Festa mobile senza pensieri | Pop X al Lanificio 25 di Napoli

Amò ma tu ci credi? Gli abbiamo parlato!” esclama, eccitata, una ragazzina che incontro, sotto il braccio del suo ragazzo, appena entro nel cortile del Lanificio 25, lo spazio ricavato nel bellissimo complesso architettonico della trecentesca Chiesa di San Giovanni a Carbonara nel cuore della Napoli antica.

Ha appena parlato con Davide Panizza, la mente, insieme a Walter Biondani, di questo strampalato collettivo di musicisti, performer, videomaker in giro ormai dal 2003 e che ha trovato un successo nazionale dopo aver firmato per Bomba Dischi e aver pubblicato lo scorso 18 novembre Lesbjaniti, preceduto nel 2015 da un Best of di successi raccolti tra i tanti video pubblicati in rete, che ne hanno fatto nel tempo una specie di fenomeno sotterraneo del mondo parallelo del web. L’eccitazione non mi tocca, in fondo sono ragazzi che nulla hanno intorno a sé del tipico fascino degli artisti.

Non sono dissimili da quella trentina di ragazzi che devono essere arrivati prestissimo e si sono già accampati sotto il palco per presidiare la postazione migliore. Cantano a voce alta Secchio, come in una comune autogestita, ballano sulle note pop del dj, Toto by Cotugno di Mixed by Erre, che mescola Daft Punk e Festival di Sanremo (da cui pure durante la serata arriverà un vincitore a sorpresa) ridono e si divertono. A poco a poco la sala va riempiendosi di facce note e meno note per chi frequenta il locale, c’è il ragazzo con la cresta in pieno mood punk, quello con gli occhiali da sole in pieno buio, chi è arrivato per curiosità, chi invece per caso e mi domanda come si chiama il gruppo, chi sembra venir fuori da tutt’altro tipo di ambiente, altri ancora sembrano quasi dei gruppetti di scolaresche in gita e ti aspetti che all’improvviso parta il momento della merenda.

Lanificio, Napoli @Fiore S. Barbato

Poi i ragazzi salgono sul palco e tutto s’illumina, comincia una cosa che sembra una musica da festa di piazza venata di elettronica, ed è facile capire dove andremo a parare questa sera. Non è facile definire Pop X, di sicuro c’è una cifra che non può sfuggire fin dall’inizio del live ed è la capacità di essere grandi intrattenitori. Sullo schermo alle loro spalle scorrono frasi bianche su sfondo nero, poi sempre di più i video che fanno parte del loro variegato progetto musicale e audio visivo.

Parte Cattolica e inizia uno show fatto di oggetti strani, elmetti da minatori piene di luci, pose da punk rocker consumati. Il tutto immerso in una demenzialità attraverso cui i Pop X dimostrano certamente di possedere il pregio di non prendersi assolutamente sul serio, riuscendo a risultare talmente assurdi che è impossibile non farsi strappare un sorriso.

Secchio trasforma il Lanificio in una bolgia, tutti a cantarla a squarciagola, eh si la canto anch’io, l’uomo col taccuino con le civette colorate che si mescola con gusto alla folla; la versione live accelera i bpm e da una scanzonata techno a 8 bit si trasforma quasi in una cavalcata gabber. Perché in fondo è in questo che i Pop X a poco a poco trasformano il Lanificio, una sorta di megadiscoteca un po’ perduta nel tempo, capace di fare avanti e indietro tra gli anni ‘80 e i ‘90, giocando anche con l’elettropop di oggi come ne Il Regno, triste storia d’amore di due pornoattori sul set del loro ultimo film prima di morire. Madamadorè è in perfetto stile Gigi D’Agostino con una spruzzata di pop da classifica di almeno vent’anni fa mentre sullo schermo scorrono finti vessilli dell’Isis. Dens dà vita a una techno sgangherata che si mescola ai videogiochi degli anni ottanta come vecchi Atari e Commodore 64 sotto anfetamine, fino al ritornello che fa il verso agli orribili incisi pseudo spagnoli di tanta pop dance anche nostrana (ed è davvero impossibile non mettersi a ridere) con un falsetto che nemmeno l’uso spregiudicato del vocoder riesce a tenere in piedi. Sanatrix si riempie, invece, d’incursioni di fisarmoniche popolari e improbabili momenti rap con una carota mix messa lì a fare rima. Un carillon di suoni sgangherati e ripetitivi che buttano dentro il Battiato più pop e un successo dei Righeira trasformando tutto in un loop infinito che ha la capacità di far ballare le persone e infiammare la platea.

