Tra i registi più influenti della Nuova Hollywood, Terrence Malick resta tutt’oggi il soggetto più misterioso. Noto per la filmografia scarna (anche se negli ultimi anni è diventato più prolifico) Malick è un autore che non si è mai esposto particolarmente alle interviste, preferendo lasciare che fossero i suoi film a esporre i suoi dubbi e la sua concezione del mondo. Figlio di un impiegato petrolifero, Malick nacque il 30 novembre 1947 in Texas, probabilmente a Waco, dove si distinse come giocatore di football prima di intraprendere con successo la carriera universitaria prima a Harvard e più tardi a Oxford. Questa preparazione accademica lo avvicina al mondo della filosofia, in particolare quella di Kierkegaard e Heidegger, il cui pensiero, oltre a ispirare le sue tesi di laurea, influirà profondamente sulla successiva carriera registica.
Dopo aver svolto la professione di insegnante di filosofia, Malick ottiene una laurea in Belle Arti all’American Film Institute Conservatory che gli spalanca le porte delle major, permettendogli di realizzare il cortometraggio Lanton Mills (1969), storia di due cowboy intenzionati a rapinare una banca interpretati da Harry Dean Stanton e Warren Oates. L’esordio al lungometraggio giunge quattro anni dopo quando dirige La rabbia giovane (1973), liberamente ispirato alla cronaca nera dell’omicida Charlie Starkweather e passato in sordina a causa di un’uscita contemporane a quella di capolavori di cineasti più titolati. Auto-prodotto dallo stesso Malick e distribuito dalla Warner Bros., La rabbia giovane vide i poco più che esordienti Martin Sheen (Apocalypse Now) e Sissy Spacek (Carrie) nei panni di una coppia degli anni Cinquanta che dopo essersi macchiata di omicidio si lancia in una fuga dalla realtà provinciale verso la natura selvaggia degli States, alla ricerca di un impossibile ritorno al candore della giovinezza.
La rabbia giovane colpì molto la Paramount per come descriveva l’incapacità delle nuove generazioni di discernere il bene dal male, e gli affida la regia di un film che mostrerà definitivamente il talento smisurato di Malick: I giorni del cielo (1978) con Richard Gere (American Gigolò) e Sam Shepard (Black Hawk Down). Racconto di un ménage à trois ambientato in un suggestivo e arido Texas di inizio Novecento, I giorni del cielo diviene il primo esempio concreto dello stile narrativo sperimentale e anticonvenzionale di Malick, contrassegnato dal marcato impiego della voce fuoricampo come esternazione dell’ambiguità dei sentimenti e da un’estetica elegantissima in cui le immagini divengono strumento di comunicazione concettuale. L’opera seconda del regista ha maggior fortuna critica e commerciale rispetto a La rabbia giovane, arrivando a competere agli Oscar in varie categorie tra cui Miglior Colonna Sonora per le musiche di un Ennio Morricone particolarmente ispirato.
Se tra i primi due film intercorrono appena cinque anni, all’uscita di I giorni del cielo dovrà passare un ventennio prima che Malick torni a girare un film. In questo lungo periodo, il regista scompare a Parigi dove, tra le altre cose, inizierà a delineare i progetti di quelli che diverranno The New World e The Tree of Life. Il ritorno di Malick al cinema genera scalpore: è una trasposizione imponente del romanzo di James Jones sulla battaglia del Guadalcanal durante la Seconda Guerra Mondiale La sottile linea rossa (1998), dal cast stellare (Sean Penn, Nick Nolte, George Clooney e altri), e forse il capolavoro assoluto del regista, dove ogni cosa tocca il punto più alto raggiungibile in un film, da una superba colonna sonora di Hans Zimmer alle luci filtrate della fotografia di John Toll. Vincitore dell’Orso d’Oro a Berlino e candidato a svariati Oscar nell’anno del cugino Salvate il Soldato Ryan di Steven Spielberg, La sottile linea rossa esplora il confine tra razionalità e follia in un conflitto umano che in questo caso assume un carattere spiccatamente teoretico, di affronto blasfemo contro Dio e la sua Creazione. La voce fuori-campo di una manciata di soldati esprime la perdita dell’innocenza e il sentimento verso l’orrore bellico facendosi sostenere da immagini potentissime e vigorose, indimenticabili.
Affidato a Steven Soderbergh il progetto di una sontuosa biografia su Che Guevara con Benicio Del Toro protagonista, Malick si concetra sui suoi due progetti di vecchia data. The New World (2005) venne purtroppo ignorato da critica e pubblico per via del confronto (fuori luogo) con la versione Disney della storia di Pocahontas, prima donna della tribù Powhatan (Q’Orianka Kilcher) a impegnarsi sentimentalmente con un inglese, l’esploratore John Smith (Colin Farrell). Il confronto culturale collettivo e il tema della stupro della natura di La sottile linea rossa viene traslato di trecento anni nel passato, assumendo però i connotati di una sentita storia d’amore interraziale inserita all’interno di una mastodontica ricostruzione storica resa possibile grazie a fondi della New Line Cinema.
Cinque anni dopo giunge The Tree of Life (2010), vincitore della Palma d’Oro a Cannes, affianca Brad Pitt e Jessica Chastain in un immenso dramma familiare concatenato alla cosmogonia della Terra per compiere un inno alla vita e alla bellezza sul palcoscenico dell’infinito. Osannato dalla critica, The Tree of Life sarà uno spartiacque importante nella carriera di Malick, aprendo la strada a una serie di nuovi, durissimi lavori, in apparenza minori se paragonati a un film tanto gigantesco, ma tuttavia magnifici.
Ben Affleck di To The Wonder (2012), Christian Bale di Knight of Cups (2014) e il duo composto da Ryan Gosling e Michael Fassbender in Song to Song (2017) sono uomini ombrosi dalla carica erotica dirompente, glamour nei loro abiti firmati, posti però davanti a invalicabili questioni irrisolte con gli affetti e le convenzioni sociali che ben si sposano con la visione dell’ultimo Malick. Questi tre film molto in comune hanno con The Tree of Life (in primo luogo il polemico rapporto dei protagonisti con il mondo, l’amore e l’arte, ormai giunto a un punto di non ritorno), così come con The Tree of Life ha molto in comune il primo documentario di Malick narrato da Brad Pitt e Cate Blanchett, Voyage of Time (2016), che affonda nell’ombra più ecologista del regista grazie a una narrazione asettica e a una mirabile attenzione per l’immagine coadiuvata da un lavoro massiccio di post-produzione e effetti digitali. Sono film di estetica pura impregnati di una sensualità e di una fragilità che tracimano letteralmente dallo schermo anche quando sembra che non abbiano nulla da dire o, peggio, che pecchi di ridondanza.
L’ultima opera di Malick è Hidden Life (2019), confronto impari tra il semplice equilibrio esistenziale di un uomo (August Diehl) e la follia ideologica del nazismo che sfocia nel percorso cristologico e nella remissione dei peccati tramite martirio. Un film avvolgente e doloroso, uno dei più convenzionali di Malick, di certo non nuovo per ciò che dice ma memorabile per il modus operandi sempre riconoscibile con cui il suo regista gira attorno a temi universali che scaldano il cuore in un tripudio di luce e oscurità.