«Lo spazio non si chiede, si prende».
Qualche anno fa ho letto questa frase da qualche parte. Chissà se Britney Spears sarebbe d’accordo, una che certo non aveva bisogno di mendicare spazio, eppure glien’è stato tolto un bel po’.
La parabola di Sua Maestà Britney Spears è il fil rouge invisibile e sincretico che lega le storie narrate in Spezzate, edizioni Tlon, uscito in Italia questa primavera. La bacchetta magica da cui esce questa carrellata di disastri ferroviari in carne e ossa – le trainwrecks – è quella di Jude Ellison Sady Doyle. Il libro in America uscì nel 2016, una datazione importantissima, e cercheremo di capire assieme il perché. E precede Mostruoso femminile, uscito qui invece lo scorso anno. No, il tempo non è un cerchio piatto che vuole fotterci. E vi dimostrerò perché.
La trainwreck è una donna, celebre, che deflagra. È il mito che l’industria culturale ha inventato per tenerci al nostro posto. Si sa siamo animali narranti. Abbiamo bisogno di raccontare delle storie. E però queste finiscono spesso con la morte di una donna, che deraglia dal tracciato prestabilito, per l’uso di droghe, condotta sessuale “sregolata”, per miseria, e naturalmente, per pazzia.
«Sul piano culturale l’aggettivo “pazzo” fa il suo sporco lavoro […] Lo si usa se si vuole ridurre qualcuno al silenzio, o se si vuole privarlo della sua soggettività».
Il New York Times parlava di Paris Hilton e la diffusione di un suo video porno su internet. La questione è stata un case study per penne ben più affilate della mia.
Britney dopo il suo crollo nervoso a fine anni 2000, giudicata incapace di intendere e di volere dal tribunale, ha dovuto subire il controllo paterno per ben tredici anni. Oggi sappiamo quasi tutto di questa storiaccia, così al grido di #freebritney ci siamo emendati dalla colpa di aver gradito lo spettacolo pubblico della sua crocifissione. Come dice Doyle, «fare di una donna una trainwreck può rovinarle la vita; a volte, può addirittura porre fine alla sua vita». L’unica differenza tra Marilyn Monroe, Amy Winehouse, Whitney Huston, e Brit, è che lei è ancora viva. Uno sgarro, quasi un affronto, all’assioma che determina le coordinate nella quali si muove la trainwreck: deve morire. O quantomeno, deve perdere tutto ciò che di bello conserva ancora: amore, bellezza, rispetto.
Le storie delle trainwrecks ricordano quasi quel filone cinematografico che va sotto il nome di rape&revenge. Ne parla non a caso Doyle in un’intervista recente. Il fascino che questo tipo di narrazioni esercitano sul pubblico maschile, risiede tanto nello stupro, quanto nella vendetta: prima guardano una donna che viene violata e godono di quella violenza brutale, poi assistono alla sua furia abbattersi sugli oppressori, e così possono scrollarsi di dosso il peso di aver gradito lo stupro.
Qualcosa di molto simile alla fatale, magnetica, attrazione che proviamo per gli incidenti stradali.
Doyle scrive Spezzate nel 2016, anno in cui si consolida internazionalmente il movimento globale di NON UNA DI MENO, seguito a ruota dal Metoo nel 2017. E sì, dall’elezione di Trump alla Casa Bianca, ma questa è una storia che racconterò un’altra volta. Le rivendicazioni che si intrecciano sono relative alla visibilizzazione della violenza patriarcale e della cultura dell’abuso sistemico, nel privato, quanto nel pubblico. È la quarta ondata del movimento transfemminista che comincia a gonfiarsi. Il 25 Novembre del 2016 in Italia ci sarebbe stata la prima mobilitazione massiccia di NUDM. Il 13 settembre 2016 si suicidò Tiziana Cantone, dalla cui vicenda, ancora oggi ricca di incongruenze e ombre, sarebbe nata la legge contro il revenge porn, solo nel luglio del 2019.
Tiziana, vittima della violenza patriarcale culturale collettiva; istituzionale, che non riconosceva il reato colpevolizzando la vittima; capitalista, che la condannò a risarcire le spese legali di Twitter, Yahoo!, Facebook, YouTube e Google. Ricordo come fosse ieri i gadgets che furono venduti ovunque su internet, richiamando le parole che Tiziana pronunciava nei video.
Quell’aggiunta dell’h finale, vi ricordate, no?
“Stai facendo il videoh? Bravoh!”
Quella “h” è entrata nel linguaggio colloquiale di tutta Italia. La vedo ancora oggi rimbalzare qualche volta, solo che forse non molti parlatori sono consapevoli dell’archeologia linguistica che la sottende. Mi spiace doverla rammentare a tutti.
