Incontrare Francesca Frigerio, la traduttrice di Rebecca West per Fazi, al Salone del Libro di Torino è un’esperienza davvero particolare. Tutto intorno a noi c’è ressa, spintoni, una cacofonia di voci e rumori che si mescolano in una generica amalgama di chiasso. Lei invece è posata, elegantissima nel portamento, pacata nei gesti quanto illuminata da un entusiasmo speciale nello sguardo. Ci troviamo nello stand della Fazi, affollatissimo, il che, per la casa editrice, è un gran bene. Ma, forse influenzati dal suo background di traduttrice della letteratura inglese, quando ci sediamo di fronte sembra di essere in un cottage immerso nelle verdi brughiere, con davanti una tazza di tè e la legna che crepita nel camino.
Francesca, prima di inoltrarci nel mondo di Rebecca West vorrei iniziare a parlare un po’ più in generale del tuo lavoro di traduttrice. Come nasce la tua passione per la traduzione? È innata o è maturata attraverso gli studi?
Diciamo che ho fatto un percorso un po’ contrario rispetto a quello che si fa di solito. Al giorno d’oggi chi fa il traduttore di mestiere ha fatto degli studi specifici e parte già con l’idea di fare il traduttore, anche perché bisogna costruirsi un curriculum di livello per poter arrivare a tradurre un bel nome della letteratura. Io, invece, arrivo alla letteratura come accademica: ho fatto per dieci anni la ricercatrice in università. Insegnavo e facevo ricerca sulla letteratura inglese. Ed è stato durante questo percorso che, a un certo punto, ho incontrato Rebecca West. Mi innamoro follemente dei suoi romanzi e mi dico “non è possibile che nessuno li abbia mai tradotti”. All’epoca, ormai dodici o tredici anni fa, avevo pochissima esperienza come traduttrice. Conoscevo molto bene i testi, ci avevo scritto sopra, ne studiavo la prosa, ma avevo fino ad allora tradotto solo racconti o comunque cose brevi. Ciononostante mi sono presentata dall’editore Mattioli, per il quale traducevo racconti, e gli dico: “Finalmente ho la risposta alla domanda che mi fai e che fanno sempre tutti i grandi editori: trovami un grande nome.”
E quel nome era Rebecca West. Ci racconti i dettagli del vostro incontro?
È stato piuttosto casuale. Stavo leggendo un articolo che parlava di un’autrice che mi interessava all’epoca e trovai citato il nome di Rebecca West. Mi incuriosii e decisi di leggere un paio di romanzi. Capii subito che era strepitosa. Come detto, ne parlai quindi con Mattioli, che all’epoca aveva un catalogo prettamente maschile e quindi storse un po’ il naso. Però mi disse: “Va bene, portamela”. E io gli risposi: “Guarda, ti sfido. Apri la prima pagina della Famiglia Aubrey, leggi le prime righe e poi prova a dirmi che non è un romanzo da pubblicare.” Lui le lesse sul momento, davanti a me. Alzò lo sguardo e disse: “Lo compro”. È così che ho iniziato, e sono stata quindi molto fortunata, perché ho iniziato il lavoro di traduttrice con una scrittrice che amavo. Ho iniziato per passione. Da lì sono andata avanti, ma sempre con grande fortuna, andando a cercare con determinazione i nomi che mi interessavano. Non essendo stata fino a pochi anni fa la mia prima occupazione, potevo scegliere il mio percorso e ho fatto quindi quello che mi più mi piaceva, traducendo Virginia Wolf, George Elliott, Stevenson. Insomma, i classici della letteratura inglese che mi interessavano.
Da questo primo, folgorante incontro, come si è poi evoluto il tuo mestiere?
L’ho imparato strada facendo. Non sono una grande fan delle teorie della traduzione e dei troppi tecnicismi. Sono convinta che serva grande artigianato, nel senso che bisogna fare. È un po’ come con la scrittura: devi continuare a tradurre, ti devi sedere tutte le mattine e ti ci devi mettere. Occorre tempo. La fretta è la nemica maggiore della traduzione e, ahimè, gli editori non sempre lo capiscono.
