“Non aver avuto successo mi ha permesso di osservare la realtà da una prospettiva più privata, di preservare il mio sguardo, le mie abitudini, il mio habitat mentale”.
Napoli, 12 gennaio 2019. All’ Ex Asilo Filangieri – quello che una volta avremmo definito come uno spazio occupato e che, invece, rappresenta una di quelle comunità di lavoratori dello spettacolo, dell’arte e della cultura in autogoverno, capaci di prendere un luogo abbandonato e restituirlo, arricchito delle sue tante iniziative, al tessuto urbano e sociale – andava in scena il concerto di Flavio Giurato in coda al suo tour de Le Promesse del Mondo, uscito un paio di anni prima.
In quell’occasione senza che nessuno dei due lo sapesse si sono incrociate due strade: la mia e quella di Giuliano Ciao, autore oggi di “Flavio Giurato – Le Gocce di sudore più duro” (Crac edizioni), biografia – ma vedremo come sia qualcosa di più – di uno degli autori e degli interpreti che più sfuggono a ogni possibile definizione, nella storia musicale di questo paese, certo, ma in gran parte dell’intero universo musicale.
In quell’occasione Flavio Giurato si sarebbe presentato sul palco coi suoi compagni d’avventura e con la sua aria così particolare, svampita, stralunata per poi essere improvvisamente concentrato sui pezzi, ma anche pronto a lamentarsi – simpaticamente – del freddo di quella sera d’inverno e poi del tempo a disposizione – sempre poco – per poter continuare a suonare, quasi che quell’ora e mezzo di concerto fosse stata un riscaldamento per qualcosa che doveva avvenire e (forse) non avvenne – ma che – tra i tanti momenti indimenticabili – ha lasciato il ricordo di una versione splendida di quella perla che è Marcia Nuziale.
La fortuna di Giurato, o la sua (in)consapevole missione, è quella di rinnovare giorno dopo giorno la sua minoranza, il suo essere straniero da ambo i lati della barricata, qualsiasi essa sia, qualsiasi sia il campo di battaglia.
Io in fondo non lo sapevo. Non sapevo che davanti a me su quel palco, con una lunga sciarpa rossa c’era “un monotipo irriproducibile, ostinato, una creatura bizzarra, svagata, con un temperamento riflessivo e profondissimo ma anche estroverso. Integralista, poco governabile, docile ma pazzo, con un’aderenza totale al proprio mestiere, un tenace outsider” – per provare a usare le tante sfumature attraverso cui si compie, nel libro, il ritratto del musicista e cantautore romano.
Ero quasi un neofita di quello che da molte parti può essere definito come un culto carbonaro, ero stato qualche anno addietro, come pochi – o come tanti – folgorato dall’ascolto quasi casuale de Il Tuffatore del 1982 che non si fa fatica a definire come uno dei dischi non solo più importanti del cantautorato italiano ma della musica italiana tutta. Per arrivare però a questa consapevolezza ci sono voluti vent’anni, che hanno dato ragione al Massarini di Mr. Fantasy che ebbe a definire Giurato “un fiume carsico che riemerge molte miglia più in là, quando nessuno se lo aspetta più”.
Ancora oggi, come quella sera, Flavio Giurato resta un oggetto misterioso, autore di una doppia trilogia facilmente inquadrabile tra una prima fase analogica e una seconda digitale, questo come a raccontare di una condizione piuttosto unica: quella di ben ventitré anni di distanza fra il terzo e il quarto disco pubblicato. E in mezzo tanto e tanto ancora.
Flavio, nutre incessantemente in sé il desiderio di suonare, di scrivere, di creare, di comporre. La sua non è necessità, è piuttosto urgenza. Ripone maggiore interesse alla creazione e alla ricerca che alla sua manifestazione, alla sua esternazione. Preferisce il nodo al pettine, il tentativo alla soluzione, l’insaputo all’assodato, le grandi rotte alle passeggiate.
