a cura di Marina Bisogno, Francesco Chianese, Martina Neglia
In queste ultime settimane siamo sovraesposti a una massiccia campagna mediatica che ha segnalato l’espansione di quello che sembra il più terribile dei virus. Si tratta di un fenomeno facile da riconoscere, perché è facile individuarne i sintomi. In realtà, da alcuni anni siamo esposti a un altro virus più difficile da identificare e difficilissimo da eradicare, che soprattutto in Italia continua a essere sottovalutato e accolto spesso con un certo snobismo, prevalentemente intellettuale, benché si tratti di un morbo dagli effetti molto più duraturi e persistenti, che infetta attraverso il contatto con poche pagine o perfino la semplice esposizione allo schermo televisivo: si tratta del virus della Ferrante fever.
Combinazione ha voluto che le due infezioni si siano sovrapposte nelle stesse intense settimane di febbraio, che hanno visto chiudere scuole e università mentre la Rai ha trasmesso in TV e in streaming la seconda stagione dello show co-prodotto con l’americana HBO, L’amica geniale, che prende il titolo dal secondo volume della popolare quadrilogia, Storia del nuovo cognome. Conclusasi la messa in onda della serie, consapevoli del fatto che per alleviare i sintomi in attesa della nuova stagione buona parte di persone stia ritornando – o ricorra per la prima volta – ai libri, abbiamo pensato di raccogliere alcune idee sulla letteratura di Ferrante e sullo straordinario fenomeno che costituisce. Perché sappiate che purtroppo la Ferrante Fever assale molto più velocemente di uno sternuto preso in piena faccia. Nel caso però siate stati infettati solo dal secondo dei virus, ci raccomandiamo: trovate un posto a due metri di distanza dalle persone, lavate accuratamente le mani con acqua calda, e aprite uno dei libri scritti da questa prodigiosa scrittrice.
Il senso di oppressione e la soluzione della fuga come temi ferrantiani
scritto da Marina Bisogno
C’è una scena ne La figlia oscura di Elena Ferrante in cui Leda, la voce narrante, si dirige in spiaggia e prova un senso di oppressione. È estate, un fine settimana, i bagnanti occupano ogni centimetro di rena, compresa la pineta che separa la strada dalla distesa di sabbia e dal bagnasciuga. Il caldo e il brusio innervosiscono Leda, che anziché restare al sole, preferisce ritornare a casa. La sua attenzione, in questa circostanza, e in altre, è per un gruppo di napoletani accampati sulla spiaggia. Sono in tanti, alquanto folkloristici: un concentrato di gesticolazioni e grida che fa di tutti i presenti una massa indistinta, tranne Nina, una giovane donna, e sua figlia Elena. Leda è incuriosita da Nina: esile, bella, fuori contesto, eppure completamente immersa nelle dinamiche di un clan familiare dalle mosse arroganti. In Nina c’è il bagliore inespresso di Lila, l’attrazione dell’autrice per un diamante grezzo offuscato dalla marmaglia che ha intorno. In Leda c’è lo sguardo interrogatorio di Lenù, il contenimento autoimposto, lo straripare di un’energia che all’occorrenza si fa istinto animalesco.
La fuga di Leda verso il mare è un escamotage per sopravvivere alla calura estiva, lo stesso che attueranno più volte Lila e Lenù per scappare da una Napoli infuocata. Nei momenti in cui non è affollata, la spiaggia rappresenta un eldorado: uno spazio aperto dove lasciar sciogliere i nodi dei pensieri contorti. Certi frequentatori della costa sono ciò che la maggior parte delle voci narranti dei romanzi di Ferrante rifugge: la personificazione dell’ammoina, una napoletanità sfacciata e invadente. Soffocanti sono anche le palazzine del rione Luzzatti, primo palcoscenico letterario della tetralogia de L’amica geniale. “C’era qualcosa di insostenibile nelle cose, nelle persone, nelle palazzine, nelle strade, che solo reinventando tutto come in un gioco diventa accettabile. L’essenziale, però, era saper giocare e io e lei, io e lei soltanto, sapevamo farlo” racconta Lenù. È l’infanzia delle eroine per eccellenza di Ferrante: le due bambine crescono in un’area degradata di Napoli, in una comunità che, per sopravvivere all’assenza di servizi, si autogestisce e si inventa le regole. Con l’immaginazione le due ragazzine sfidano i limiti di una realtà che sono convinte di sopraffare, di scansare. Questa illusione sarà il destino di Lila e l’abbaglio di Lenù: la prima resterà inchiodata ai posti e alle persone che dovrà dominare per non essere dominata, la seconda scapperà per poi tornare e scappare ancora, senza pace, richiamata dalle radici che non sapeva di possedere.
