Quando ho finito di leggere L’impero della polvere di Francesca Manfredi (La nave di Teseo editore) ho pensato che è un romanzo singolare, pregno di esistenzialismo ma anche di elementi gotici, suggestioni, incantesimi che entrano con disinvoltura in un impianto realista. Già nei racconti contenuti in Un buon posto dove stare (La nave di Teseo, premio Campiello Opera Prima 2017), Francesca mixava il surreale al quotidiano, mettendone in evidenza i paradossi, i lati scuri. Nel romanzo questa tendenza diventa ingegneria stilistica e rende la storia unica, nonostante sia incentrata sulle vicende di una famiglia. È la metà degli anni Novanta e in campagna, lontano dal centro di un paese, c’è la casa cieca. La chiamano così perché il lato che dà sulla strada, il primo che chi vi giunge si trova davanti, non ha fessure. Qui, circondate dall’orto e da animali da cortile, abitano Valentina, dodicenne e voce narrante, sua madre e sua nonna. Un mistero, una forma immotivata di apprensione, avvolge il libro, fin dalle prime pagine. È un fluido emozionale che sono gli eventi nella casa ad alimentare: crepe sanguinanti nei muri, attacchi di rane, cavallette, zanzare. Ciascuno di questi episodi, quasi biblici, ha a che fare con lo stato d’animo di Valentina e con la tensione che corre con le donne più importanti della sua vita, quelle con cui abita da quando è nata. Suo padre si è allontanato ma va spesso a farle visita. La casa cieca non era un posto per lui, eppure è qui che la madre di Valentina si è ancorata, assieme a sua figlia. L’architettura è il riflesso dello stato di salute delle relazioni tra le protagoniste che dovranno arrendersi all’energia che preme per allontanarle e farle mischiare con gli altri, nel mondo. Incantata dalla lingua di Francesca e dalla padronanza con la quale ha maneggiato la materia narrativa rendendo tutto credibile, le ho scritto e le ho fatto qualche domanda.
Ricorri a simboli, a elementi magici tipici della tradizione narrativa latino-americana per dare corpo ai non detti, ai piccoli grandi segreti tra le protagoniste. Ci racconti com’è maturata in te l’idea, vincente per la peculiarità del romanzo, di questa interdipendenza tra l’interiorità dei personaggi e la casa che abitano?
Intanto, grazie per le bellissime parole con cui hai descritto il mio romanzo, per aver notato così tanti dettagli e connessioni. L’impero della polvere è nato da un’immagine, perché nascono sempre così, le storie che scrivo. In questo caso, avevo in testa proprio una casa di campagna, isolata e ‘cieca’ da un lato, e una crepa del muro, quella della stanza di Valentina, che si tinge di rosso – che sanguina – la sera stessa in cui la ragazzina scopre di avere avuto la sua prima mestruazione. Poi sono arrivate le rane, le mosche, le altre calamità ‘bibliche’… tenevo nota di tutto in un taccuino, con appunti e schizzi a matita. L’idea era quella di far dialogare tre linee narrative: una storia semplice, familiare, ambientata nella provincia e tra i campi, personaggi comuni che si trovano a condividere lo stesso ambiente (un po’ come accadeva nei racconti di Un buon posto dove stare); una trama di segreti e non detti, come hai ben notato tu, che si agitano sotto la superficie; e una serie di elementi e accadimenti naturali che richiamassero le piaghe d’Egitto. Quello è uno dei capitoli della Bibbia che ha sempre avuto più effetto su di me: per la violenza e la spettacolarità, ma anche per il dialogo che coinvolge divinità, natura e uomo. Questi elementi, ne L’impero della polvere, hanno l’effetto di segnare lo sviluppo di Valentina, ma anche di rendere visibile lo stretto rapporto di dipendenza – quasi una prigionia – che intercorre tra le donne e la casa. Man mano che la scrittura procedeva, mi rendevo conto che la casa cieca diventava, insieme a Valentina, sua madre e sua nonna, la quarta protagonista della storia – sempre femminile, secondo la lingua italiana, e forse non a caso. È qua, nella casa come grande contenitore di tensioni ed emozioni – che a un certo punto vengono ricacciati fuori, se vogliamo – che l’elemento gotico si fa più palese.
Una leggenda di paese dice che qualunque uomo metta piede nella casa cieca o provi a diventare parte dell’equilibrio che lega Valentina, sua madre e sua nonna, sia destinato alla sofferenza. Possiamo dire che è un’esagerazione narrativa che omaggia l’energia femminile e la sorellanza? Leggendo di loro ho pensato a Gli anni dei ricordi, un film del 1995 con Winona Ryder.
