Aver seguito i Ministri sin dall’esordio significa aver urlato con loro sotto il palco la rabbia adolescenziale, aver protestato perché “il futuro è una trappola” e dato idealmente fuoco a una macchina per superare i Tempi bui. Significa essersi riflessi non in sei dischi ma in frammenti di vita vissuta. In dodici anni di capitoli di una storia che parla di tre ragazzi, Davide Autelitano detto Divi, Federico Dragogna e Michele Esposito, e li racconta crescere nei testi delle loro canzoni e maturare nei suoni dei loro strumenti. Si sono mostrati al pubblico, anche ai più scettici. Fino ad arrivare a un punto dove a quegli stessi fan hanno detto Fidatevi.
Più di un invito è il titolo dell’album pubblicato il 9 marzo con Woodworm. Un lavoro in cui, alle distorsioni e agli inni generazionali subentra la libertà, non di ragazzi disillusi ma di uomini consapevoli. Nella vita e soprattutto nella musica. Liberandosi, in 12 tracce, della costrizione di piacere, di dover soddisfare a ogni costo, prendendo a calci l’ansia di inseguire le mode. Come uno squalo – quell’ossimorica immagine aggressiva che sbuca in copertina sotto il titolo a caratteri cubitali – che si aggira per i mari seguendo solo il suo istinto.
Si parte gridando “Lasciami qui, dove so accontentarmi tra le vite degli altri”, e si finisce a specchiarsi nelle fragilità degli altri e chiedere, “Dimmi cos’hai capito della felicità. Dimmi che cosa ancora ti fa urlare a piena gola”. In un percorso di crescita, tra rapporti difficili e nostalgia che chiude con un lancio al futuro. Magari proprio al prossimo album.
Ciò che colpisce, in questo disco, è la sincerità. La consapevolezza di non dover per forza rivolgersi a una nicchia. Come ci si sente a staccarsi da questa logica in un momento in cui l’indie è totalizzante e tutti cercano di essere underground, anche se collezionano sold out?
Federico Dragogna: Sin dall’inizio abbiamo cercato semplicemente di fare belle canzoni e nascevamo nel piccolo giardinetto che, al tempo, era comunque alternativo. Brani che nella sostanza erano rock fruibili da tutti come Le mie notti sono migliori dei nostri giorni ma che, venendo da quel giardinetto, necessariamente venivano presi come qualcosa di diverso. Quasi fraintesi. È ovvio che fa comodo al mercato che ci siano identità e canali differenti ma tutto sommato è una complicazione. Ci piace fare rock, suonare, sperimentare senza rendere la nostra musica troppo ruvida all’ascolto, ed è un paradosso che veniamo percepiti così perché tutti gli altri si sono ripuliti. E leggiamo del nostro disco che ha ancora suoni molto lo-fi o confusi. Vai a dirlo a Mauro Pagani o a Taketo Gohara: il problema è che il resto della scena si è in gran parte computerizzata o affidata a cose che in parte non sono vere.
Michele Esposito: È colpa della digitalizzazione, tutto sta diventando “etereo”, sta nell’aria, nei codici. Noi, invece, abbiamo registrato con strumenti, con cose vere fatte di legno, di ferro, di corde.
Federico: Abbiamo cercato sempre di arrivare a tutti ma, nel frattempo, nessuno ascolta la chitarra elettrica quindi sembriamo più strani. È il gioco del categorizzare che fa il mercato. A 25 anni ci stai più dietro, credi di essere speciale. Poi inizi a fregartene. E cominci ad avere rispetto per gli artisti che rimangono, che continuano a raccontarsi con serietà e professionalità. Anche se sono estremi rispetto a te. E chi sparava strali e frecce contro la scena, ora fa altro. Sono etichette. Anche parlare di disco della maturità. Per noi rappresenta solo meno ansia e più libertà nel farlo.
Il primo singolo nonché title-track è Fidatevi. Avete detto più volte che non è uno slogan, che non volete demagogia perché ce n’è fin troppa. Ma chiedere di affidarsi senza sapere ne ha un po’ il sapore. È così?