Ricordo perfettamente la rabbia viscerale di fronte alla calunnia pubblica di quella donna, il cui pubblico stupro sotto gli occhi di tutti nessuno all’epoca era in grado di vedere. Anzi, pareva del tutto normale doverci fare la scarpetta.
Oh toh! Una donna che scopa e si diverte. Uccidiamola!
La criminalizzazione del sesso. Il sesso come arma di controllo patriarcale e capitalista. Il sesso e la gioia femminile, unico vero mostro semiotico – non me ne voglia Deleuze – con cui l’assioma misogino del nostro linguaggio non riesce a fare i conti. Ricordo persone sui social tra i miei conoscenti e non, aver scritto cose di una crudeltà inaudita. Che oggi forse avrebbero il coraggio di affermare solo sotto stretto anonimato. E ricordo la mia reazione brutale.
Tiziana era ancora viva, e io scrissi un post dove sostanzialmente parlavo di tagliare cazzi a destra e manca, reagii alla maniera di Valerie Solànas. Soltanto che sentii anche l’esigenza di chiarire che Tiziana era sta stupida. Ed è esattamente qui che si innesta il lavoro di Spezzate. L’industria narrativa della trainwreck non serve solo al godimento misogino sublimato che intossica il linguaggio. Ma ha una funzione molto più importante: è un dispositivo disciplinante, attraverso cui insegnare alle donne (!) come reagire di fronte a uno stupro, a una violenza, a un abuso.
È stata colpa mia.
È stata colpa sua.
«La cultura pop è il nostro sogno collettivo», scrive Doyle.
Nel nostro inconscio è ben presente il topos della trainwreck: é quel treno progettato per deragliare dalla misoginia stessa. «Spezzate parla di ciò che la misoginia fa alle persone – le ferisce e poi le punisce perché soffrono; le uccide e poi le loda perché rimangono morte».
Tutto ha origine con un furto. Purtroppo, dalla mela di Eva ad oggi. Ci stanno ancora punendo.
L’accumulazione originaria della narrazione patriarcale.
A me, mentre leggevo, è venuta in mente Bertha Pappenheim. L’Anna O. che Breuer ghosta dopo la scoperta del trasnfert, e il furto del lavoro inconscio (e del nome). Oppure Charcot, che inventa l’isteria e la espone come forma di spettacolo pubblico a la Salpêtrière di Parigi. ll potere psichiatrico e la sua facoltà di produrre incantesimi e mitologie è uno dei più potenti dispositivi nelle mani del capitalismo: ruba il lavoro inconscio, come il capitale quello operaio.
Questa funzione mitopoietica delle storie e del linguaggio, è usata dal potere, massimamente nel campo medico, e naturalmente politico (letterario!). «Vuol dire essere esposti a un’intimità non richiesta, ostile e pervasiva, vedere estranei che rivendicano la proprietà del tuo corpo (e dei tuoi pensieri n.d.r), della tua storia sessuale e medica, della tua vita».
Perché ci piace tanto vedere una donna che “sbaglia”, che deraglia dal tracciato, e godere della sua sofferenza? Perché la donna pop star, scrittrice, rivoluzionaria, schiava – tutte figure che Doyle analizza del testo – deve subire la pubblica gogna, lo stupro collettivo della storia. Perché ha osato sfidare Dio. Si fa presto a dire che Dio è morto. Ci rimane il suo spettro, e si sa, gli spettri un pochetto di paura la fanno, e poi hanno quelle qualità da poltergeist così tipiche della cyborgsfera: sono invisibili, senza nome o innominabili, cosicché difendersi è un’impresa più che umana, impossibile, divina. Non si può che fallire. Oppure?
Com’era quella storia che il privato è pubblico? Forse sarebbe meglio dire che il personale è politico. «Finché esiste una sfera pubblica, esistono donne che tentano di accedervi e che sono punite per questo. L’ardire di essere ascoltate è ciò che accomuna tutte le trainwreck».
Doyle ci racconta le vicende di Mary Wollstonecraft, autrice di Sui diritti delle donne, 1792; ci racconta i tormenti delle sue vicissitudini amorose – e sessuali – usate dai suoi detrattori per delegittimarne la voce.
La trainwreck è colei che infrange sistematicamente le regole del gioco, inorridisce, turba, attira su di se gli anatemi di tutti, incarna la forma di sovversione più pura. Rovescia continuamente le carte. I racconti delle figure politiche sono per me i più emozionanti: da Thèroigne e Maria Antonietta, a Monica e Hillary. E sì, poco importa se una era una monarca e l’altra una wasp. Anche perché le “cattive compagne” o “cattive rivoluzionarie” non se la sono passata meglio, anzi, hanno subito le punizioni più truculente.
