E’ l’aprile del 1945. Germania, ultimi giorni della seconda guerra mondiale. Gli alleati affrontano le ultime, feroci resistenze tedesche prima di sconfiggere definitivamente il Terzo Reich. Don ‘Wardaddy’ Coollier (Brad Pitt), sergente del 66° reggimento, è il comandante di un carro armato M4 Sherman chiamato Fury e dei suoi quattro uomini. Nelle prime scene si evince che il tiratore è morto in un assalto tedesco. Il suo sostituto è Norman Ellison (Logan Lerman), un giovanissimo dattilografo in guerra da sole otto settimane. Il suo inserimento nell’equipaggio è difficoltoso. La sua innocenza puerile sta scomoda al gruppo di veterani, uniti sotto il comando di Collier dalla campagna del Nord Africa agli inizi della guerra. Sarà proprio il comandante che, con spirito paterno, lo inizierà agli orrori della guerra, rendendolo un feroce combattente.
Il film segue le varie offensive e spostamenti di Fury e il suo equipaggio, rendendo con virtuosa meticolosità le operazioni di combattimento. Il regista David Ayer, forte della sua esperienza diretta di Marine, ottiene un alto livello realistico che concede al film (tematicamente convenzionale) una sua dignità.
Le immagini sono state in parte girate nel Regno Unito per la disponibilità dei carri armati reperiti al Tank Museum di Bovington, nel sud dell’Inghilterra. L’uso di queste vere macchine da guerra, compreso l’ultimo Tiger 1 operativo al mondo, rende la visione di quest’opera un’esperienza suggestiva. Il tank Fury, quasi onnipresente nelle inquadrature, è un mezzo spaventoso e affascinante, simbolo della disumana dimensione distruttrice del conflitto e contemporaneamente rifugio, casa e protezione.
E’ proprio questo fresco realismo, e l’originale centralità della figura del carro armato che salva questo film dall’essere l’ennesima ripetizione di un impersonale film di guerra. La storia, tuttavia, ha il sapore del manicheismo Hollywoodiano meno sofisticato, dove il bene a stelle e strisce salva un mondo dominato dal germe maligno. In questo senso Fury di David Ayer fa da contrappeso all’American Sniper di Eastwood. Usciti in contemporanea questi due film, dalle locandine così simili, rappresentano le due facce dell’America belligerante. Mentre in Fury il ruolo degli americani nel conflitto non può essere messo in discussione, in American Sniper echeggia un sentimento di perplessità e titubanza nei confronti di un intervento militare contraddittorio. La struttura morale del film è sfumata, complessa e contrastante. Chris Kyle (Bradley Cooper), il cecchino infallibile, combatte senza quella certezza di essere nel giusto totale. L’identità Americana è ambigua, fragile e instabile.
Il cast di Fury, nelle sale dal 2 giugno, è una formazione vincente, con tanti occhi azzurri in visi sporchi, che ruota attorno ad un carismatico Brad Pitt. E’ lui la prima punta, seguito un ottimo Logan Lerman e dal trio LeBeouf/Micheal Peña/Jon Berthal.
Fury potrà anche essere l’ennesimo squillo della ridondante tromba patriottica di Hollywood, ma è un film emotivamente appassionante e visivamente seducente.