Ma Napoli non è solo il rione Luzzatti: è anche il Vomero, Chiaia, Posillipo. Da qui la città assume sfumature inattese che ne fanno un luogo ideale se si dispone di un portafoglio consistente. L’impossibilità di qualsiasi aspirazione di cambiamento per Lila fa il paio con il disincanto di Lenù, che – viaggia e riviaggia – conclude che scappare serve a ben poco se ti porti appresso i tuoi demoni. Hanno fortuna e trovano pace e realizzazione le due figlie di Leda che seguono il padre in Canada per aspirare a una carriera e a un’esistenza gratificante. Viene e va da Napoli, in preda all’insofferenza, Delia, la voce narrante de L’amore molesto, tornata in città dopo la morte, misteriosa, della madre. “Una città senza colori, strozzata dagli ingorghi. Nell’autobus c’era un forte odore di ammoniaca e svolazzava una lanuggine che era entrata dai finestrini aperti chissà quando” scrive Ferrante.
Delia è sopraffatta dal trambusto, ha un rifiuto per ciò che la ricollega alle origini, alle abitudini della madre, dei suoi parenti pittoreschi. La casa a Minturno, vicino al mare, è una alternativa, una boccata di ossigeno, ma anche il luogo dove sua madre ha perso la vita. Rimirare i flutti è per Delia un modo per distaccarsi e riconnettersi con una parte di sé stessa, il rigetto per l’invadenza di Napoli è invece categorico, persino fisico. Un rigetto che non conosce Giovanna, l’adolescente e voce narrante di La vita bugiarda degli adulti, ultimo romanzo di Ferrante. Giovanna è figlia di una famiglia borghese, vive a Rione Alto, frequenta il Vomero, Posillipo, la Napoli che Lenù preferisce da adulta ai posti scomodi dove è nata e cresciuta. Ad animare la relazione tra la ragazzina e la città è una curiosità sconfinata verso la Napoli del centro e della periferia: una zona che sua zia Vittoria conosce bene e che i suoi genitori non si preoccupano di mostrarle, quasi non ce ne fosse bisogno. Il mondo fatato di paesaggi mozzafiato e villette sul mare è un abbaglio: è l’altra faccia di quel che Giovanna ignora e che, di tanto in tanto, la risucchia, riservandole sorprese.
Napoli è una città simbolo nelle storie di Ferrante, che insiste su un concetto, a ben vedere: nascere e vivere a Napoli può essere strabiliante, a patto che accada nella parte attraente della metropoli, quella baciata dalla natura e dalle possibilità. Se ciò non dovesse capitare e si finisse inchiodati in chilometri e chilometri di bruttezza, la soluzione è darsela a gambe. Il mare è un ottimo escamotage (Lila e Lenù lo mettono in pratica già da bambine), ancor più lo è concedersi il diritto di un altrove, con la consapevolezza che il ritorno può generare vuoti emotivi e riappacificazioni che durano il tempo di un pensiero. È un’altalena emozionale che sta negli occhi e nel cuore di chi legge.
Elena Ferrante e la liberazione dalla brava bambina
scritto da Martina Neglia
Molti personaggi della letteratura recente e passata, dalla mitologia fino alla produzione contemporanea, possono essere letti attraverso una lente femminista. Il recente libro Liberati da una brava bambina, a cui questo breve intervente ruba il titolo, scritto da Maura Gancitano e Andrea Colamedici, è un esempio palese di come più personaggi, da Malefica della famosa fiaba, poi trasposizione Disney, a Daenerys, possono farsi simbolo e spettro di una condizione femminile millenaria segnata dall’oppressione di un genere sull’altro. Se per alcuni di questi può essere un azzardo, o quanto meno un ragionare solo sul testo scritto e televisivo senza nessun appiglio nelle dichiarazioni dell’autore, questo non avviene invece con Elena Ferrante e i suoi personaggi – tutte donne e tutte simboli.
