a cura di Elisa Lipari
Negli ultimi mesi l’emergenza collettiva ha generato una richiesta reciproca tra le parti che compongono la società. Dalle istituzioni ai civili e tra la collettività stessa si è portata avanti un’incessante e necessaria richiesta di autodisciplina: rimanere nelle proprie abitazioni il più possibile, ridurre al minimo i contatti con gli altri, un rispetto reciproco delle distanze per ridurre la possibilità di contagio. Tante sono le riflessioni che questi mesi di distanziamento sociale hanno innescato, una su tutte sicuramente è la nostra attenzione nei confronti dell’altro, in questo momento sempre più preziosa e di vitale importanza; una nuova cura e rispetto reciproco delle distanze, degli spazi comuni, la consapevolezza di quanto un semplice gesto sia carico di conseguenze, di significato. Questo può essere il terreno fertile per gettare nuove norme comportamentali e per rivedere il nostro approccio civile nei confronti dell’altro e della collettività, non solo attraverso i gesti ma anche attraverso le parole che usiamo.
Sono innumerevoli le occasioni in cui non si presta attenzione alle parole che si utilizzano nel quotidiano. Molti modi di dire, intercalari, forme lessicali fossilizzate e parole usate per schernire portando avanti un linguaggio discriminatorio, abilista e sessista. Soprattutto quando parliamo del sessismo interiorizzato nella lingua parliamo “di una questione tutt’altro che superata”, come dice la scrittrice e sociolinguista Vera Gheno nel suo ultimo libro Femminili singolari, edito effequ. Femminili singolari è l’ultima impresa di Gheno oltre ad aver gestito prima per diversi anni il profilo twitter dell’Accademia della Crusca e ora quello di Zanichelli ha pubblicato diversi libri che potessero spiegare a esperti e non come funziona la lingua, come e quando la si protegge e quando invece in nome di una fantomatica integrità si finisce solo per impoverirla. Nel suo ultimo libro Vera Gheno si sofferma su una questione particolare, quella dei femminili professionali e la guerra senza fine che viene fatta ad ogni tentativo di ammodernamento e di inclusività linguistica.
L’introduzione di sostantivi femminili professionali non è una questione recente: uno dei primi documenti ad aver introdotto la discussione in Italia risale alla fine degli anni Ottanta. Nonostante ciò ancora oggi sia dal “parlante medio” che da diversi intellettuali e professionisti del settore alcuni femminili professionali sono definiti in maniera perentoria come cacofonici, scorretti, brutti e inutili. Scorretti perché se non esistono significa che non è corretto esistano, inutili perché non c’è bisogno di chiamare una professione al femminile per convalidarla, secondo molti. Vera Gheno in questo libro estremamente paziente e serafico passa in rassegna ogni critica di questo tipo e prova a rispondere e smontare con delicatezza ogni critica infondata che viene fatta contro l’utilizzo di alcuni sostantivi declinati al femminile. La pazienza è uno degli elementi che più emerge dalle pagine di questo libro: se leggendolo potrà sembrare a chi si occupa da tempo di questioni di genere e discriminazioni linguistica a tratti ripetitivo l’intento di Gheno è ben dichiarato: “sta a chi studia rispondere nel modo giusto con pacatezza, senza dare in escandescenza e senza togliere qualsiasi credibilità a un’istanza, seppur posta in maniera indecente, solo perché proveniente dal basso” perché “l’elitismo deve rimanere solo una brutta tentazione”. Vera Gheno dunque riporta in Femminili singolari raccoglie decine di critiche raccolte negli ultimi anni tra profili istituzionali e personali e prova a smontare con chiarezza ogni posizione infondata, ribadendo come una cantilena un concetto fondamentale: la lingua fluidamente muta in base ai parlanti e in base alle loro necessità. Se alcuni femminili professionali mancano non è perché sono grammaticalmente scorretti o brutti ma perché non c’erano donne a ricoprire precise cariche lavorative. Le critiche mosse a sostantivi come sindaca, ministra, architetta e molti altri sono infinite e sfibranti e la forza di Femminili singolari sta nel rispondere ad ogni opposizione senza improduttiva supponenza ma riportando la discussione su alcuni punti focali ben più rilevanti. Accettare l’utilizzo dei femminili singolari significa accettare le nuovi posizioni delle donne all’interno della società e del mondo lavorativo: non convalidarle solo in quanto mamme, maestre, infermiere ma lasciare solo la libertà di avere qualsiasi lavoro vogliano senza doverle schiacciare in un sostantivo maschile.
Cambiando la società cambiano anche le necessità e le sensibilità linguistiche e mai come in questo momento storico possiamo vedere nel quotidiano con quanta velocità le norme comportamentali possano cambiare se cambiano i bisogni e le richieste. Così come le nostre abitudini anche la lingua è tutto fuorché un sistema immutabile: cambia seguendoci come ci segue la nostra stessa ombra e se le donne lentamente stanno raggiungendo nuovi settori lavorativi la lingua che usiamo inevitabilmente le seguirà.