi dar via a una giostra di musiche e immagini pulsanti che saranno perfezionati – come abbiamo già visto/come vedremo – nell’incipit di Enter The Void. La camera da presa si agita nella notte come un pipistrello fuori da un palazzo fino a entrare in una delle stanze dove un uomo di mezza età, imbolsito e seminudo parla con un conoscente – “sono stato in galera perché ero andato a letto con mia figlia” / “Il tabù dei padri occidentali”. Sirene in lontananza. Cosa sono? “Sono le checche del locale qua sotto, il Rectum”. Stacco. Ecco la camera da presa che vola fuori dalla finestra e precipita sull’ingresso del locale, dove Vincent Cassel è portato fuori in barella con un braccio spezzato, mentre qualcuno alle sue spalle, “il professore di filosofia”, viene arrestato.
La storia di Irréversible – probabilmente il più famoso film di Noé almeno qui da noi in Italia (grazie alla presenza di Monica Bellucci) – è noto, ruota intorno a un’insostenibile scena di stupro lunga dieci minuti che si compie in un sottopasso stradale per mano di uno sconosciuto. Per arrivare a quella scena, però, impiegheremo ben quarantadue minuti con blocchi cinematografici che risalgono indietro nel tempo. Il primo è semplicemente scioccante: sulle note di Tempus Edax Rerum firmata da Thomas Bangalter che cita esplicitamente il brano di apertura di Shining – ancora Kubrick – Marcus (Vincent Cassel) e Pierre (Albert Dupontel) scendono nel Rectum attraversando una vera e propria catabasi. Tempus Edax Rerum è tratta da Ovidio (Metamorfosi, XV, 234) – ed è il punto finale di una vera e propria metamorfosi che coinvolge i due uomini – il compagno attuale, allegro, scanzonato, cazzone come da antieroe gaspariano e l’ex fidanzato di Alex, un posato professore – che nel Rectum – nomen omen, un luogo oscuro dominato dalle tinte del rosso e del nero, discendono in una spirale infernale – di qui si scende ancora? chiede a una certa Marcus – dominata da corpi maschili impegnati in una ridda di atti sessuali.
Noè nulla lascia all’immaginazione, pur non restando mai più di un secondo, su un corpo o su un particolare; il sesso è ancora una volta cupo, disperato, violento; Marcus e Pierre si muovono tra corpi in preda a spasmi che non appaiono mai di piacere ma di disperazione, un’ultima spiaggia neppure del desiderio sadomasochistico quanto dell’oblio di sé che sembra venir fuori da un pannello ligneo di Bosch. La discesa termina nel modo più terribile possibile: trovato il Tenia – l’autore dello stupro, un pazzo furioso, un pappone da poco – la situazione degenera e Pierre, l’unico che prova a calmare la furia senza alcun controllo di Marcus, uccide – massacrandolo in volto con un estintore – al suo posto, un uomo innocente.
Ma sono tutti i primi trenta minuti di Irréversible a essere quasi insostenibili. L’uso continuo di una steadycam ansiogena e alterata, il crescendo della furia – tutta umana – di Cassel, il viaggio schizzato nei bassifondi di Parigi tra tossici, prostitute, transessuali, tassisti, metropolitane, sono come un budello in decomposizione che la musica di Bangalter esalta in un incubo senza fine. E, a dimostrazione delle intenzioni di Noè, va detto come i primi trenta minuti siano accompagnati da un rumore di fondo a bassissima frequenza – 28 Hz simile a quello prodotto dalle onde di un terremoto – messo lì per provocare nausea, malessere, vertigine quasi che Noé volesse, con Irréversible, abbattere la separazione dello schermo e arrivare a violare i corpi e i nervi del suo pubblico.
Lo stupro al centro di una sequenza lunghissima e cruda, quasi asettica nella sua immane violenza, messinscena del dominio maschile sul femminile, summa non solo della violenza carnale come possesso ma ancora di più come dell’odio indiscriminato verso l’oggetto – perché di tale parliamo – violato, è un momento da affrontare quasi in apnea emotiva e, insieme, momento di svolta in cui il film, necessariamente vira verso un registro diverso.