Ferrante si è infatti espressa più volte, non lasciando dubbi in un’epoca in cui si brancola in discorsi fumosi che girano intorno alle parole, un po’ perché non ci si crede abbastanza e un po’ per la paura di una reazione di rifiuto da parte di chi legge e ascolta. Ferrante, dal canto suo, ha sempre usato le parole giuste quando chiamata a intervenire, tra lettere e interviste che possiamo oggi sfogliare in raccolte come La frantumaglia, diventata ormai quasi una somma della sua densa poetica sempre in espansione.
Patriarcato, per esempio, è una parola che comunemente fa più paura accettare, ma che lei usa più volte, in tempi in cui ancora non si sospettata questa nuova e forte ondata di femminismo. Lo fa parlando di Olga, protagonista del romanzo I giorni dell’abbandono, definendola “una donna colta d’oggi, influenzata dalla battaglia contro il patriarcato” [intervista a firma di Angiola Codacci-Pisanelli, apparsa per la prima volta con qualche taglio sull’Espresso del settembre 2005]; parlando di bambole e della loro simbologia – con chiaro riferimento a quello che sarebbe arrivato poi all’interno del corpus della sua produzione: “Le bambole ci sintetizzano come donne, in tutti i ruoli che il patriarcato ci ha assegnato” [risposta a una lettera di un’ascoltatrice di Fahreneit del dicembre 2006]; e poi ancora con una violenza che non lascia scampo e possibilità di risposta: “Il patriarcato, insomma – lo dico con rabbia – mi pare più vivo che mai. Tiene saldamente il pianeta nelle sue mani e tutte le volte che può si accanisce più di prima a fare delle donne carne da macello” [dall’intervista apparsa su Io Donna il 27 gennaio 2007].
Inoltre, nel recentissimo L’invenzione occasionale – raccolta di articoli pubblicati nel 2018 durante la sua collaborazione con il Guardian – abbiamo ancora una volta modo di immergerci nel pensiero direttamente elaborato da Ferrante, o chi sotto il suo nome ne sta costruendo uno. Se non consideriamo la creazione artistica – che è comunque atto politico –, la consapevolezza e la coscienza femminista di Elena Ferrante non si produce in attivismo o prese di posizione partitiche, quanto più in deliberate scelte ferme di un femminismo che affonda le sue basi e si alimenta nella sorellanza. Ferrante decide di sottrarsi al gioco al massacro, le cui pedine sono ancora in mano agli uomini e che vede le donne in perenne competizione tra loro per guadagnare l’approvazione e il compiacimento dell’uomo di turno. È una posizione di cui sente la fatica, ma non lo fa per cieca benevolenza, ma perché “siamo tutte segnate in profondità da un modo di stare al mondo che, persino quando rivendichiamo come nostro, è avvelenato alla radice da millenni di dominio maschile”.
La sua scelta di difesa e vissuto delle donne si esprime anche nella sua decisione di dare a esse “libertà creativa”. Venuta infatti a conoscenza che Maggie Gyllenhaal adatterà cinematograficamente il suo terzo romanzo, La figlia oscura, dice: “Ogni volta che una di noi prova a esprimersi, dobbiamo augurarci che la sua opera sia proprio sua e riesca bene. […] Non mi sento dunque di dire: devi restare dentro la gabbia che ho costruito io. Siamo già tutte da troppo tempo dentro la gabbia maschile […]”. Dalla parte delle stronze e delle artiste, e quindi anche dura e aspra nei confronti di una letteratura che vive ancora nello stereotipo di maschile e femminile, dove ovviamente il primo è quello che rivoluziona e il secondo è quello che al più intrattiene.
Alla luce delle sue stesse dichiarazioni, ogni lettura femminista delle sue opere non guadagna necessariamente più argomenti, ma ha forse qualche pilastro in più su cui poggiare e articolarsi. Sono dopotutto tutte donne le sue protagoniste, a volte doppie, spesso visceralmente legate alla madre e inquadrate in una gabbia sociale e familiare che provano continuamente a infrangere. È questo il caso anche di Giovanna, protagonista del suo ultimo romanzo pubblicato ancora una volta da Edizioni e/o con il titolo La vita bugiarda degli adulti. Giovanna ha tredici anni, è nata il 3 giugno 1979 e vive nel luogo ferrantiano per eccellenza, Napoli. Siamo però ben distanti dagli stradoni polverosi e violenti che hanno contraddistinto l’infanzia e l’adolescenza delle protagoniste de L’amica geniale; ci spostiamo infatti all’interno di una borghesia istruita e discretamente benestante che vive nel Rione Alto di San Giacomo dei Capri. Questa traslazione nello spazio diventa una sorta di tentativo di Ferrante di rigenerarsi e dare nuova linfa ai topoi della sua produzione, ma è fondamentale ancora una volta per comprendere quanto il meccanismo di violenza e oppressione sulle donne siano trasversali alle classi sociali e sempre annidati nelle parole quanto nei gesti.