Come si svolge quindi questa tua routine di traduzione senza fretta?
Io lavoro in questo modo: faccio una prima traduzione, una prima revisione con ancora il testo originale davanti, anche solo per capire banalmente se ho saltato una riga, controllare che la punteggiatura corrisponda, e poi chiudo. Faccio una seconda revisione in cui mi occupo solo del testo italiano e poi lascio lì, anche per due o tre settimane, in modo che la testa si liberi. Così, quando torno per l’ultima revisione ho lo sguardo fresco, e a quel punto riesco a vedere delle cose che quando sei molto dentro al testo non riesci a vedere. Questo vuol dire quindi prendersi del tempo. Quando ho tradotto la trilogia della Famiglia Aubrey, dal 2008 al 2010, è stato un lavoro a tempo pieno. Per il primo volume ci ho messo 8 mesi. Quindi, quando mi chiedono tempi troppo stretti, avendo la fortuna di non fare la traduttrice come lavoro principale, io dico no, perché so che il risultato non sarebbe soddisfacente. La traduzione è mia, ci metto il mio nome e voglio consegnare un lavoro ben fatto.
E come prosegue adesso il lavoro su Rebecca West?
Non è un segreto e posso dire che Fazi ha acquistato i diritti per tutto il corpus di Rebecca West. Entro la fine dell’anno uscirà il terzo volume della trilogia e poi, a scadenze di uno all’anno, tutti gli altri libri. E Fazi mi ha chiesto disponibilità, in modo che la voce italiana di Rebecca rimanesse sempre la stessa. Ne sono felicissima, e spero che lo siano anche i lettori.
Penso proprio di sì, anche perché la saga ha avuto un bel successo. A proposito, te lo aspettavi?
Onestamente no. Quando dieci anni fa venne pubblicata da Mattioli ebbe parecchia pubblicità e copertura stampa, ma meno successo di quello che ci aspettavamo dal punto di vista commerciale. Ora con Fazi abbiamo invece avuto risultati sorprendenti.
Come mai secondo te?
Ci ho pensato ultimamente. Sicuramente Fazi si è mossa molto bene, ha investito tanto, e il fatto stesso di essere qui a Torino con un evento dedicato a Rebecca West (Omaggio a Rebecca West: la pagina e la voce della famiglia Aubrey, che si è tenuto sabato 11 maggio presso la Sala Bianca, n.d.r) la dice lunga. Penso però anche che ci sia in generale un clima favorevole alle saghe: vanno molto di moda a differenza di dieci anni fa. All’epoca non c’erano i Cazalet, non c’era la Ferrante. Negli ultimi due, tre anni, invece, i lettori si sono appassionati. E credo sia comprensibile: il fatto di conoscere personaggi che ti tengono compagnia a lungo, che vedi crescere, come nel caso degli Aubrey in cui partiamo con delle bambine per arrivare a delle donne… È per questo che, quando avevamo cominciato con Fazi il discorso sulla ripubblicazione di Rebecca West, ho trovato un’ottima idea ripartire dalla trilogia, anche se era già stata pubblicata, perché era finalmente il momento giusto. Spero che ora gli Aubrey faccia da volano alle altre opere, come è successo con la Howard grazie ai Cazalet. Elizabeth Jane Howard, tra l’altro, è una scrittrice che adoro e mi sarebbe piaciuto tradurla. Ma quando seppi che Fazi stava già lavorando al primo volume con Manuela Francescon sapevo che sarebbe stato un successo, perché è una bravissima traduttrice.
Ecco, hai citato la Howard. Come mai, secondo te, scrittrici come lei e la West sono state scoperte così tardi qui in Italia?