Se, dunque la prima parte è stata dominata/sarà dominata da un’angoscia insostenibile per le azioni che vengono mostrate e per l’inaudita spirale di aggressività, dolore e violenza che ne riempiono gli interstizi, la seconda lascia il campo a un’ansia diversa e più sottile e forse per questo ancora più devastante.
Il fallimento di una relazione è quasi sempre un fallimento di comunicazione
Zygmunt Bauman, Amore Liquido, 2003
La fine dello stupro coincide, infatti, con un prima, raccontato nelle forme di una festa mobile, dall’arrivo in metro dei tre amici Marcus, Alex e Pierre con Noè a mettere in scena un gioco quasi teatrale di un menage a trois meta-temporale fatto di piccole gelosie, di rammarichi e rimpianti, di amicizie, invidie meschine. Ma anche di una manifesta volontà di possessione maschile, cerebrale, certo ma non lontana dallo specchio deformato – intellettuale ed edonistico – della furia del Tenia, di una donna vista come oggetto, di una mai troppo affrontata – e proprio per questo pericolosissima – debolezza che mette in luce anche i segni evidenti di una spaventosa incomunicabilità.
Ancora una volta è una banale leggerezza a far precipitare le cose: a spingere Alex a lasciare la festa – da sola – è, infatti, l’eccessivo stato di alterazione del personaggio interpretato (con la consueta padronanza teatrale del corpo) da Vincent Cassel, la droga assunta, certo, ma anche le libertà smaccate che si prende con altre ragazze alla festa, l’ennesimo atteggiamento infantile di fondo che contraddistingue i personaggi del cinema di Noé, più che figli bambini, feti – come quello che campeggia nella stanza da letto di Marcus e Alex sul poster di 2001 – incapaci di muoversi con senso di responsabilità nel mon do, uomini malati di un superomismo debole e infantile. Emerge nuovamente il tema della perdita della possibile felicità sempre presente – qui nelle forme più estreme – nel cinema di Noé.
Ma è l’ultima parte, se possibile, di Irréversible a inchiodare maggiormente allo schermo, lì dove mette in scena la storia d’amore – bellissima, tenera, allegra, spensierata e così realistica – tra Cassel e Monica Bellucci sulla quale è ormai impossibile non sentire l’ombra lunga e irreversibile della tragedia che si è ormai compiuta. Nonostante o soprattutto per il cambio di luce – quella del giorno – con i colori virati al giallo sui corpi nudi dei protagonisti in scene di vita intima e familiare, fino all’ultima scioccante rivelazione.
Prima della fine/Prima dell’inizio.
Le ultime scene di Irréversible sono ambientate all’interno della camera da letto di Marcus e Alex. Sui muri campeggiano due poster, quello centrale è di 2001 Odissea nello Spazio di Kubrick nella versione in cui campeggia il feto spaziale. Possiamo adesso tornare alla stanza da letto di Murphy: quella stanza, ancor più che questa, è uno scrigno di riferimenti e rimandi attraverso i quali Noé gioca col pubblico. Tralasciando tantissimi riferimenti che pure ci sono lungo il film, sui muri della stanza di Murphy si possono osservare i poster di: M – Il mostro di Düsseldorf (1931), Freaks (1932), Cannibal Holocaust (1960), Angst (1983), Histoire d’O (1975), The Defiance of Good (1975), Peeping Tom (1960), Baby Doll (1956) e soprattutto, Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975) e Taxi Driver (1976) come in una mappa da caccia al tesoro, una sfida al pubblico e, insieme, un modo diverso di raccontarsi.
Morale dal sottosuolo. Seul contre tous (1998)
Vivere è un atto egoista, sopravvivere è una legge biologica.
Morale. È la scritta con cui si apre Seul contre tous, il primo lungometraggio di Noé, seguito da un altro schermo nero con la scritta Giustizia. Distribuito con il titolo internazionale di I stand alone, il primo film di Noé inizia con una voce fuori campo che prova a riassumere, sullo scorrere di alcune diapositive, la vita del protagonista – il dramma di un macellaio senza lavoro che lotta da solo per sopravvivere tra le viscere della sua nazione – nato nel 1939 da un partigiano francese trucidato dal regime nazista, vittima di abusi da ragazzino da parte di un prete, macellaio equino di professione, padre per ventura e tentato omicida per errore e per istinti incestuosi verso la figlia Cynthia, muta dalla nascita.