La vita bugiarda degli adulti coglie Giovanna nel momento più delicato della vita, l’ingresso nell’adolescenza, cioè in quel periodo di cambiamento e definizione psicologica e fisica del sé. E questo periodo per la protagonista inizia con una frase che risuona come una sentenza e che vede il padre dipingerla come “brutta”. Da questo momento la protagonista inizia la sua fase di studio della propria identità, e quindi del proprio corpo, cercando ogni possibile caratterista che la leghi alla zia Vittoria, tanto odiata dal padre e a lei accomunata. L’evoluzione del suo personaggio è avvicinabile a un percorso di liberazione e riappropriazione della libertà di autodefinirsi – ben lontani però da un processo virtuoso fatto di eroi e nemici chiari. Sfuggire da una gabbia e da uno stereotipo socialmente imposto vuol dire anche creare crepe nell’immagine della “brava bambina” e la prima rivendicazione che Ferrante scrive per Giovanna è proprio la possibilità del male. La possibilità di concedersi la cattiveria e l’errore; l’antipatia e l’ostinazione contro tutto e contro tutti.
Giovanna si muove e cresce in un modo fatto di adulti carichi di aspettative su di lei ma poi poco in grado di mantenere quelle su sé stessi, ed è proprio l’atto del muoversi che è una delle altre scintille della sua crescita. Giovanna chiede fin da subito di incontrare la zia ottenendo la possibilità di spostarsi negli spazi di una Napoli inesplorata, predisponendo del suo corpo e della sua posizione. È lo spostarsi fisicamente che le permetterà di relazionarsi con persone che le diventeranno familiari, ma soprattutto con i primi ragazzi con cui sperimenterà i primi giochi sessuali e il primo rapporto – un misto tra la voglia di scoprirsi senza interesse, la fascinazione per il proibito e l’ardente desiderio di abbandonare l’ennesimo fardello che la cultura patriarcale impone sul corpo delle donne: la verginità come valore da difendere. “Non appartengo a nessuno, Corrà” è una delle tante frasi con cui Giovanna sottolinea con decisione che è lei la prima a poter avere voce in capitolo sulla propria persona e che l’aver dato il consenso all’esplorazione reciproca dei propri corpi non determina legami né doveri da rispettare nel futuro.
La vita bugiarda degli adulti è composto da pagine intrise di rimostranza e risentimento dei personaggi femminili nei confronti dei maschi, educati fin dall’infanzia al dominio sulle donne, al giudizio feroce, a dividere in categorie, tra brave e buone, brutte e cattive. Mentre alle brave bambine si continua a chiedere la repressione dell’istinto, la compostezza, l’accondiscendenza anche di fronte ai torti sistemici subiti. Ma Giovanna non è una brava bambina, e al compagno che se la chiaverebbe ma solo con un cuscino sul viso risponde con una matita appuntita conficcata nel braccio. Sfido chiunque a condannarla.
Di cosa parliamo quando parliamo di Ferrante fever: perché è così difficile accettare che una scrittrice italiana abbia successo, e possa averne perfino di più all’estero
scritto da Francesco Chianese
Qualche mese fa ho partecipato a una giornata di studi sull’Amica geniale e la sua ricezione in Italia e fuori presso un’università americana, la California State University di Long Beach. Il tempismo è stato perfetto, perché pochi giorni dopo sarebbe uscito il nuovo romanzo di Ferrante, La vita bugiarda degli adulti, e pochi mesi dopo sarebbe stata messa in onda da Rai e HBO la seconda stagione della serie TV tratta dalla celebre quadrilogia. Ho esordito partendo da Napoli e dalla sua azione centrifuga, per sottolineare quante migrazioni contiene questa fortunata quadrilogia, un argomento a cui Tiziana De Rogatis, una delle principali voci critiche che si è occupata di Ferrante, ha dedicato un intero capitolo del fortunato Elena Ferrante: Parole chiave, che è stato appena tradotto anche in inglese.