Beh c’è da dire che anche in Inghilterra Rebecca West ha conosciuto un paio di decenni di oblio. Lei ha avuto l’apice della carriera negli anni ’50 e ’60, ma già negli anni ’70 era un punto di riferimento come intellettuale, giornalista e polemista, e della produzione romanzesca si erano un po’ tutti dimenticati. Ciò che è successo, rispetto all’Italia, è che in Inghilterra ci sono state delle case editrici come la Virago il cui catalogo era composto da autrici prevalentemente femministe e militanti, e che aveva come scopo di andare a ripescare voci femminili del ‘900 di cui si era persa traccia. Come sempre, in Italia arriviamo un po’ dopo, ma adesso alcune case editrici nostrane stanno andando a riprendere questi cataloghi, spulciandoli per attingere al lavoro di ricerca che hanno fatto loro con vent’anni di anticipo, e adesso da noi sta veramente arrivando l’ondata. Anche perché, prima che li ripubblicassero in Inghilterra era difficilissimo proprio rintracciare fisicamente i volumi. Io ho avuto la possibilità di scoprire Rebecca West lavorando in’università a Yale, dove c’è l’archivio in cui ho potuto vedere i suoi inediti, leggere le sue carte, ma è una cosa che può fare appunto uno specialista. L’editore italiano, di base, non ha i mezzi né le persone dedicate per fare questo tipo di lavoro, per cui spesso le informazioni non circolano.
Sempre a proposito della Howard, devo farti una confessione. Nelle fazioni che si sono create anche internamente da Fazi, io parteggio più per lei che per la West. Se però tu dovessi parlare con qualcuno che non conosce né una né l’altra e dare un consiglio, quali sono gli argomenti a favore di Rebecca West?
Senz’altro la versatilità. Noi la conosciamo come autrice di questa saga, ma Rebecca West ha avuto il dono di scrivere romanzi diversissimi. Si è cimentata veramente con tutti i generi, e questo ci dice della sua capacità di mettersi in gioco e di poter scrivere in tanti modi diversi, parlare di soggetti diversi, modificare il suo stile. Si va da un romanzo grottesco e surreale degli anni ’20 fino a un romanzo storico ambientato durante la rivoluzione russa. Veramente sembra di leggere quattro o cinque scrittrici diverse. Questo in parte non l’ha aiutata, perché diventa difficile incasellarla. La Howard ha una produzione più costante. Però Rebecca West intriga, perché tu leggi un romanzo e ti chiedi come sarà il prossimo.
E questo forse è anche stimolante per te come traduttrice.
Sì, moltissimo. Perché tu affini i tuoi strumenti su tre libri e poi quello successivo è completamente diverso. Non posso dire quale sarà il prossimo pubblicato da Fazi. Posso solo dire che precede di trent’anni gli Aubrey ed è scritto da una Rebecca West giovane, militante, femminista, con una prosa più concisa e aggressiva, meno elegante ma decisamente frizzante e ironica. Anche per me, quindi, è una bella sfida. Posso dire di sicuro che il lettore non si annoierà. Ogni volta che si apre un libro della West c’è da chiedersi dove ti porterà. E, tipicamente, ti porta in luoghi interessanti.
Ultima domanda. Visto che, come abbiamo visto, oltre che traduttrice sei anche scopritrice di talenti anglosassoni, c’è qualche autrice che conosci e che porterai in Italia?
Ce ne sono una e mezza. La mezza è Elizabeth Bowen, di cui Neri Pozza ha già pubblicato qualcosa (La morte del cuore, n.d.r.), ma con Fazi stiamo adesso guardando gli altri inediti. La trovo un’altra Rebecca West: una prosa elegantissima, versatile, una produzione molto lunga che va dai primi anni ’20 fino agli anni ’80. E poi una scrittrice che è veramente una chicca. Una gallese che si chiama Dorothy Edwards e che tradurrò il prossimo autunno. Un’anarchica, vegana, totalmente fuori dagli schemi, antesignana dell’interrail, che molla tutto a vent’anni e va in Germania a imparare il tedesco, in Russia per capire ciò che vi sta succedendo. Pubblica purtroppo solo due opere, un romanzo bellissimo, Winter Sonata, che uscirà per Fazi, e una raccolta di racconti. Muore suicida a 32 anni. Era un’antesignana di tante controculture che sarebbero sorte negli anni successivi. E il romanzo è semplicemente bellissimo.