In una realtà digitale, virtuale e interconnessa in cui tutti hanno la loro chance e in cui il pubblico sembra reagire in maniera volatile alla novità seguendo le tendenze e issando a loro idoli musicisti che sanno di crepuscolo non appena mettono un dito sul piedistallo, esistono delle eccezioni. FKA Twigs è una di quelle. Esistono artisti che riescono a farsi attendere per anni mantenendo lo status di idoli indiscussi. Esistono anche artisti che, malgrado abbiano pubblicato un solo album, vengono riconosciuti come delle garanzie di qualità musicale.
Quanti artisti vi vengono in mente nella storia recente di questo calibro? A me solo due: Frank Ocean e FKA Twigs. L’uscita del secondo album di Tahliah Debrett Barnett, in arte FKA Twigs, è stata scandita dall’attesa spasmodica di tutti quei fan che hanno avuto la pazienza di aspettare quattro anni, i quattro anni che hanno separato LP1 dal nuovo Magdalene.
Attesa dal pubblico e contesa dai migliori producer della scena musicale, FKA Twigs è riuscita a rappresentare con la sua figura artistica (e non solo musicale) un modo genuino di essere donna, orgogliosa e forte, ma soprattutto un modo genuino di essere un essere umano. Non una star, non un’artista, FKA Twigs è una donna con le sue fragilità, i suoi punti di forza, i suoi tunnel oscuri, le sue vie d’uscita comuni a tutti quanti noi, indipendentemente da ogni status e orientamento.
In un mondo di machismi, di ambizioni senza freni, di perfezionismi, di alpha, l’atto davvero rivoluzionario consiste nel mettere in mostra la straordinaria normalità del proprio essere. Manifestare se stessi come equilibristi capaci di ballare sull’orlo di un tracollo sempre in agguato.
FKA Twigs ha fatto di questo esser trapezista uno stile non solo musicale ma anche artistico. L’ultimo album, Magdalene, è una sorta di inno all’arte come antidoto al dolore in cui le note della meravigliosa voce di FKA Twigs facevano da contraltare a un album che lasciava qualche dubbio, un disco vittima di alti e bassi.
Ero rimasto leggermente deluso dall’album nei miei primi ascolti. Ne apprezzavo l’idea e adoravo (e continuo ad adorare) la figura di FKA che rappresenta davvero, secondo me, lo spirito ideale di questo tempo (purtroppo ancora lontano dal reale). Ma l’album mi sembrava piatto e poco convincente.
Con questo gomitolo di pensieri ben stretto nella testa, mi sono avvicinato al live della cantante inglese al Fabrique di Milano.
La prima conferma che ho avuto è arrivata prima che apparisse sul palco la cantante. Il pubblico rappresentava, nella singolarità degli spettatori, proprio quel desiderio di manifestare le proprie imperfezioni, di mostrarsi per ciò che si è senza schermi. Un modo di essere che FKA Twigs porta da sempre sulle sue tracce. Era bello essere lì perché mi sembrava che il motivo per cui avevo affrontato la nebbia che circondava il confine lombardo-piemontese fosse quello giusto. In fila, per entrare al concerto, app di Dice già aperta per fiondarmi subito dentro, sentivo di trovarmi al posto giusto. L’attesa di FKA Twigs portava una vibrazione mistica, di chi sapeva che stava per vedere esibirsi qualcuno di importante, quasi fosse un momento storico per cui sapevi di poter dire, di lì a qualche mese, “io c’ero”.
Se c’era qualcosa di messianico e spirituale nell’attesa, l’apparizione di FKA Twigs sul palco ha reso l’atmosfera carica di una sacralità profana fatta di canti a cappella e di incredibili costumi.
Il live del Fabrique è stato scandito dalla lotta dei contrari. Tutto lo spettacolo (la parola si addice al live in questione molto più del solito) ha fatto del palco un’arena dove si sfidavano gli opposti sin dall’inizio.
Il live si è aperto con l’assenza di scenografia, con la sola FKA Twigs sul palco, musica quasi assente, solo lei e la sua voce. Una semplicità abbacinante che lottava con il meraviglioso costume della cantante. Una moschettiera-corsara provocante, in bianco, con un cappello mastodontico fatto di piume, pronta per presentarsi alla corte di un Richelieu from the hood.