È uno dei pochi film degli anni ’90 con Winona Ryder che non ho visto: corro subito a recuperarlo! Anche perché c’è Anne Bancroft, un’attrice che adoro. Per quanto riguarda la maledizione che sembra accompagnare la casa cieca e la famiglia di Valentina, più che l’energia femminile omaggia un certo fatalismo, un modo di interpretare e di restituire la realtà come se tutto fosso collegato. Un pensiero connesso con le credenze popolari, la superstizione, ancora più che con la religione. Un maniera di ragionare affine con la tradizione letteraria sudamericana di cui parlavi prima, ma anche molto praticata qui da noi, soprattutto in alcune parti d’Italia, della provincia. Dove sono cresciuta io, in Emilia, è più frequente di quanto si pensi. Il dare la colpa delle disgrazie al destino e, allo stesso tempo, al DNA: “è di famiglia”. Valentina dice: “Odiavo mia madre e mia nonna, quel mettere ogni singola azione all’interno di un ingranaggio più grande, il non lasciare via di scampo; il renderci, in fondo, delle predestinate”. Da un lato c’è chi, dal paese, osserva con malignità la casa di Valentina – popolata solo da donne, che sopravvivono alle disgrazie e gli uomini, che sono autosufficienti, autarchiche; perché è insolito che le donne possano fare tutto da sole, quasi spaventa. Dall’altro lato ci sono Valentina, sua madre e sua nonna, che scacciano questi pettegolezzi con un gesto della mano e vanno avanti – e però questi pensieri rimangono lì, unendole tra loro e contaminandole al tempo stesso, come una maledizione. La nonna e la madre si arrendono a queste voci, alle interpretazioni e agli schemi mentali, ai pregiudizi; alla fine sono le prime a intrappolarsi, a dire: siamo fatte così. Credo sia un modo come un altro di sentirsi parte di qualcosa, anche e soprattutto quando questo ha valore negativo, nefasto; quando non si hanno altre armi se non l’accettazione, o l’invocazione di una realtà superiore. Ma è anche un modo di dare un ordine al caos, di dare un significato alle cose che ci accadono attorno – dalla perdita delle persone che amiamo alle calamità naturali.
Il legame tra Valentina e sua nonna è potente. Proprio questo legame fa da specchio a quello tra Valentina e sua madre. Mi è parso come se Valentina fosse inconsapevolmente arrabbiata, come se la sua parte prematuramente e goffamente adulta ce l’avesse con la dirompenza e la freschezza della madre. È così? Dici di loro…
Valentina ce l’ha con la dirompenza apparente della madre. Una dirompenza che nasconde una incredibile arrendevolezza (ha abbandonato i suoi sogni per seguire le aspettative e le esigenze soffocanti della madre), ma anche una freddezza per nulla dissimile a quella della nonna. Quella che mostra a Valentina, nella sua volubilità: un momento è affettuosa, l’attimo dopo è sfuggente. La stessa freddezza che, un giorno dopo l’altro, ha allontanato il padre di Valentina, stanco di doverla rincorrere per capire, mai del tutto partecipe di quel piccolo mondo spaventato e ritroso, davvero un po’ ostile alla presenza maschile. La madre di Valentina è la ragazza dei boschi, quella che è scomparsa tre giorni ed è tornata senza mai raccontare nulla a nessuno. L’immagine provocante e l’atteggiamento seducente sono mezzi che utilizza per conservare più a fondo i suoi segreti. Il personaggio me lo sono immaginata come una sorta di Anna Karenina: una donna dalla personalità travolgente ma anche molto insicura, tormentata, che necessita un bisogno continuo di rassicurazioni, a prezzi altissimi.
Accettare i cambiamenti, lasciare andare, arrendersi allo scorrere del tempo, destrutturarsi: sono temi della storia che racconti e alle protagoniste occorre un evento di rottura, scioccante, per riuscire ad allontanarsi e a confondersi in mezzo agli altri. La morte della nonna si materializza con una crepa irreparabile e quindi definitiva nella casa ma è anche una ripartenza per chi resta. Ce ne vuoi parlare?
Se le piaghe d’Egitto erano una maniera per convincere il faraone a lasciare libero il popolo ebreo, le calamità che infestano la casa cieca sembrano un modo per supplicare la nonna – il personaggio più stoicamente legato al posto – e le altre donne con lei di partire, lasciarsi dietro il passato, ricominciare. Si innestano una serie di legami di dipendenza: la madre non vuole lasciare da sola la nonna, Valentina è troppo piccola per decidere per sé. Una volta che la nonna muore, la casa, lasciata all’incuria, se ne va con lei, segnando definitivamente la libertà – per quanto sofferta, per quanto mutilata – delle altre due. Anche se, come dice Valentina, il posto in cui nasci te lo porti dentro, sottopelle.
I personaggi maschili del romanzo sono tutti ammantati di fascinazione, esplicita o implicita. Penso al padre di Valentina, a Marco, a Stefano. Sono attratti dalla ritrosia delle donne della casa cieca?
Nel suo ultimo romanzo “Insegnami la tempesta”, Emanuela Canepa scrive: “Le creature che hanno urgenza di noi non sono mai quelle che scegliamo. Ne vorremmo altre, che invece sfuggono come se traessero energia dalla nostra volontà di renderci insostituibili. Il bisogno è una dinamica squilibrata.” Lo è davvero, una dinamica squilibrata, così come lo è il desiderio. La madre di Valentina, verso il finale, dice che gli esseri umani, a differenza delle piante, sono attratti dal buio, più che dalla luce. Sono richiamati da ciò che non riescono a capire, dall’imperfezione, dai vuoti, in una curiosità continua, chissà se per un senso masochistico oppure nel desiderio benevolo di sanare questi strappi, di portare in salvo chi è al buio. Il fascino che emana la madre di Valentina – che emanano le tre donne, ognuna a loro modo – deriva da questo lato in ombra, da questa pratica continua del segreto, dall’“affinità col male” dichiarata nel brano di William Faulkner in esergo. È un terreno instabile, però: il padre di Valentina, dopo aver convissuto così a lungo con queste ombre, con questa polvere, si arrende. L’impenetrabilità della madre di Valentina diventa troppo grande, insostenibile, e da attrattiva magnetica finisce per rappresentare semplicemente un ostacolo, una barriera. L’ombra diventa troppo grande, un parassita che divora il resto, e alla fine, anziché avvicinare, allontana.
Esistono le seconde possibilità, secondo te?
Lo spero. Siamo tutti umani, commettiamo errori: quello che ci rende meritevoli è il provarci, provare a fare meglio, ancora e ancora.