Fotografia a cura di Claudia Gugliuzza
Eravamo in una piazza che sembrava un salotto e, sul divano, con le gambe incrociate ascoltavamo i Fleet Foxes uscire da un vinile. Ci sentivamo a casa, faccia a faccia con la voce di Robin Pecknold. Lui ci sussurrava di quando era bambino (White Winter Hymnal) e di un amore difficile (Battery Kinzie). Questa è stata la sensazione che abbiamo provato lunedì sera al Ferrara sotto le stelle.
Quando si parla di un concerto dei Fleet Foxes soffermarsi sulle loro capacità tecniche, sul loro songwriting e sulle solo doti canore sarebbe scontato. Ma ciò che invece non lo è, è il talento che hanno mostrato nel riuscire a comunicare col pubblico in modo così spontaneo e intimo. Ogni pausa, nota e gesto di Robin Pecknold è stato un abbraccio, un invito a sedersi al suo tavolo e, come se conoscesse ognuno dei presenti da una vita, gli bastava uno sguardo per capire cosa stessero pensando. In circa due ore di spettacolo è riuscito a coinvolgere tutti, a far cantare, ballare, commuovere lasciando in ognuno di noi la sua voce impressa nella memoria.
Apre la serata Hamilton Leithauser. I singoli A 1000 Times e In a Black Out accompagnano le birrette dei primi spettatori arrivati in Piazza Castello, ma è un peccato vedere la sua band rilegata in un angolino del palco, già occupato dai mille strumenti dei Fleet Foxes. Autore di uno degli album più belli del 2016 e già frontman dei The Walkmen, forse si sarebbe meritato una serata tutta per lui, e gli applausi del pubblico confermano questa nostra supposizione.
Ma è quando salgono sul palco Robin e compagni che il pubblico si inizia a riscaldare, come davanti a un fuoco di un campeggio nelle sterminate campagne a stelle e strisce. Gli arpeggi di chitarra di I Am All That I Need si diffondono per Piazza Castello e, nonostante siano passate poco più di due settimane dall’uscita di Crack-Up, tutti conoscono le parole e le armonizzazioni dei nuovi brani. Ogni silenzio, infatti, diventa un’occasione per reclamare a gran voce Third of May e Fool’s Errand. Si continua con Helplessness Blues e Ragged Wood, che escono dagli amplificatori vestite di flanella a quadri e con la barba incolta. Subito ci portano alla mente quegli stili di vita alternativi che da sempre vediamo raccontati nei film indipendenti americani. Storie di vita spensierata, fatta di accordi semplici e coralità, di suonate col banjo al chiaro di luna e del sapore metallico in bocca di una Budweiser in lattina. Ci troviamo a Ferrara, nello stato del Colorado.
L’intimità raggiunge l’apice con i bis. C’è solo Robin sul palco, Robin e la sua chitarra acustica. Chiacchiera col pubblico, fa scegliere le canzoni a loro, scherza, si concede un bacio con una fan in cambio di un peluche di una balena. Tutti gli sguardi sono fissi a lui, le lacrime scendono sui visi sudati e puntellati dalle zanzare, la sua voce si unisce a quella del pubblico, sei corde umide suonano le note di Tiger Mountain Peasant Song e Oliver James. Applausi.
Il concerto è finito e la sensazione che ci accompagna alla macchina è la stessa che abbiamo avuto dopo le grandi abbuffate natalizie: un senso di sazietà e di grande soddisfazione. Forse perché le sonorità dei Fleet Foxes mi hanno sempre ricordato il Natale, e forse perché, con questo concerto, la band di Seattle ha esaudito uno dei nostri sogni nel cassetto: trascorre un Natale al caldo. Magari senza zanzare sarebbe stato ancora più bello, ma si sa, sono attratte anche loro dalla bella musica.