Il libro di Giuliano Ciao è un’opera preziosa che, per la prima volta, affronta il racconto di una vita, ancor prima che di un percorso artistico, e che prova – riuscendoci, sgombriamo subito il campo dagli equivoci – a raccontare un tragitto complesso, sfuggente, frammentato e – anche per questo – inesorabilmente affascinante, tentando di scardinare le ragioni del mistero, e riuscendoci in gran parte per poi abbandonarsi, quasi sconfitto, al velo dell’inconoscibile.
Raccontare Flavio Giurato a chi non lo conosce, snocciolare i punti saldi che possano definirlo è soluzione facile quanto inefficace. Figlio di una Roma bene dell’“aristocrazia” diplomatica, Giurato pubblica tre dischi a cavallo degli anni settanta e ottanta: l’esordio con Per Futili Motivi (Ricordi, 1978), l’affermazione e il relativo successo con Il Tuffatore (CGD, 1982), quindi la hybris di un capolavoro ostico quale fu il suo Marco Polo (CGD, 1984). La sua libertà, la sua indisciplina, la sua ortodossia morale segnarono – con Marco Polo – la frattura con l’industria discografica e, per conseguenza, un silenzio lungo più di vent’anni in cui Flavio insegnerà baseball – dopo esserne stato un campione in gioventù – e si dedicherà alla scrittura di una miriade di progetti poi rimasti inediti – e alla realizzazione di documentari per la Rai (suo fratello Blasco è regista documentaristico, l’altro, Luca, è il popolarissimo giornalista e conduttore tv).
Giurato è un autore che si è sperperato. Ha dilapidato se stesso. Ha scelto di non rincorrere niente se non i suoi fantasmi. Giurato è un atleta che si è preparato ostinatamente, lungo tutto l’arco della vita, per una competizione impossibile di cui è anche l’unico antagonista.
Quindi, una rete di coincidenze, di richiami, di occasioni, stavolta còlte, e il ritorno – con calma e in sordina – all’interno di nessuna scena, né indie, né alternativa ma solo sua, unica e irripetibile, fatta di un’incrollabile fedeltà a se stesso e l’avvio di una seconda trilogia composta da Il Manuale del Cantautore (Interbeat, 2007), da La Scomparsa di Majorana (Entry, 2015) e da Le Promesse del Mondo (Entry, 2017), questi ultimi due totalmente autoprodotti. Davanti, nell’oggi, in questo presente, il futuro – già realtà – del primo disco in inglese, Recent Happenings, e una marea di progetti che si trascinano da inizio carriera e che troveranno, forse un giorno, compimento e realizzazione.
“Quello che lui faceva era raccontare delle storie seguendo una metrica che è tutta sua, seguendo un ritmo che è tutto suo, seguendo un accompagnamento che è tutto suo. Perché secondo me se c’è una particolarità e se c’è una forza in quello che fa Flavio riguarda il fatto che lui è solo. Quando ti racconta le storie è sempre da solo con la storia che ti sta raccontando. Solo che questo suo essere solo diventa improvvisamente enorme. Il suo essere solo diventa enorme e occupa di colpo tutto lo spazio”
Cesare Basile
Per provare a raccontare Flavio Giurato, l’uomo, il musicista, il cantante, il personaggio suo malgrado, Giuliano Ciao struttura il libro in due parti: la prima è la biografia vera e propria, la storia e l’analisi dei dischi, della carriera, gli aneddoti dietro le incisioni – La scomparsa di Majorana registrato solo nelle notti di luna piena – l’impatto, le ricadute della vita privata su quella artistica e il viceversa. La seconda, invece, si apre a una quantità incredibile di voci: quelle degli amici, diventati tali proprio attraverso la musica. Coloro ai quali si deve il suo ritorno artistico, coloro i quali hanno collaborato a diverso titolo con lui e in diverse forme, e le voci di colleghi spesso anch’essi periferici, “altri”, limitrofi alla narrazione cantautorale ufficiale: da Egle Sommacal e Mimì Clementi dei Massimo Volume – coi quali condivide una tendenza a restare lungo i bordi – ai Camillas, da Cesare Basile al giovane Lucio Corsi.
