Lucija è una giovane donna immobile a letto per volontà del destino perché un incidente l’ha paralizzata e può soltanto muovere le palpebre in cenno di assenso quando le altre persone si ricordano di parlare con lei. Dorian, invece, è l’uomo trans che l’ha amata fin da subito e che con lei ha costruito un rapporto disperato le cui fondamenta affondavano nella paura. L’uomo scopre solo per una coincidenza fortuita l’incidente dell’amata e non riuscirà più a vederla, se non dopo un azzardo nell’ospedale in cui è ricoverata, luogo da cui verrà cacciato. E infine, c’è la madre di Lucija, contraria alla loro relazione, ispessita da un passato violento e senza redenzione, una donna persa nel rimpianto. Sono questi personaggi il cardine uno e trino di “Figli, figlie”, romanzo dell’autrice croata Ivana Bodrožić pubblicato da Sellerio nella traduzione di Estera Miočić. Una narrazione equamente suddivisa tra i tre, a ciascuno un momento come voce narrante, a ciascuno il proprio trauma, esempio fulgido della vecchia e cara ereditarietà del dolore. Perché “Figli, figlie” è, di fatto, una narrazione del trauma generazionale che sconvolge la vita degli individui fino a renderli schiavi delle logiche patriarcali. La società – in questo caso la Croazia quasi contemporanea, fortemente segnata dalla guerra, quella di Indipendenza Croata dal ’91 al ’95 – impone i ruoli e gli individui devono obbedire, soprattutto le donne. E così se ne va la vita di Lucija, costretta nella sua nuova esistenza da «bambola di pezza» dopo decenni di paure generate dalla sua stessa famiglia: una madre contro, un padre morto suicida per il peso della guerra che ha visto con i suoi occhi alle porte di casa, un fratello estremista che trova la sua vocazione nel privare le persone dei diritti elementari. Nonostante la paralisi, Lucija è voce narrante impeccabile che rimugina sul passato, su Dorian, l’amore che c’è stato fra di loro, sulla madre adesso padrona del suo corpo che la cura come una «neonata vecchia».
Da noi i tempi bui si tramandavano da sempre e immancabilmente per linea femminile. Mia nonna li aveva ereditati da sua madre, erano avvolti in un fazzoletto e riposti sotto il materasso pieno di cimici nella carta di argilla con una sola stanza. […] Quando se n’è andata, i tempi bui si sono trasferiti nella camera da letto della madre di mia madre. Più precisamente nell’armadio, tra i vestiti da lutto.
Bodrožić ricorre spesso ai flashback costruendo una linea temporale tortuosa, a volte sfuggente, ma sempre significativa che ricostruisce i ricordi familiari di una donna e gli effetti che la società patriarcale ha sulla sua psiche: i divieti, la vergogna di essere difforme, la paura che la sua relazione con Dorian venga scoperta, l’urgenza di proteggerlo dalla furia del fratello e di tutti quelli come lui che popolano la sua contemporaneità. L’incidente interrompe la vita, ma non l’esistenza di Lucija, anche se essa stessa si dirà: «Tutto il rumore che produco dentro di me svanisce nel silenzio», un silenzio in cui la madre si riappropria del suo ruolo approfittando della figlia inerme.
Il primo tema importante del romanzo è la perdita dell’identità, fil rouge che si sviluppa a partire proprio da Lucija, corpo inerte alla mercé di operatori sanitari e familiari distratti e superficiali, e della condanna a ricordare tutto, a rielaborarlo a lungo mentre fissa l’unico panorama per lei disponibile, il soffitto, senza poter comunicare col mondo. L’identità della donna si riduce a una spazzola per capelli nel cassetto del comodino, un paio di zoccoli floreali rubati dall’infermiera che la segue – in fondo dove potrebbero mai andare i suoi piedi -, e un insormontabile «risentimento». La sua, però, è anche una paralisi metaforica. L’autrice compone un’ottima resa narrativa del monologo interiore di Lucija, ma la sua paralisi non è tanto lontana dal destino che è toccato a ogni donna privata della sua autodeterminazione. E infatti della stessa autodeterminazione difetta la madre, la prima antagonista, che avrà l’occasione di spiegare con il suo monologo, e una consapevolezza altalenante, l’origine del trauma. Il primo figlio partorito a 19 anni nell’indifferenza generale, una vita governata dalla famiglia del marito, condannata alla maternità e al prendersi cura degli altri.
Avrei potuto viaggiare, vedere il mondo, studiare, se solo qualcuno mi avesse indirizzata, non ero stupida. […] Ora è tardi per tutto, e anche se non lo fosse, io non saprei più come, non ricordo più chi ero una volta, prima di tutti loro, non so cosa mi piace, non so in cosa sia brava, non so cosa mi renda felice, e dato che non lo so insisto su quello che sono diventata dopo.
Nei suoi ricordi, la madre di Lucija è una vittima che si trasforma in carnefice perché, come recita la quarta di copertina dell’edizione Sellerio citando la giornalista e scrittrice Tanja Tolić: «Questo romanzo racconta cosa vuol dire essere una donna in un mondo fatto su misura per gli uomini, ma creato da entrambi i generi». Una verità assoluta e avvilente: donne che mettono in atto le stesse pratiche oppressive di cui sono state vittime. Questa donna in frantumi, madre contro la sua volontà, genera un figlio «violento e stupido» e una figlia intrappolata da vergogna e sensi di colpa, che solo da malata diventa degna di cura. L’altro tema portante è, quindi, il ruolo della struttura patriarcale nella sofferenza degli individui, soprattutto nella famiglia, radice primordiale di un dolore che si diffonde da madre in figlia, da figlia in nipote, fino all’esaurirsi della loro discendenza.
Entrambi i temi chiave del romanzo stravolgono l’esistenza dell’altro protagonista, Dorian, nato in un corpo che non sente proprio, la cui colpa, secondo la società che abita, è quella di voler rimanere fedele a sé stesso. Dorian riesce a conquistare una porzione di autonomia, ma il prezzo della sua volontà è alto e si ciba del disprezzo altrui.
Ivana Bodrožić mette a fuoco con abilità i messaggi del romanzo con una scrittura sicura soprattutto nelle due protagoniste, di cui sviluppa una narrazione ragionata del destino di infelici, anzi, di “invisibili” per citare un altro autore Sellerio di pregio, Pajtim Statovci, che confina con l’autrice per temi e tragicità. Il guizzo distintivo del romanzo è, invece, nella ferocia che Lucija usa per raccontare l’ottusa mascolinità tossica e fascista, la cui violenza genera molti dei mali moderni. Ed è liberatorio trovarla nella narrativa contemporanea europea, cosa che rende il romanzo un’opera militante, prendendo in prestito l’espressione utilizzata da Lella Costa nella presentazione a Festivaletteratura di Mantova. La magia di “Figli, figlie”, infine, esplode nel finale, quando si fa granitica e dolente in chi legge la consapevolezza che l’oppressione e il trauma nascono per lo più nel baluardo fondante del patriarcato: la “famiglia tradizionale”, qualsiasi cosa questa abusata espressione voglia dire.