L’acustica è perfetta, come se il Lanificio fosse nato quasi per questa musica, ma dopo una manciata di canzoni bisogna interrompere un attimo il concerto per risistemare le pur pesanti transenne antipanico, a dare la cifra dell’entusiasmo della folla manco fossimo a Roskilde durante un concerto dei Pearl Jam. Folla da cui partono trenini spontanei un po’ a mo’ di veglione un po’ come conseguenza di moti convettivi umani che si dipartono dal centro caldo del sottopalco per raggiungere il bancone del bar. Una ragazza dalla risata cristallina, mi chiede di mettere a verbale che anche se si sta divertendo un mondo, complice il rhum, ascolta Bob Dylan, Nick Cave e Tom Waits (e a chi lo dici, cara). Complice invece il tirar fuori pezzi precedenti all’esordio con Bomba Dischi il concerto comincia a rallentare un po’, a farsi ripetitivo, con il vocoder che più che guardare agli esempi nobili dei Daft Punk sembra un omaggio infinito alla peggiore Cher. Dalle fessure alcoliche del divertimento emerge così lo spettro di un intrattenimento che si fa fiacco quando non è sorretto dai pezzi migliori prestando il fianco, insieme ai continui siparietti punk situazionisti sul palco, a una facile critica verso cose messe lì senza un minimo di senso.

Ci pensa fortunatamente Sparami, che fa tanto Eiffel 65, a riaccendere l’attenzione con il suo andamento allegro e scanzonato e il suo vocoder reverse che accompagna un pogo leggero che attraversa l’intera sala. È il trionfo del “pariamento” come da queste parti definiamo il divertimento leggero senza pensieri. E forse questa è la vera cifra del collettivo che, in questa chiave, diventa una specie di cavallo di troia, innocente e simpatico, capace di portare una cultura disco dentro spazi dedicati ad altri tipi di approcci musicali, anche nell’ambito della stessa musica elettronica e dance. Non ha alcun senso appesantire questi ragazzi dalla faccia simpatica e dall’indubbia capacità di far festa di chissà quali significati che magari vanno oltre le loro stesse intenzioni. (You Gotta) Fight For Your Right (To Party) cantavano i Beastie Boys nel 1986 e senza certamente volerli accostare al terzetto newyorchese (non scherziamo nemmeno), c’è un’attitudine di fondo che è la stessa: quella di salire su un palco, divertirsi e far divertire, giocandosi le proprie carte e le proprie possibilità, in questo caso limitate ovviamente, però di certo non affidate al caso ma inquadrate, evidentemente, dentro a una certa idea di estetica musicale e performativa che pesca un po’ dappertutto e rielabora dance e atteggiamento punk in una cornice di grande semplicità e talvolta anche di fin troppa ostentata naïveté

Froci della Nike (logo delle t-shirt in vendita all’ingresso) immerge in atmosfere tropicalizzanti il club di Porta Capuana, come una colonna sonora da b movie anni settanta, capace di richiamare anche il trash tipico di alcune scene dei primi film di Ozpetek.

Il finale, dopo una ventina di pezzi, è affidato al valzer elettrico di Tanja, al suo racconto, con un growl alla Natalino Otto da primi decenni del novecento, mentre sogna di Londra o Napoli Parigi o Istanbùl e partono gli accendini e le mani a ondeggiare al buio. E se Napoli era nei sogni di Tanja, per questi ragazzi che da Trento e mezza Italia sono arrivati qua, certamente il grido “Se non esci subito, non ce ne andiamo!” che si alza appena lasciano il palco, suona come un successo reale che li fa rientrare subito per chiedere di accendere tutte le luci in sala e concedere l’atteso bis di Secchio che trasformando il ricomincio a piangere in un più partenopeo chiagnere rende omaggio alla lingua della città.

Mentre ricomincia la musica del dj e la gente inizia ad allontanarsi, ripenso alla ragazza incrociata due ore prima, a una nuovissima generazione che ha il diritto probabilmente di scegliersi i propri miti e mi viene da sorridere. Poi passa un tizio che andando via esclama tra sé e sé “da spararsi nei coglioni proprio”, e sorrido ancora di più.

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