«Una trainwreck viva è un affronto; una trainwreck morta è una conferma. Nessuna può essere così bella, attraente, realizzata e libera: ci deve essere qualcosa che non va; bisogna che paghino le loro trasgressioni con la vita. Condurre queste donne fino al collasso emotivo o mentale non basta a dissuadere le altre dal diventare come loro o dal desiderare una partecipazione libera e paritaria alla sfera pubblica. Per essere sicuri che il messaggio sia chiaro abbiamo bisogno di far cadere delle teste».
Che ne dite di Olympe de Gauges? Doyle non ne parla. E mi ricordo che il mio manuale blu di storia al liceo le aveva dedicato esattamente tre righe. Scrisse la Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina nel 1791, un anno prima di Mary. Olympe è forse la prima femminista intersezionale della storia. A Parigi si appassionò particolarmente al teatro, e frequento artisti e intellettuali del tempo. Sapeva a malapena leggere e scrivere per cui scrisse, in dettatura, una ventina di opere per il teatro, oltre a una sessantina di testi politici. Alla causa delle rivendicazioni femministe legò sempre la questione dell’oppressione razziale e della schiavitù, fu molto vicina alle posizioni abolizioniste di Jacques-Pierre Brissot.
«Trattano questa gente come bruti, esseri che il cielo ha maledetto. Un commercio d’uomini! Gran Dio! E la natura non freme? Se sono degli animali, non lo siamo anche noi?».
Ne fece l’argomento di Zamore e Mirza, rappresentata alla Comédie Française, nel 1785. La prima fu un delirio di pubblico, che si divise aspramente sul tema. Il timore era che l’opera potesse provocare un’insurrezione nelle colonie. Così, fu prontamente ritirata dal repertorio. Fu attaccata su tutti i fronti, accusata di occuparsi di argomenti che non le competevano o che non comprendeva abbastanza bene; e per il suo stile, ritenuto troppo diretto. Olympe rispose a questa maniera: «devo ottenere un’indulgenza plenaria per tutti i miei errori che sono più gravi che leggeri: errori di francese, errori di costruzione, errori di stile, errori di sapere, errori di interesse, errori di spirito, errori di genio. In effetti non mi è stato insegnato niente, faccio un trofeo della mia ignoranza».
Naturalmente si sprecano gli aneddoti sul suo libertinaggio. La passione per gli ideali illuministi non le impedì di constatare una profonda e radicata misoginia negli ambienti radicali. Le donne erano comunque relegate ai margini della società pubblica, prive del diritto di voto e dell’accesso alle istituzioni pubbliche. Olympe, per far sentire la sua voce, inondò di petizioni i deputati e l’uditorio. Fu anche tra le prime persone promotrici di un sistema di welfare, formulando a grandi linee un sistema di protezione materna e infantile, e proporrà la creazione di alloggi per i non abbienti e di ricoveri dignitosi per i mendicanti.
Inoltre intraprese una battaglia sulla mancanza di adeguati standard d’igiene negli ospedali: a Parigi una donna su quattro moriva di parto in seguito a infezioni. Si schierò contro la prigione per debiti e la consuetudine di imporre il convento alle giovani donne senza dote. La stampa spesso commentava con ironia le sue iniziative, dileggiandola con tutti i tradizionali argomenti di una misoginia dura a morire.
Veniva sminuito il suo lavoro e si cercava di farla passare come un’esaltata da cui tenersi alla larga.
Dopo un processo-farsa in cui non le fu concesso alcun difensore: “Avete abbastanza capacità per difendervi da sola”, le dissero. Arrivò impietosa la ghigliottina del dio pagano della Rivoluzione, Roberspierre.
Dopo la decapitazione, il procuratore Chaumette dichiarò:
«Ricordate l’impudente Olympe de Gouges […], l’aver dimenticato le virtù del suo sesso l’ha condotta al patibolo. Quello che noi vogliamo è che le donne siano rispettate, ed è per questo che le forzeremo a rispettarsi loro stesse».
La parabola di Miley Cyrus, di Paris Hilton, di Brit, ci racconta la storia di una vittima che diventa carnefice, la storia di corpi che si bramava possedere, a tutti i costi, giustificando un furto, un crimine. Corpi che, se esposti intenzionalmente, ecco che diventano minacciosi, orrorifici, spaventosi. Perché non se ne dispone più del controllo.