“Mi piacciono tutti i suoi dischi, anche La scomparsa di Majorana mi era piaciuto parecchio. Il disco è introdotto da una traccia strumentale veramente insolita perché la ritmica della chitarra acustica si muove su un tempo completamente strano. Lui ce l’ha questa cosa, il cantato rispetto agli arpeggi non cade in battere, cioè non cade nel battere dell’arpeggio, come viene naturale fare, ma è sempre un pochettino spostato, una cosa anche molto difficile. È come se la chitarra che suona e la voce fossero lievemente sfalsate l’una rispetto all’altra. È una cosa che solo quelli bravi sanno fare, una caratteristica che fa swingare di più la musica, che la fa rotolare un pochettino di più, che la rende meno rigida. È meno difficile da fare in studio ma dal vivo è una cosa particolarmente complessa”.
Egle Sommacal
Una pletora di voci che moltiplica la luce del racconto nelle decine di superfici di un prisma, per provare a cogliere la verità tra le tante sfaccettature di un uomo in fondo schivo, riservato, nobilmente scostante ma capace di grandi gesti di amicizia – come la stecca para coi musicisti che lo accompagnano sul palco – e che sa raccontare – tanto, tantissimo – di sé e del mondo nel quale si muove – solo attraverso la forza espressiva dei suoi lavori e delle sue canzoni.
A chiudere il libro, una terza – e ultima parte – in cui Ciao prova a trovare la quadratura del cerchio, la sintesi, la definizione finale all’avventura – ancora in atto – di un musicista straordinario e di un personaggio tanto autentico quanto unico nel panorama musicale del nostro paese.
E così che Le gocce di sudore più duro funziona su diversi piani: come un manuale in grado di accompagnarci nella biografia artistica dell’uomo, una guida illuminante per i neofiti che possono essere accolti pagina dopo pagina nelle pieghe della discografia di Giurato ma anche come un libro molto importante per chi già ne conosce – almeno in parte – l’avventura musicale; perché, oltre alla miriade d’informazioni, di aneddoti, di curve e di percorsi che Ciao ha saputo non solo raccogliere ma, poi, proporre in maniera accattivante e originale, va detto che questo volume si pone come autentica sfida alla critica musicale e alla letteratura musicale di genere, interrogandosi – molto più che provando a darsi risposte – sulla natura stessa del percorso di un musicista e del suo rapporto costantemente sospeso tra intrattenimento e arte, sul senso ultimo del percorso di autore musicale prima ancora che d’interprete e della – in questo caso – indivisibilità tra due figure che qui sembrano farsi un tutt’uno con l’uomo dietro la facciata pubblica.
Giurato è una marionetta che si è scagliata più volte contro un muro. Conosce il significato dello schianto. Gli occhi di Flavio sono quelli di chi ha guardato il sole sempre dritto, di chi l’ha fissato a lungo e ora mostra evidenti danni alla superficie oculare. Nel posto in cui Flavio abita è necessario sottoporsi a forme di atletismo disumano al fine di reggere il peso di tanto trambusto.
Del resto – ci suggerisce l’analisi di Ciao – la stessa storia di Flavio Giurato è quella di un movimento continuo, capace di acquisire un senso tanto in anticipo nelle intenzioni intuitive e misteriose, quanto nello sviluppo del gesto. La carriera di Giurato è proposta – non in maniera errata – attraverso il confronto con la sua esperienza sportiva dal tennis – che è alla base de Il Tuffatore – al baseball, il suo grande amore. Ed ecco allora che il percorso musicale e artistico di Giurato assomiglia sempre più a quello delle traiettorie del gioco del baseball coi suoi tempi lunghi di costruzione, con la palla a disegnare percorsi nell’aria, i corpi tesi – chi nell’atto di raccogliere la palla, chi di batterla con la mazza mentre gli altri sono pronti a scattare per conquistare la prossima base sul diamante. O come nel tennis – come si diceva – in quel gioco continuo di geometrie di una pallina, ancora, stavolta gialla, a superare una rete in un costante scambio di linee, rovesci, diritti, diagonali e rettilinei, palle tese e volée curve e morbide.
