“Penso che il rock ‘n’ roll moderno non goda di buona salute ormai da tempo. È afflitto da stanchezza, confusione e mancanza di coraggio e non ha più la forza di affrontare le battaglie che ha sempre combattuto”. Nella rubrica Red Hand Files, Nick Cave aveva risposto con queste parole a chi chiedeva cosa ne pensasse del rock ‘n’ roll contemporaneo.
Effettivamente ormai, della musica che più di 50 anni fa sconvolse una generazione, non sembra esservi più traccia. L’odierno panorama musicale è popolato da band che si ripetono all’infinito (vedi Muse e Kasabian), prive d’ispirazione. Allontanandosi però con decisione dal mainstream, giungendo nella Londra alternativa di Peckham, qualcosa di buono emerge.
Già con i primi due album, Champagne Holocaust e Songs For Our Mothers, i Fat White Family avevano fatto parlare di sé per le caotiche performance che ricalcavano il punk. Non c’era niente di attraente nella band di Lias Saudi e questo era il suo punto di forza. Ma per tutti i musicisti, con l’avvicinarsi del terzo album arriva il momento di reinventarsi, evitando così di essere sorpassati dalle nuove generazioni. Nel caso dei Fat White Family la necessità di rinnovarsi era stata però dettata da motivi diversi: la band stava per essere sovrastata dalla dipendenza da droghe dei suoi componenti.
Con la conclusione del tour in supporto a Songs For Our Mothers, il chitarrista Saul Adamczewski era stato allontanato dal gruppo a causa della sua grave dipendenza da eroina. Per registrare il terzo album, i restanti membri dei Fat White Family avevano abbandonato le tentazioni di Londra in favore della sonnolenta Sheffield, proibendo qualsiasi sostanza nello studio di incisione (erano ammesse solo anfetamina e chetamina per stimolare la creatività). Adamczewski si era riunito alla band soltanto 10 mesi dopo l’inizio delle sessioni di Serfs Up!.
Ad uscire fuori da questo periodo di reclusione è un album in cui le qualità compositive dei Fat White Family appaiono decisamente rafforzate: ogni singolo brano si insinua prepotentemente in chi ascolta. L’apertura è affidata a pezzi dall’impronta elettronica con il primo singolo Feet, seguito da I Believe in Something Better (scritta dal redivivo Adamczewski) e Vagina Dentata. In Kim’s Sunset, incentrata sulla potenza nucleare in mano al presidente nord coreano Kim Jong-un, la band si spinge verso sonorità a metà tra l’oriente e i Clash di Straight to Hell.
Nei brani Oh Sebastian, dove compaiono violini a cui si sovrappongono armonie vocali, e Rock Fishes, che procede seguendo una formula simile, il gruppo dimostra un’ecletticità di cui finora ci aveva tenuto all’oscuro. Fringe Runner, con quel basso viscido che domina la composizione, sembra iniziare là dove i Fat White Family ci avevano lasciato con Whitest Boy On The Beach.
A spiccare in Serfs Up! è il secondo singolo, Tastes Good With The Money, che suona come se fosse stato scritto dal fantasma di Marc Bolan. In questo intossicante pezzo, la band crea un’apocalisse sonora:
And all my faith, it slides right into place
The air up here so fresh and clean
People from nowhere make poison everywhere
Sketching ruins in the dark
Il brano è una pesante critica ad una società sempre più danneggiata dalla fame per il denaro; sullo sfondo arde la tragedia di Grenfell Tower che sconvolse il Regno Unito nel 2017. When I Leave e Bobby’s Friend concludono un album ambizioso e sofisticato.
In chiusura al suo commento sul destino del rock ‘n’ roll, Nick Cave aveva scritto: “Forse la musica rock ha bisogno di morire per un po’, in modo che qualcosa di potente, sovversivo e monumentale possa rinascere”. Quel qualcosa – aggiungo – potrebbero essere i Fat White Family.