Federico: Gli slogan non hanno contenuto e parlano a chi è già d’accordo, alle tifoserie. Fidatevi, invece, è un invito spiazzante, è di tutti e nessuno; accettarlo è una scelta. Dal basso della nostra piccola storia ed esperienza, ci sentiamo una band che può caricarsi uno slogan del genere. Poi è diventato contagioso.
Davide Autelitano (Divi): Direi che sarebbe buffo pensarlo come slogan. Anzi, è quasi un paradosso immaginarlo motto di regime. Non è un imperativo, è una mano sulla spalla. È dire con tranquillità: prego, avanti.
Usami, spettri, crateri: tre canzoni molto introspettive che mostrano il buio, il “mostro nero”. Quanto è stato difficile mettersi così a nudo?
Michele: Non è mai semplice farlo ma all’inizio è una cosa tra di noi, è parlare. Mi ricordo (ride, ndr) quando Fede mi ha fatto leggere il testo di Spettri. La sera stesso l’ho chiamato e gli ho chiesto “Fede tutto ok?”. Ma il cd non è cupo, ha anche momenti di vitalità, di risalita. Hai citato Usami, che dice “Sul fondo ritrovo sempre qualcosa di me”. È così.
Rimaniamo su Spettri che avete definito “forse la canzone più nera che abbiamo mai scritto”. Dite “Io voglio solo pagare una persona che mi tenga in ordine la vita, che mi faccia da servo e da padrone”. È la soluzione?
Federico: Magari un lifecoach. Ma pagare non è la soluzione, è la prova che non hai risolto nulla. È una strada cieca. Infatti, la canzone si chiude in se stessa, poi esplode.
Fate parte di una generazione, come cantate in Due desideri su tre, “troppo ricca per ripartire da zero e troppo povera per i sogni che è stata educata a rincorrere”, per cui la scelta di seguire un’idea significa avere coraggio. Voi ci avete creduto nella musica e continuate a farlo. È mancato qualcosa in 12 anni?
Federico: Mi ha dato tutto quello che aspettavo. Il coraggio, sai, è più vero quando non c’è troppa ricompensa. Quando non ti butti in acqua per salvare un bambino sperando di essere trattato da eroe. Quello è un coraggio sporco. Siamo sempre stati noi stessi, Quando tutti aspettavano il pezzo violento, abbiamo scritto Io sono fatto di neve girando il video all’Ex Moi di Torino (ex villaggio olimpico per anni occupato da centinaia di migranti, nda). Siamo andati lì bussando, abbiamo parlato con i rappresentanti delle varie etnie e costruito fiducia. E c’è chi ha comunque detto: “È una ballata”.
Divi: Problemi di coscienza non ne abbiamo mai avuti. Abbiamo scelto il genere attraverso la fase che vivevamo, senza il vincolo del successo e del denaro. Per vivere in serenità. Se domani uno dei tre vince al Superenalotto, quello sarebbe un problema.
Federico: Basta non giocarci.
C’è chi è cresciuto con voi e oggi si rivede in un disco maturo. E chi magari vi scopre oggi. Riuscite a dare voci alle diverse generazioni?
Federico: È complesso, non è che scriviamo canzoni come progetto di marketing. Come hai detto, lo facciamo continuando a raccontarci e a raccontare cosa sta succedendo. Poi davanti vediamo un sacco di ventenni, che quando abbiamo iniziato difficilmente ci ascoltavano, al massimo dalla camera del fratello maggiore. Ma credo ci sia qualcosa che trovano. Abbiamo 35 anni ma, come musicisti, facciamo una vita simile a quella di un universitario e nessuno ha figli. Poi i ragazzi di oggi, dopo 10 anni di Youtube e di social, magari a 22 anni ne hanno pieni i coglioni (ride, ndr). Non ho la loro età ma credo ci sia chi, diversamente dalla nostra generazione, non ha voglia di prolungare così tanto la sua adolescenza.
Divi: Ho il sospetto che le generazioni più giovani che ascoltano i Ministri siano più di sesso femminile. Come se ci fosse maggior attitudine a riflettere sui testi, a vivere i disagi avendo la musica come cerotto. Magari i giovani maschi cercano più l’estetica, con generi come hip hop o trap. Un altro tipo di mondo dove i contenuti non sono costruttivi come lo era il rock’n’roll con cui siamo cresciuti. Spero non li contagi nei valori, forse a un certo punto subentrerà un rifiuto o ascolteranno altro.
