Tutte le foto sono di Yorgos Kostianis
Prendi quattro surfisti californiani, vestili come dei galeotti di un carcere di massima sicurezza, fagli fumare 25 grammi di erba scadente e riempili di birre in lattina di pessima qualità. Ecco, se a questo punto gli dai in mano anche degli strumenti musicali elettrificati possono succedere due cose: o ricevi una lesione alle orecchie di quarto grado e sarai costretto ad ascoltare per sempre musica classica del ‘600, oppure ti trovi di fonte a una bomba mano pronta a farti saltare per aria a ritmo di musica. Questa seconda opzione è quella che hanno scelto gli organizzatori di Acieloaperto chiamando i Fidlar a suonare alla Rocca Malatestiana di Cesena. Una scelta coraggiosissima, in un’estate come questa in cui praticamente ogni festival ha una lineup sovrapponibile alle altre. I ragazzi di Acieloaperto, invece, hanno fatto una scelta fuori dagli schemi, quasi folle, sicuramente punk. Proprio come piace a noi.
Se le automobili non si azionano quando non hanno abbastanza benzina da bruciare, così i Fidlar e i loro fan non si attivano finché i loro corpi non sono pieni di alcol. Ed è proprio con l’ultimo singolo Alcohol che i Fidlar iniziano il concerto. Zac Carper dice al pubblico di abbassarsi, di toccare il prato della Rocca Malatestiana con i propri jeans rotti. Forse vorrà fare qualcosa di diverso da quello che ci si possa aspettare? Un concerto seduti, magari per una svolta più cantautorale della band? Può essere, in fondo non si sa ancora nulla del disco in uscita. A dire il vero non si sa nemmeno se uscirà qualcosa. Ma appena inizia la strofa di Alcohol, potente e ignorante come un montante di Mike Tyson, il pubblico impazzito inizia a saltare e a pogare. Siamo ancora a metà del primo brano e già volano magliette e scarpe.
Improvvisamente gli spettatori sembrano di più e la collinetta della Rocca che fino pochi minuti prima dell’inizio del live appariva come una landa interminabile e desolata ora è stra colma di gente sudata e senza maglietta. Eh sì, purtroppo non c’era il pubblico delle grandi occasioni, vuoi perché il martedì di solito non ci si è ancora ripresi dal week end, vuoi perché il rischio pioggia può fermare anche i fan più audaci e distanti da Cesena, vuoi perché i Fidlar sono carichi, fighi e tutto quello che vuoi, ma non ti fai mezza Italia per ascoltarli. Ma poco importa, perché se gli incassi di un concerto si misurassero in energia, di certo quello di martedì sera sarebbe stato un sold out.
È il momento dei grandi classici, Cheap Beer, No Waves e Leave Me Alone. Storie di feste, droghe, paranoie, sbronze moleste, storie dell’underground californiano, storie se vogliamo anche un po’ romagnole. Come la strofa di West Coast
Told mom and dad that I’m bailing
Now we’re driving up the coast
in cui credo che ogni teenager della Adriatic Coast (così ultimamente la chiamano scimmiottando la la distinzione tra West Coast e East Coast americane) ci si immedesima completamente. In fondo, già nel 1985 Pier Vittorio Tondelli in Rimini raccontava di una Romagna fatta di eccessi e di intrighi, molto simile alla California. Ma quale California? Credo ci siano tre immaginari principali della California: il primo, che ormai purtroppo è tra i più diffusi, è quello della Silicon Valley, degli Steve Jobs in dolcevita nero, degli occhialetti da nerd, dei programmatori creativi che invidiamo perché hanno orari di lavoro flessibili e hanno un’amaca in ufficio, ma guarda caso alla fine stanno in ufficio 25 ore al giorno. Il secondo immaginario, forse più legato alle generazioni come la mia che hanno avuto la malaugurata sorte di trascorrere l’adolescenza incollati alla tv guardando OC, è quello della California come terra dei figli di papà, con piscine olimpioniche in giardino e gli yacht di 35 metri arenati sul pontile. E poi c’è il terzo immaginario, il mio preferito, quello del mito di San Francisco, quello che parte dal movimento hippie e arriva ai surfisti, skaters, musicisti di ogni tipo, tossicodipendenti, gente annoiata come Napoleon Dynamite, o gente schizzata come Charles Manson. Insomma un misto tra un paese dei balocchi, una comunità di recupero per artisti più o meno falliti e un set cinematografico. Che c’entrano i Fidlar con tutto questo? Beh, loro sono tra i principali esponenti di questa California pazza e libertina, di punk alcolizzati, tossici, festaioli, cazzoni, annoiati. E non potevano suonare in un posto migliore di Cesena perché, come abbiamo detto, la Romagna è una piccola California e lo dimostra, anche la quantità di braccia tatuate in stile american traditional che si possono vedere tra il pubblico. Se non ci credete, andate alla prossima serata di Acieloaperto e vi accorgerete che se non avete nemmeno un tatuaggio bene in vista vi sentirete un pesce fuor d’acqua, come una persona in giacca e cravatta ad un festival heavy metal (scena che tra l’altro mi è capitato di vedere nel 2005).
Prima del gran finale, pezzi come Why Generation, Stoked and Broke e Max Can’t Surf smorzano i toni e lo skate punk lascia il posto a sonorità più surf e garage. Gli urli di Zac sono sostituiti da coretti in falsetto che assumono subito toni scanzonati e ironici, ma che permettono al pubblico di riprendere fiato e recuperare le scarpe perse. I Fidlar chiudono con una forsennata versione di Wake Bake Skate che urla una delle strofe più iconiche e più rappresentative:
“And I’m gonna try and make it
For another year
Just to hang out with my best friends
And drink a lot of beer”
Il concerto si chiude così, tutti abbracciati in un mare di sudore e di birra, con gli occhi pieni di gratitudine verso gli organizzatori perché, come dice lo stesso acronimo di Fidlar (Fuck it dog, life is a risk), la vita è un rischio e i ragazzi di Acieloaperto il rischio se lo sono presi eccome, e hanno fatto benissimo!