Quella di Flavio Giurato è la storia di un percorso, di traiettorie sghembe che non conoscono il senso della linearità ma sanno benissimo gli strappi, le trincee del primo disco, i campi di tennis del secondo, le rotte immaginarie su una mappa della Terra in Marco Polo lì dove – nella ripetitività del canto de Le Funi, pezzo cui mi lega una storia intima e personale come tutte le canzoni che hanno un peso importante nella vita di ciascuno di noi – restituisce intatta la tensione del movimento, della partenza e dei ritorni. Di destini che si fanno e si disfano incessantemente.
Lo stesso destino che accompagna la vita di Giurato e che Giuliano Ciao ci restituisce, trattenendo a stento la sua ammirazione eppure raccontandoci l’avventura di un uomo, in fondo, come specchio del grande romanzo sulla Via della Seta cui Giurato in qualche modo sa tornare sempre.
Narratore di storie, narratore della sua storia dentro la Storia: l’infanzia in Argentina, l’adolescenza a Monte Sacro, la giovinezza a Londra – dove nascerà il suo primo figlio, Thomas – quindi ancora Roma, la villetta nel quartiere tranquillo, i natali agiati e una vita costantemente precaria. Se il primo Giurato è un uomo che, con un’urgenza palpabile e coinvolgente, raccontava – certo sempre attraverso una buona dose di filtri – la sua stessa presenza al centro della sua vita e, dunque, del mondo, ecco che nella seconda fase di una carriera incredibile, per qualità ed eccezionalità del percorso, Giurato, se da un lato perde la graniticità del racconto coerente – quel rapporto con la materia coesa che fa dei primi tre album tre concept sui generis – dall’altro guadagna, nella polifonia delle voci e delle storie che, però, non si presenteranno mai come racconti semplici e lineari, il sapiente mescolarsi di riferimenti privati e generali dentro un impasto lirico magmatico e ipnotico che ne fanno narrazioni d’insieme.
Del resto sul piano musicale, se il primo Giurato sarà certamente influenzato dalle correnti intorno a sé – se il primo disco è il solo fortemente influenzato dalla scena cantautorale romana, gli altri due sono certamente ascrivibili a una natura anche progressive e jazzistica pur dentro a una matrice sonora assolutamente personale e per molti aspetti – da che il loro fascino e l’onda lunghissima del successo e della stima che li accompagnano – indefinibile; nella seconda parte di carriera Giurato saprà acquisire, nel tempo, una natura ancora più personale, fortemente legata al suono delle sue preziosissime chitarre, agli armonici naturali – che sorreggono La scomparsa di Majorana – a una voce “trovata chissà dove, per niente accondiscendente. Rigata, scentrata. Un lessico, una sintassi mai banali, punti di vista obliqui, alogici. Visioni, ossimori, aforismi, ironie, giustapposizioni, iperboli, reticenze”.
Ecco allora che Le gocce di sudore più duro con un linguaggio semplice e chiaro che non rinuncia però a citare – e non a sproposito – Samuel Beckett, Carmelo Bene, Emil Cioran, Heinrich von Kleist e Gilles Deleuze – non solo racconta una storia, quella di Giurato, ma diventa un momento di riflessione – necessario – sul ruolo dell’artista oggi, sulla necessità di non scendere a compromessi, prima di ogni altra cosa verso se stessi, mostrando – o intuendo – che l’unica strada per una musica che possa ancora dire qualcosa, passa per una fortissima connessione con la profondità del proprio talento e delle proprie inclinazioni e un’elaborazione anche lenta della propria natura e del proprio posto all’interno del mondo.