Mary Wollstonecraft, per via di una relazione tossica con lo scrittore americano Imlay – altrimenti detto “la più grande merda di tutti i tempi” – tentò il suicidio due volte, una volta ingerendo del laudano, e la seconda gettandosi nel Tamigi. Morì più in là per complicanze dovute al parto, non prima di dare al mondo Mary Shelley.
Tanto conservatori, quanto progressisti si sperticarono nel condannarne le gesta. Fioccarono i romanzi destinati ad un pubblico femminile con femministe mangiauomini dall’appetito sessuale pantagruelico.
Come Mary che si finge intelligente, ma aspetta solo che qualche maschio la noti, come ebbe modo di scrivere in forma poetica Robert Browning, a quasi cento anni dalla morte. Un modo molto sofisticato di darle della troia. Quindi Mary, la pazza, la sessuomane, la buffona. Nessuna brava femminista deve essere come lei, non importa se siano state Mary e Olympe ad aprire la discussione sulla questione femminile. Hanno deragliato, l’unica misura virtuosa di partecipazione alla causa femminista che le spetta è partecipare attivamente alla loro stessa umiliazione.
E quella mattacchiona di Courtney Love? Oh, se è vero che Kurt Cobain è l’evangelico lumpenproletariat da rifuggire, certamente Courtney doveva essere la peste. Sì, solo una scalatrice sociale, lo aveva sposato solo per fare carriera, e gli rubava le canzoni; e poi si, diciamolo, era una madre di merda. Una drogata. Come Whitney, vittima del crack. O della violenza domestica. Come Billie Holiday, vittima della cirrosi e dell’eroina. O della violenza istituzionale della polizia e degli ospedali.
Bè di certo, mai, mai, mai ripetere le gesta criminali di Valerie Solanàs. Pazza e assassina. Sparò a Andy Warhol che – con abile manovra di gaslighter provetto – aveva semplicemente dimenticato nel cestino della monnezza la rappresentazione teatrale che Valerie sperava leggesse. Valerie brillante ragazza queer, che soffriva di crisi nervose, proprio come Lou Reed, un altro amico di Andy, solo che Lou diventò una star. Valerie, una pazza criminale.
«Eppure sarebbe davvero singolare se qualcuno venisse da voi a dirvi che il famoso assassino, William S. Burroughs, è anche uno scrittore».
Conosco una serie di tizi con amici famosi. Tra questi, una volta c’è stato uno che detto una cosa che suonava un pò come “c’è chi non ha bisogno di sgomitare, per farsi notare”. Chissà che ne direbbero Valerie; Harriet Jacobs; Sylvia Plath; le sorelle Bronte; Mary e Olympe. Harriet Jacobs, che racconta la sua schiavitù, le continue minacce di stupro, di tortura, e di morte, per se e per i figli. Che si è nascosta per sette anni in un sottotetto, per fuggire le angherie del suo padrone. Il cui vissuto traumatico, raccontato in Vita di una ragazza schiava è stato continuamente invisibilizzato e invalidato, dal sospetto che fosse l’opera della sua editor bianca. Harriet che ha affrontato l’inferno, il ricatto, e la violenza brutale della schiavitù, ha paura di essere schernita dalle persone istruite, perché non sa usare bene la punteggiatura. Perché le donne vanno usate, scopate, umiliate, ferite, uccise, abbandonate. D’altro canto è semplice, basta costruirne una narrazione catastrofica; medicalizzare la loro devianza. Ma non vanno mai ascoltate, tantomeno credute. Chi non ha bisogno di sgomitare, per farsi notare.
Certo, un talento talmente luminoso da essere praticamente impossibile da ignorare. Un po’ come le note a piè di pagina di David Foster Wallace. O la dickpic di un cazzo di discrete dimensioni. Wallace autore geniale, sontuoso, elegante. Il cui suicidio lo lancia come uno shuttle nel pantheon dei mostri sacri letterari. Plath, isterica, erotomane, la feccia delle madri, violenta, instabile, nella vita e nel verso, suicida. Condannata all’inferno dei mostri letterari. E della follia. Sylvia Plath che anticipò tutti i temi del femminismo di seconda ondata con la sua poesia, prima che ci fosse un movimento a sistematizzarli.
L’odio che investe la trainwreck facendola deragliare, e la battezza come capro espiatorio collettivo non risiede però, a bene vedere, nella sua mostruosità, quanto piuttosto nella sentinella di umanità che rappresenta. Se da una parte è ciò che serve per insegnare alle donne cosa odiare, e cosa rifuggire, di se stesse, proiettandolo su una figura feticcio. D’altra parte è la dimostrazione matematica che il femminismo non bisogna praticarlo quando è facile, ma ancora più intensamente, quando è difficile.