Amore è forse una parola grossa, ma pochi in verità possono dire di conoscere cos’è l’amore
Ambientato nei primi giorni del 1980, fino al 23 marzo dello stesso anno, Seul contre tous, come anticipato, è l’evoluzione del corto Carne, e richiese ben cinque anni di lavorazione per le difficoltà economiche cui andrò incontro date le tematiche del film. I più attenti avranno ormai capito che il protagonista del film è l’uomo nudo all’inizio di Irréversible, e Seul contre tous rappresenta l’esordio acerbo ma già profondamente personale – nelle tematiche come nella voglia di provocare – del regista franco argentino. Debitore molto più verso Fassbinder che verso l’ultracitato Kubrick, Seul contre tous è un budello di solitudine e perdizione che ruota intorno all’interpretazione magistrale di Philippe Nahon (morto di Covid 19 lo scorso aprile all’età di ottantuno anni) capace di mettere in piedi un personaggio ignobile, quasi celiniano, nella sua assenza di princìpi, nel suo adeguarsi in maniera voluttuosa e iraconda alle ingiustizie del mondo. Nahon dà vita a un personaggio dostoevskijano, ma è il suo intero mondo a raccontarci di un sottosuolo, dell’assenza in fondo di tutto ciò che Noé proverà a trovare nella sua ricerca precedente/successiva: l’amore.
Tu puoi vivere con qualcuno, avere finanche dei figli ma sei solo. Vivi solo, nasci solo, muori solo. Solo, sempre solo. Perfino quando scopi, sei solo. Solo con la tua carne, solo con la tua vita, che è come un tunnel, impossibile da condividere. E più invecchi, più sei solo, ripetendo ricordi di una vita autodistruttiva.
Le boucher non riesce a trovare un lavoro e quando ne ha uno, lo abbandona subito per una sua ossessione a ricoprire il ruolo perduto prima del carcere – ancora una volta in maniera del tutto infantile, irrisolta – trascorre i suoi pomeriggi nei cinema porno, picchia la moglie – sposata unicamente per interesse – con l’intenzione di farle perdere il bambino e tornare così a Parigi dove proverà, con solo trecento franchi, a rifarsi una vita. È un uomo corrotto dal suo stesso passato, rancoroso, divorato da odio e frustrazione – la scena in albergo cita apertamente Taxi Driver – che in un rovesciamento di prospettive s’inebria della sua nullità, della sua emarginazione, della sua invidia sociale per provare a prendersi ciò che in fondo ha desiderato fin dall’inizio, il corpo della figlia, unico simulacro possibile di un amore che gli è inaccessibile per natura o per violenza subita.
È, soprattutto nel finale, dopo una scritta sullo schermo che annuncia allo spettatore che può abbandonare la sala entro 30 secondi, che Gaspar Noé offre un saggio di tutto il cinema che verrà e che abbiamo analizzato, attraverso il delirio di un uomo ormai braccato dalla vita e dalla sua stessa coscienza che immaginerà l’esecuzione della figlia come ultimo atto d’amore possibile per strapparla a una vita di solitudine, abusi e sofferenze proprio mentre ne compirà quell’abuso che la consegnerà all’atrocità del futuro.
Prologo
1971. Un bambino di appena sette anni, insieme al padre e alla madre, va a cinema a vedere 2001 Odissea nello Spazio di Stanley Kubrick in un cinema di Buenos Aires. Ne resterà folgorato. «Avevo la sensazione che mi fossi divertito più io dei miei genitori. E ricordo bene di aver chiesto loro a un tratto: “Cos’era quel bambino dalla testa enorme”. Loro mi spiegarono che “i bambini quando sono nell’utero hanno una testa enorme”. E, così, nello stesso momento si trovarono a spiegarmi la fecondazione e la nascita. Così, in un attimo, riuscii a realizzare cosa potesse essere un viaggio psichedelico, da dove venisse la vita e come fosse stata concepita. L’origine della vita. […] Era il tempo in cui le persone credevano ancora al cinema. Questo film è l’assoluta e definitiva manifestazione del potere della mente sul potere, sulla tecnologia. In termini cinematografici, 2001 è quella manifestazione.»