Dopo aver esordito nel 2018 con La terra dell’abbastanza, i fratelli D’Innocenzo hanno stupito Berlino con il loro nuovo lavoro, tanto da guadagnarsi un Orso d’argento per la migliore sceneggiatura. Favolacce offre uno spaccato della borghesia romana di periferia di cui racconta una quotidianità segnata da un dramma: la decadenza delle relazioni. Padri mai cresciuti, madri insicure e bimbi già adulti sono i protagonisti chiamati a dare vita a questa favola nera.
Spiati da un’inquadratura che sapientemente oscilla tra campi medi e primi piani, i personaggi presentano sin dall’incipit il marchio della tragedia. A partire dalle inquadrature iniziali, infatti, lo spettatore è trascinato dentro il vortice del canone tragico di cui l’inevitabilità della catastrofe è l’elemento portante. Questo presentimento accompagna ogni rito della quotidianità, come quello del pasto attorno al tavolo, un momento che nel film si eleva a simbolo di una noia coniugale irreversibile.
L’elemento che cattura lo sguardo dello spettatore è sicuramente l’apatia dei figli, i quali assomigliano a maschere inespressive, a marionette manovrate da mani violente, goffe, inadeguate. Al silenzio di questi genitori totalmente incapaci di comunicare con i propri figli si contrappongono le favolacce – ma è solo uno dei modi possibili per interpretare il titolo – di un maestro di scuola che istruisce i ragazzi su come orchestrare la fine della loro esistenza. Allora, sulla scia di questo ultimo insegnamento, i bambini obbediscono al richiamo della morte imboccando la strada della tragedia, preannunciata da inquietanti movimenti della macchina da presa. Come esempio si può citare il momento in cui la famiglia viene ripresa da lontano, quando l’inquadratura, sovrapponendosi allo sguardo voyeuristico di un ipotetico vicino di casa pronto a gustarsi il dramma, restituisce una famiglia inquinata da monotonia e insoddisfazione.
Uno dei punti di forza del film risiede nella contrapposizione tra una fotografia limpidissima e il silenzio inscalfibile di tutti i personaggi, nel contrasto tra un’atmosfera estiva modulata sul frinire estivo dei grilli e gli zoom su pupille annegate in un dolore quasi ancestrale.
Nonostante il dramma venga presentito dalle prime scene, l’epilogo della storia risulta spiazzante. Nel finale troviamo un padre, interpretato da un bravissimo Elio Germano, al cospetto della tragedia avvenuta. Non si sentono urla né pianto; assieme alla cinepresa, che per pudore non si avvicina ai corpi dei due fratelli, lo seguiamo in punta di piedi fino al letto coniugale, dove cerca di nascondere con codardia la tragica scoperta fino al mattino successivo, quando la moglie e madre dei bambini annegherà il silenzio nelle urla strazianti del proprio dolore.
Tra i pochi sorrisi, risulta folgorante, e sconcertante, quello della bambina poco prima di compiere l’atto finale: è il sorriso oracolare di chi ha già conosciuto tutto del mondo. E dal sorriso la contentezza passa poi agli occhi, in cui si avverte un puntino dove vibra una consapevolezza eroica, eccessiva.