Queste non sono solo storie di sessismo, una parola miope che non preferisco. Queste sono storie di misogina, che è un affare più remoto e complesso, la cui matassa è ben lungi dall’essere sbrogliata. Le cui origini possono rimandarsi nel tempo breve, alla lotta per il controllo del sapere e della ricchezza. Sto parlando della caccia alle streghe, della nascita delle università, dello stato moderno e del capitalismo. Chissà com’è che nei libri di storia liceali che ho letto (beneamati!) ci sono interi paragrafi sul martirio di Giordano Bruno, arso vivo. E qualche paragrafo un po’ strumentale su quello che fu un genocidio: la caccia alle streghe. C’è qualcosa di molto più grande, che si perde nella notte dei tempi. E certamente, nel mito. La misoginia è l’Atlante che regge la volta del cielo dell’omo-lesbo-bi-transfobia. Se non abbattiamo e decostruiamo la misoginia dalle sue più oscure radici, è difficile che vedremo finalmente il cielo cadere sulla terra.
Da una prospettiva transfemminista oggi, io credo che abbiamo bisogno di recuperare molte lezioni del femminismo di seconda ondata, ed elaborare un operaismo dell’autocoscienza. Perché nessunə va lasciatə indietro. Ce lo ha insegnato la storia di Cloe Bianco. E la ultima trainwreck, Amber Heard, il cavallo di ritorno del Metoo chiesto al patibolo dal patriarcato. Se il talento di queste donne celebri non le ha protette dal pubblico stupro. Come possono Tiziana, o Cloe, sperare semplicemente di rimanere in vita. Oggi più che mai abbiamo bisogno di un’autocoscienza transfemminista militante.
Questo vale a dire ricreare quegli spazi fisici di incontro non solo supportivo e confessionale, ma scientifico, per raccogliere materiale più accurato possibile. Come ricorda Doyle nel testo, ripercorrendo la prassi dell’autocoscienza nei movimenti degli anni ’70. Lasciare una ferita aperta continua in cui ognunə possa prendere la parola e dire al flusso collettivo chi siamo, cosa desideriamo, cosa temiamo e perchè. Questo significa che tutta la letteratura medica, filosofica, scientifica va alla malora se un gruppo di donne e di persone trans, in ogni spettro e intersezione possibile, prende la parola, e ciascunə di essə fonda il suo entitlement e il suo stato di espertə semplicemente essendo chi è. Il nemico non sta solo nella narrazione e nella violenza istituzionale. Il nemico, a volte, è il femminismo che arriva troppo tardi. Anche negli ambienti radicali. Sovvertire e creare nuove mitologie, a partire dalla complessità delle nostre contraddizioni, incrociando le lotte, e non dividendole. Mettendo al cuore dell’azione i principi dell’antifascismo. So che il richiamo alla fisicità è un po’ out of fashion, io credo tuttavia sia una chiave importante per intrecciare e produrre le nostre storie, sottraendole al furto della medicalizzazione e della violenza istituzionale e capitalistica. La virtualità se aiuta a superare certe barriere e creare possibilità emancipatorie impensate, fino a qualche decennio fa, può trasformarsi senza autocoscienza in un caglio di fascismi.
C’è un passaggio di un’intervista a Bifo dei primi Duemila in un libro che ho letto ultimamente, fa così: «Solo l’amicizia, lo scambio incondizionato e senza contropartita, potrebbe salvarci. Ma quando in ogni nicchia si nascondono macchine da guerra, non è ancora tempo dell’amicizia».
Vi lascio con le parole di Thèroigne de Mericourt, rivoluzionaria giacobina, che andava in giro in abiti maschili. Si scontrò con il Golem della Rivoluzione, per la quale il femminismo semplicemente non esisteva.
Finì i suoi giorni a la Salpêtrière, naturalmente. Theroigne denunciò le insensatezze intestine al movimento rivoluzionario, fu tacciata di centrismo, e frustata quasi a morte, fu Marat a salvarla. E fu frustata dalle compagne.
«Ho lasciato la Rivoluzione senza troppi rimpianti, poiché ogni giorno subivo una qualche molestia nei pubblici saloni dell’Assemblea Nazionale; c’era sempre qualche aristocratico che riversava su di me il suo sarcasmo, offeso dal mio zelo e dalla mia schiettezza […] mentre i patrioti, anziché darmi manforte e trattarmi in modo giusto, mi ridicolizzavano. E’ la verità, pura e semplice.
Ero dunque, per così dire, disgustata».