Basta poco però e il palco si popola del corpo di ballo di FKA. Quattro ballerini vestiti di un rosso potente che si oppone al candido vestito della protagonista. I ballerini roteano attorno alla cantante e si muovono a cavallo tra il palco e il retro dello stesso, dietro il pesante sipario su cui si staglia la figura danzante di FKA Twigs e su cui si infrangono i bei giochi di luce.
FKA Twigs canta, meravigliosamente, e balla senza stancarsi mai assieme ai suoi complici artistici. I ballerini sono seducenti, impressionanti nella loro sincronia, attraenti ma, allo stesso tempo, inquietanti (nuovo aspetto, nuova lotta). Ben presto l’inquietudine prende il sopravvento e, con una stupenda coreografia fatta di mille maschere sul volto e sulle mani, i ballerini si rivelano per quello che sono: accidenti esterni che ci impediscono di essere felici. Le maschere sono gli altri, coloro che giudicano, sono quei cento occhi che la fissano ogni volta che esce di casa, come canta FKA in Thousand Eyes. Una performance da teatro greco che ha viaggiato nei secoli per riapparire nel 2019 davanti a noi. La performance è quasi catartica e si conclude con la scena pittorica rinascimentale di FKA innalzata sulle teste di tutti gli altri come un angelo sopravvissuto all’apocalisse.
La bellezza intrigante del male, che vuole infiltrarsi nella nostra vita, da una parte e la resistenza conquistata con la voce ma, soprattutto, con il ballo dall’altra. Lo sa bene FKA capace di resistere a malattie, a drammi amorosi. Se la voce esprime dolore e individua nell’arte un palliativo, il corpo è vittima del ritmo, regredito a pulsioni naturali, quasi tribali.
Il numero di cambio-costumi, da moschettiera sfarzosa a ragazza del ghetto, e di performance (danza, pole, dance, Raqs al sayf, la danza araba con la spada il cui nome ho dovuto googlare) contrastano in maniera meravigliosa con lo struggimento della cantante che trova un canale perfetto nella sua voce.
Ma un momento, in particolare, mi ha fatto definitivamente comprendere che Magdalene non dovrebbe essere separato dal suo live, che l’album e il suo concept non debbano essere in nessun modo alterità rispetto allo show, allo spettacolo che rende bello quel dolore, lo manifesta, mostra come FKA Twigs riesca a essere a suo agio circondata dal male e di come l’arte possa davvero essere la soluzione. Il momento di cui scrivo ci riporta all’outro di Sad Day, uno dei brani migliori dell’album, in cui FKA gioca, con maestria da spadaccina, con una lama che utilizza per sconfiggere i suoi demoni. Dopo vari affondi, la spada viene usata per colpire il sipario, facendolo cadere, e per abbattere la barriera che separava le due parti del palco, mostrando una struttura metallica fatta di tubi e pali sulla cui sommità i musicisti vengono svelati tra luci e nebbia. Quei tubi diventeranno ben presto il set delle coreografie dei ballerini e della esibizione di pole dance della cantante britannica.
Sad Day arriva come una cometa nel cielo e crea un meraviglioso contatto tra il pubblico, ormai rapito, e la cantante. Non ci sono interruzioni tra i brani, tutto scorre velocissimo. Noi rimaniamo sconvolti e colpiti dalla meraviglia che si manifesta sul palco. Solo dopo Two Weeks, FKA Twigs si ferma per la prima volta, per annunciare la fine e ringraziare il pubblico: “I love you”. L’unica pausa prima di cantare Cellophane da sola davanti a tutto il pubblico estasiato che zittiva i pochi che parlavano durante la performance rovinando un ricamo magico che ormai era su tutti noi.
Un live meraviglioso e necessario quello del Fabrique. Importante per comprendere al meglio la filosofia di FKA Twigs e soprattutto per assorbire l’energia di una musicista originale e che sta segnando da un punto di vista artistico i nostri anni con la sua voce e il suo stile.
Tutte le foto sono di Alise Blandini