Alcune di queste migrazioni riguardano i personaggi: non solo Elena che lascia Napoli per Pisa e Torino, ma anche Antonio Cappuccio, che va a lavorare in Germania. Altre migrazioni riguardano l’autrice e gli spostamenti attraversati nella sua biografia. Ci sono poi le migrazioni che mi interessano di più, quelle che ha compiuto il libro, spostandosi attraverso le traduzioni in numerose lingue, su tutte quella inglese di Ann Goldstein che gli ha conferito fama internazionale. Migrando, la letteratura di Ferrante ha esportato un’idea di Napoli piuttosto originale e complessa, rispetto ai consolidati stereotipi, e allestito un immaginario globale che ha coinvolto lettori di ogni nazionalità, provenienza, genere, categoria. Una città con cui i personaggi sono costretti a confrontarsi ovunque si trovino, perché come leggiamo nella Frantumaglia: “Con Napoli, comunque, i conti non sono mai chiusi, anche a distanza”.
Partiamo proprio da quest’ultima migrazione, quella del libro, per chiarire cosa si intende con questa Ferrante fever. Infatti, l’aspetto straordinario di Ferrante non è tanto il fatto che se ne parli nelle università di Regno Unito e Stati Uniti, dove appare di frequente anche nei corsi di letteratura italiana che vi sono insegnati. O almeno, non appare straordinario all’estero, mentre in Italia la maggior parte della critica è ancora intenta a stupirsi per il fatto che questa autrice sia oggetto di dibattito e abbia prodotto in pochi anni una bibliografia di un certo rispetto, piuttosto che a provare a capire le ragioni dietro il successo dei suoi libri. In realtà, al di là della qualità della scrittura e della narrativa, che può essere oggetto di dibattito, quello che colpisce di Ferrante è il fatto di essere diventata contemporaneamente in brevissimo tempo un fenomeno dentro e fuori l’accademia.
Proprio qui sta la natura inspiegabile della Ferrante Fever, dicitura ripresa in un documentario di Giacomo Durzi, in cui a esprimersi in favore di Ferrante sono scrittori come Jonathan Franzen, Roberto Saviano e Nicola Lagioia, direttore del Salone del Libro di Torino. Proprio Lagioia ha scritto: “Elena Ferrante in questo momento negli Stati Uniti è diventata più famosa di Philip Roth. Questo è meraviglioso. Al tempo stesso trovo assurdo che siano gli italiani a non capacitarsene. La fortuna de L’amica geniale ha riaperto l’interesse degli americani per la nostra letteratura, ma la ridicola avversione che nutriamo per il successo dei connazionali ci impedisce di indagarne a fondo il valore”.
Quando nel 2015, Ferrante è stata candidata allo Strega, l’avversione prodotta dalla sua candidatura ha cominciato a costruire un fronte contrario di sostenitori e sostenitrici dell’autrice, inclusi scrittori come Lagioia, mentre un gruppo internazionale di studiosi e studiose si sono riunite intorno a De Rogatis e al suo provocatorio articolo “Chi ha paura di Elena Ferrante?”, dedicando un numero monografico della prestigiosa rivista letteraria Allegoria interamente all’autrice. Imponendosi sul mercato anglofono, tradizionalmente chiuso alla letteratura in traduzione, Ferrante ha spianato la via a un’intera generazione di scrittrici italiane, i cui libri vengono subito opzionati dagli editori stranieri, e si guadagnano le prestigiose pagine letterarie del Guardian, del New York Times, e di riviste autorevoli quali il New Yorker e l’Atlantic.
Ma neanche le migliori intenzioni dei sostenitori di Ferrante in Italia possano lasciarci capire quanto il fenomeno sia radicato all’estero. La sera stessa in cui ero in California, al Target di fronte al campus, chiacchierando con la ragazza alla cassa, che riconoscendo il mio accento non esattamente americano mi ha chiesto da dove venivo, le ho risposto che ero italiano, originario di Napoli. Quando le si sono illuminati gli occhi, mi aspettavo l’ennesima esaltazione della pizza o del gelato, e invece ha cominciato a parlarmi di Ischia. C’era stata perché voleva visitare i tutti posti che aveva letto in un romanzo di una scrittrice napoletana che si chiama Ferrante. Anche il mio primo incontro con l’Amica geniale è avvenuto fuori dai confini patri, mentre parlottavo con una ragazza inglese in un viaggio tra Bristol e Londra di questo libro che leggeva accanitamente sul kindle. Con lo snobismo dell’intellettuale italiano medio, le avevo sorriso, alzando poi il solito sopracciglio quando era tornata con gli occhi sul kindle. Una cosa che pochi mesi dopo non mi sarei perdonato, vedendo che Ferrante era stata invitata a tenere una rubrica in prima pagina proprio sul Guardian.
