L’esperienza umana è per sua natura contraddittoria e assai complessa. Incomprensibile nella sua interezza, inaccettabile nel suoi dolori. È la sempre nuova comprensione del reale attraverso quella di sé, la sfibrante accettazione del consueto attraverso quella di sé. Perché se è della conoscenza del mondo in cui ci troviamo a vivere, del tempo che ci troviamo ad abitare, ciò di cui dobbiamo occuparci, è dalla comprensione e accettazione di noi stessi che dobbiamo passare innanzitutto. Questo può accadere solo tramite l’esperienza e, come ha detto Tom Ford per bocca di un suo personaggio in A single man, esse “non sono ciò che accade a un uomo, ma ciò che ne fa di quello che gli accade”.
Fuani Marino, autrice di Svegliami a mezzanotte, di ciò che le è accaduto – sebbene la sua storia non si possa ridurre a eventi che le sono capitati e basta – ne ha fatto un libro. E non un libro qualsiasi. Non un memoir come tanti. Piuttosto un romanzo che, con precisione lacerante, minuzia dolorosa di dettagli, scandaglia le profondità di quella comprensione e di quella accettazione del reale e di sé con cui dobbiamo fare i conti. Mano ferma e demoni sull’attenti di fronte alla pagina bianca, Marino ha scritto uno dei migliori romanzi di quest’anno. E tutti, proprio tutti, dovremmo leggerlo.
Si ha la tendenza, per quel che posso vedere, a legare sentimenti e stati d’animo come felicità e tristezza al mondo reale. Alla quotidianità, all’immediatezza di ciò che ci circonda, alle cose che compongono la vita di tutti i giorni. Come se si cercasse di oggettivare una realtàche per sua natura non può essere estrinsecata, di trovarci una logica che sia quasi universale. Hai tutto ciò che ti serve, dunque non hai diritto alle sfumature di grigio. Pensi che sia questo, in effetti, il pensiero dominante? O credi che si stia facendo posto, in un certo senso, a un’idea di fragilità mentale e umana che sia più sfaccettata, finalmente?
Purtroppo continua a prevalere l’idea secondo cui se oggettivamente non si hanno motivi di malessere, quest’ultimo non possa o non debba esistere. Ma è di fondamentale importanza veicolare il messaggio che la malattia mentale, anche se spesso non visibile all’esterno, sia al pari di tutte le altre una realtà oggettiva con la quale possiamo essere chiamati a fare i conti. In questo senso trovo molto pericolosa anche la deriva antipsichiatrica, che demonizzando le classificazioni e i farmaci crede di restituire dignità al malato, mentre di fatto gli nega una possibilità di cura.
Il romanzo si apre con il tuo tentativo di suicidio. Ti sei lasciata cadere dal quarto piano di un palazzo, scivolata giù dalla ringhiera di un balcone. Quel giorno sei sopravvissuta a te stessa, ma è possibile che una parte di te sia effettivamente morta e che un’altra sia nata?
È probabile che sia proprio così, di fatto quella caduta segna uno spartiacque nella mia vita e nel libro fra quello che la segue e la precede. Si può dire che sia io che le persone a me vicine stiamo ancora metabolizzando quel tentativo, e la pubblicazione del libro ci ha messi ancora una volta in una posizione scomoda, costringendoci a trovare un nuovo equilibrio.
Vivere nel mondo ed esistere in sé stessi. Convivere con il mondo e coesistere con tutte le parti di sé stessi. Credi che uno sdoppiamento, e più che alla sua accezione clinica mi riferisco a una definizione pirandelliana del concetto, sia indispensabile?
È forse indispensabile per sopravvivere a un forte trauma. E in ogni caso per produrre arte. Pirandello ha dedicato molta parte della sua riflessione al concetto di identità; il momento in cui smettiamo di essere quelli che eravamo comporta uno sdoppiamento in cui ci si guarda vivere, si vede di se stessi quello che vedono gli altri. Non credo sia molto diverso dal concetto di alienazione, ma a differenza di quest’ultimo ha un’accezione che non è solo negativa.
Pensi che il dolore renda egoisti? Che la sofferenza, quella che corrode, che svuota e che riempie ogni cosa, che sfigura la parte più robusta di noi stessi, pretenda una tale attenzione da annullare ciò che c’è fuori?
È un rischio, sì. Anche Nadia Terranova, recentemente, ha parlato dell’impossibilità di accogliere il dolore altrui prima di aver elaborato il proprio, al quale in caso contrario ci si ancora, diventa come un baluardo che governa la nostra vita. Come ho scritto in Svegliami a mezzanotte, il mio egoismo è in larga parte funzionale, perché quando si convive con un disturbo psichico o anche solo con un carattere spigoloso, bisogna fare i conti ogni giorno con stati d’animo e sentimenti difficili da maneggiare.
Come hai vissuto la gestazione del romanzo? Si è trattata di una catabasi, una sorta di ridiscesa negli inferi, o piuttosto di una risalita?
Direi entrambe. Ho dovuto ripercorrere fasi molto dure, è stato come viverle una seconda volta e in questo mi riallaccio a Paolo Jedlowsky secondo il quale “l’esperienza si compie quando viene narrata”. Scriverne però mi ha anche permesso di guardare il tutto da una certa distanza, come qualcosa che riguarda il mio passato e non più la mia vita attuale.
L’autofiction parrebbe vivere, soprattutto in Italia, un periodo piuttosto florido. Assistiamo alla pubblicazione di romanzi grandiosi e allo stesso tempo estremamente delicati che hanno il pregio incommensurabile di dialogare con i lettori riuscendo a rendere una vicenda intima una storia in cui ci si può immedesimare senza remore o difficoltà. A cosa pensi sia dovuta questa sorta di cambio di rotta – se c’è, s’intende -?
Credo sia una tendenza generale, non solo italiana. Per molto tempo il romanzo è stata l’unica possibilità, l’autore attingeva dal materiale autobiografico trasfigurandolo in modo da rendersi irriconoscibile. Nel 1936, quando Francis Scott Fitzgerald raccontò in prima persona la sua depressione mettendosi a nudo nella raccolta di saggi Crack up, venne criticato duramente dal suo ex amico Ernest Hemingway, mentre oggi chi vuole scrivere ha anche questa possibilità.
Rendere narrativa la propria storia, fare i conti con il proprio dolore per trasformarlo in letteratura. È così che funziona per te l’autofiction? O è altro?
Non è detto che l’autofiction si occupi di dolore, dipende da chi la scrive e dalla sua storia, ma anche dal modo in cui lo fa. Più che un memoir o una autofiction definirei Svegliami a mezzanotte come un personal essay, che indaga i temi del disagio psichico e del suicidio partendo dal racconto di una vicenda personale.
L’autofiction è una violenza contro sé stessi o può essere la cura a sofferenze del passato cristallizzate in una parte recondita di ognuno?
Bisogna sicuramente spingere un po’ più in là i propri limiti, e in questo senso forzarli, ma non parlerei di violenza, altrimenti è meglio optare per altre forme narrative.
La scrittura per te è riabilitante?
Non da sola. Nel mio caso, ad esempio, la riabilitazione e la cura sono avvenute prima che mi mettessi a scrivere. Questo per dire che non basta trovare un beneficio terapeutico nella scrittura per farne letteratura, anzi: credo che al lettore interessi poco se chi scrive trae un vantaggio dal farlo, e in ogni caso non dovrebbe essere questo il fine ultimo.