Fino all’osso: il coraggio di accettarsi oltre il canone di bellezza

“È nelle piccole cose che lo notiamo. I primi passi di un bambino impressionanti come un terremoto, la prima volta che andiamo in bicicletta con fatica lungo il marciapiede, la prima sculacciata quando il cuore parte per un viaggio tutto suo, quando vieni chiamato piagnucolone o povero o grasso o pazzo e ti trasformi in un alieno e bevi il loro acido senza darlo a vedere. Poi quando affronti la morte delle bombe e dei proiettili non lo fai con uno striscione ma con solo un cappello a proteggere il cuore, non hai accarezzato la debolezza che ti portavi dentro anche se era lì, il tuo coraggio era un pezzetto di carbone che continuavi ad inghiottire”.

Coraggio. Queste sono le parole che la poetessa Anne Sexton scrive pensando alla sua concezione di coraggio. Queste sono le parole di una donna che nella malattia ha trovato l’ispirazione, ha trovato la forza e ha ridefinito i limiti della poesia contemporanea negli anni ’60, facendo entrare anche le donne nel suo magnifico universo.

Il primo film della sceneggiatrice e regista Marti Noxon ci racconta una storia triste e contemporanea che colpisce ogni anno milioni di adolescenti e non, affetti da gravi disturbi alimentari e incapaci di farsi aiutare. Il racconto che ci porta sulla scena la Noxon è intriso di tristezza, di genitori impotenti o inesistenti, di situazioni familiari particolari, di caratteri ostili e spigolosi ma tutto questo riesce ad esprimere una forza nostalgica e malinconica, dolce e piena di speranza. La speranza palpabile nei grandi occhi di Ellen, la speranza di tornare a volteggiare in scena di Luke, la speranza nella gravidanza di Penny.

Il film analizza il problema dal punto di vista di una cosiddetta borderline, di una giovane artista che fin da adolescente soffre di una grave forma di anoressia che non le consente di nutrirsi adeguatamente. Uno spirito libero che dentro di sé ha una consistente voglia repressa di affetto, di attenzioni, quelle che non riesce a ricevere dai suoi genitori naturali. Ellen, dopo vari ricoveri si stabilisce nel centro di recupero di un dottore sui generis che adotta terapie non convenzionali ai fini della guarigione di giovani ragazzi di varia età o sesso. Gran parte del film si svolge all’interno di questa grande casa che ospita i giovani in cura dal dottor Beckham, all’interno della dimora-ricovero si scatenano diverse emozioni e sensazioni per Ellen, alcune provenienti dal passato che tornano a scombussolarla e altre sconosciute, che come terra inesplorata si aprono davanti ai suoi occhi. Affrontare tutto questo non è mai facile per la personalità che contraddistingue questo personaggio, che come dice il dottore stesso deve toccare il fondo, arrivare fino alla fine nel tunnel, tastarne il terreno sdruccioloso e cadente prima di trovare le forze per andare avanti.

I temi in cui si immerge energicamente la regista sono delicati ora più che mai. In un mondo che si misura con la taglia dei pantaloni indossati, con le pubblicità, i social e la televisione che ci impartisce un canone di bellezza preimpostato e standardizzato secondo i parametri del capitalismo, diventa sempre più complicato riuscire ad accettare il proprio corpo comunque esso sia. I numeri aumentano ogni anno e l’età media si abbassa sempre di più arrivando a toccare bambini di otto anni, la cui ultima preoccupazione dovrebbe essere la cifra con la quale ci misura la bilancia.

All’interno dell’universo femminile, questo fenomeno, è sempre stato più sentito perché le donne si trovano più spesso avvolte da una concezione comune che stabilisce chi è bello, chi ha una corporatura giusta e chi invece non l’ha. Tracciando drasticamente una linea di confine esattamente dove non dovrebbe esserci alcun ostacolo o intermezzo. È questo che rende sempre più difficile l’arduo compito di accettare se stesso, con le proprie imperfezioni, con i propri fianchi larghi, la propria cellulite o i propri nasi importanti. Le immagini di Fino all’osso ci mostrano una situazione mentale tanto quanto carnale, fisica. Ci mostrano i disagi che si inerpicano nelle menti di giovani anoressici e le costrizioni a cui devono assoggettare il loro corpo per raggiungere uno stato di serenità precaria con loro stessi.

Probabilmente non lo considererei un film di sensibilizzazione, quanto un film di esplicazione. Secondo una mentalità che non segue il ‘ti diciamo che non lo devi fare’ ma ‘ ti facciamo vedere cosa significa’. Mostrandoci come sia labile il confine tra il prendere coscienza e andare avanti o arrendersi e cadere irreparabilmente e per l’ultima volta all’indietro, la regista ci fa camminare, specie nelle ultime scene del film, su di una corda tesa. Facendoci sporgere ora a destra e ora a sinistra ci conduce nel confusionario cervello di Ellen.

Ed è qui che ci riagganciamo alla poesia della Sexton, è qui che vediamo il coraggio, il coraggio di ammettere, il coraggio di guardarsi allo specchio, il coraggio di volersi bene, almeno una volta. Il coraggio di non continuare ad inghiottire pezzi di carbone.

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