Un’immagine degli ultimi episodi della serie HBO-Rai, qualche giorno fa, mi ha riportato alla mente un passaggio che mi è rimasto impresso nella lettura del libro. Quella di Elena sul treno diretto a Pisa, gli occhi che guardano fuori dal finestrino i palazzi del rione che rimangono indietro mentre lei procede sulla rotaia. È la prima volta che Elena prende il treno e varca i confini regionali per spingersi così a nord. Sullo schermo come nel libro, quella immagine mi risveglia il mio primo viaggio oltre i confini di Napoli, proprio a Pisa, per un esame di dottorato in quella stessa università. Negli occhi della brava Margherita Mazzucco, ritrovo quella sensazione inebriante di un mondo totalmente nuovo che ti si apre davanti, che allontana di colpo la pesantezza che Elena desidera lasciarsi alle spalle. È un esempio tra tanti che ho attinto dalla mia storia personale, non per narcisismo ma perché illustra come il microcosmo allestito da Ferrante si apre offrendo spazi di condivisione per tutti i lettori che vi ritrovano aspetti della loro identità, e questo specificamente riguarda la mia.
Infatti, il meccanismo narrativo perfetto orchestrato da Ferrante fa sì che nella complessità dell’affresco descritto, che si allarga circolarmente intorno alle due protagonista – il rione, Napoli, la provincia napoletana estesa, Pisa, Bologna, Milano, Torino, Parigi e la Germania – ci sia qualcosa che riesca a toccare nel profondo ogni individualità che vi si confronta, perché ognuno di noi si porta dentro delle storie che risuonano con quelle di Elena e Lila. Sono storie che raccontano un ampio ventaglio di tipologie di sofferenza, che spesso si costruiscono in opposizioni che si bilanciano a vicenda: la violenza domestica, ma anche quella del quartiere, da cui siamo aggrediti quando usciamo di casa; la difficoltà di chi cerca di emanciparsi dalla miseria in cui si è cresciuti allontanandosene, e quella di chi cerca di trovarvi la propria dimensione senza abbandonarla; la tossicità delle relazioni affettive troppo soffocanti, e il momento in cui ci confrontiamo con persone a cui non siamo capaci di legarci.
E poi ci sono cose che restano intraducibili a parole ma che magicamente sono comprensibili a qualsiasi lettore: per esempio, la smarginatura. In inglese, questo concetto viene descritto come “dissolving margins”. Nonostante la frattura che si apre tra le parole, un lettore di Ferrante di Napoli, uno di Milano, uno di Parigi, uno di Londra e uno di New York lo associano a quella medesima sensazione di sfasatura col mondo che tutti abbiano più o meno provato nella vita, e che nel realismo magico di Ferrante mette in comunicazione il personaggio con il tutto e il niente del suo muoversi fuori sincrono rispetto al contesto. È il momento in cui la Ferrante fever ci infetta e ce ne chiede ragione. A pensarci, le nostre vite sono tutte una smarginatura nei confronti di un’idea di normatività che continua a esserci imposta e di fronte a cui ci troviamo inadeguati. Come accade a Elena e Lila, a fasi alterne, in modalità che a volte si oppongono, altre si affiancano, altre si sovrappongono, come accade nelle relazioni con le persone a cui ci leghiamo intensamente, come capita nelle poche amicizie che portiamo avanti per tutta la vita.
Per questo la Ferrante fever ci riguarda tutti. Per la capacità di tradurre facilmente sulla pagina questa complessità, Ferrante merita tutto il successo che ha, che ha avuto, che avrà. Perché ci ha restituito la capacità di parlare di letteratura con lo stesso coinvolgimento, sia che ci troviamo in una libreria, in un’aula universitaria, in un grande magazzino, in un autobus, o al Circolo dei lettori, riconosciamo che la Ferrante fever non si limiti a un fenomeno di feticismo di superfice, ma che ci infetta in profondità.