Michele: Magari a un certo punto smettono di ascoltare musica.
Emergono gli sguardi dei 35 anni, più interessati alla sostanza che alla forma. Non credete?
Divi: A 12 anni ascoltavamo artisti che avevano momenti di discussione e di confronto. Forse si affrontava il disagio esistenziale troppo presto ma poi lo abbiamo capito. Oggi la musica può essere deleteria.
Federico: Non direi deleteria, diciamo che è ben schierata. Siamo cresciuti con Marylin Manson e, anche se ne avevano paura i parroci, era profondo come contenuti e parlava dell’essere diverso.
Sempre in Due desideri su tre cantate che “L’Italia è un disco che non riesco a trovare. Forse i migliori hanno altro da fare”. Ricollegandoci anche al discorso di prima, c’è un ascolto più superficiale?
Federico: Ogni generazione lo dice dell’altra, non vorrei fare questo errore. Un tempo c’era maggior possibilità per le controculture di rimanere tali, oggi il mercato mainstream a volte ha talmente poco che va a cannibalizzarle.
Divi: E c’è chi fa un libro solo dopo un disco. Non dico che non si ha qualcosa da raccontare ma la musica è una cosa, la letteratura è un’altra. Ma diventi un marchio, vendi quello.
Dodici anni, sei dischi. Come riuscite a resistere ai tempi dettati non solo dal mercato, ma anche dal guadagno?
Divi: È una scelta, al momento né le vendite né i tour ti danno così tanto da poterti dilungare in gestazioni artistiche eccessive. Poi sta un po’ a te, a che tipo di ritorno vuoi avere sui palchi. Ma sempre con grande parsimonia perché sai che non puoi stare fermo a lungo in un mondo in cui va tutto velocissimo e rischi di essere dimenticato. Come band un periodo di stop tra il tour e la fase di scrittura lo prendiamo: ne abbiamo bisogno per smaltire l’adrenalina e reintegrarci nella quotidianità. I palchi ti danno una visione effimera di ciò che succede. Con il tempo riduci il gap tra le due fasi, affrontandole con più semplicità.
Federico: È un rischio reale, il punto è continuare ad avere la percezione di te come di qualcosa di sensato. E te ne accorgi mentre lavori a un disco o fai 10 giorni di interviste: devi avere qualcosa da dire altrimenti si vede il trucco. Lo vedi da solo e ti casca tutto addosso. Per ora va tutto bene, c’è un sacco di senso. Magari tra tre anni ci rifai questa domanda e se la risposta sarà diversa te lo diremo.
Divi: Un disco di fretta non è mai uscito. A costo di sputare sangue, difficilmente lo faremmo per necessità di pancia o perché manca la materia prima. Anche perché non è vero che i dischi bisogna farli. In un mondo così puoi fare uscire una canzone ogni tanto, il supporto del disco è relativo. E a suon di canzoni puoi fare un tour.
Federico: Non li chiede nessuno (i dischi, ndr).
Sul palco indossate sempre una divisa. A venti anni è un voler trasformarsi, essere qualcun altro. A trenta non rischia di chiudervi in qualcosa che non vi rappresenta?
Federico: Domanda giustissima, ma la verità è che non sapremmo come vestirci, sarebbe da impazzire. Ci vestiamo in maniera diversa, dovremmo chiamarci ogni volta prima dei live. Così non abbiamo problema.
Divi: No, in realtà ci amplifica.
Quelle divise che, seppur rinnovate, Federico, Divi e Michele indosseranno nel tour italiano che partirà ad aprile e su cui ancora non vogliono svelare molto. Di sicuro sul palco non potrà che prendere forma quell’idea forte che cantavano in Comunque, da rincorrere fino alla morte “e aver paura che cominci il giorno e che la luce ti cancelli il sogno”. Quel sogno che seguono proprio da 12 anni perché, se per Divi, “il contraltare della fiducia è il tradimento”, con i Ministri simili rischi non si corrono.
Le foto dell’esibizione alla Feltrinelli sono di Cristina Palazzo