Facciamo un giro sulla circumvesuviana / mentre il vulcano sputa questa luna piena
cantano gli Zen Circus ne Il fuoco in una stanza, uscito questa primavera come secondo singolo del disco omonimo. La circumvesuviana, per chi non lo sapesse, è una linea ferroviaria la cui prima tratta risale al 1884 e che nella sua forma attuale fa collegamento fra la città di Napoli e l’area che giace alle pendici del Vesuvio fino alla penisola sorrentina. Proprio nel piazzale di una delle sue stazioni, quella di Scisciano (a meno di mezzora di auto dal centro di Napoli) si svolge il Farcisentire Festival, giunto alla sua tredicesima edizione e che negli anni ha ospitato, tra gli altri, Amor Fou e A Toys Orchestra, Perturbazione e Calibro 35, One Dimensional Man e Il Teatro degli Orrori, e ancora Zu, Giorgio Canali, Giardini di Mirò, Massimo Volume e Marta sui Tubi, Motta e Iosonouncane, Fast Animals and Slow Kids e appunto gli Zen Circus che lo scorso anno si sono lasciati ispirare dal treno bianco e rosso che osserva tutti dall’alto del suo cavalcavia e da una luna piena che faceva capolino dietro la sagoma nera – temibile eppur familiare – del formidabil monte sterminator Vesevo.
In questa prima serata al nostro arrivo sale sul palco Gigante संगीत per confermare dal vivo quanto di buono è finora emerso dai primi ascolti del suo album d’esordio Himalaya. I nomi che più sono stati tirati in ballo sono quelli dei Beirut per le atmosfere etniche e un suono che pesca nella tradizione anatolica come anche quello piuttosto impegnativo di Iosonouncane per una certa capacità di mescolare un approccio quasi sacrale e una dimensione più squisitamente popolare (il didgeridoo di Guerra rimanda chiaramente a Tanca del compositore sardo). Lontano da paragoni più o meno centrati, quello di Gigante è un progetto che convince anche dal vivo: più ancora che i dettagli – che pure si fanno sentire – nel live set a colpire è la capacità di costruire una dimensione sonora, un’atmosfera che si espande in tutta l’area che risulta anche piuttosto greve e profonda ma non per questo meno affascinante grazie alla proposta di un impasto sonoro che mescola world music, synth pop e post rock e che non disdegna incursioni all’ukulele e addirittura una cover della sigla di Ken Il Guerriero che conferma le manifeste influenze delle musiche degli anime e suggella un clima da post apocalisse che ritorna nella bellissima e conclusiva Sopravvissuti.
L’attesa del pubblico è tutta rivolta a Lorenzo Urciullo, in arte Colapesce che si presenta sul palco quando sono ormai le undici e mezzo. Introdotto da Aziz, composizione elettronica del napoletano Mario Conte – vero leader di una band piena di giovani musicisti, che per il tour di Infedele si presentano vestiti in abito talare – Colapesce fa il suo ingresso in scena con una testa di pesce spada sulle note di Pantalica, il brano che ha segnato l’inizio della bella collaborazione con Jacopo Incani. A distanza di qualche mese dall’ultima volta in cui li abbiamo visti dal vivo, Lorenzo e tutta la band sembrano aver beneficiato delle ore trascorse insieme sui palchi di tutta Italia, dimostrando un equilibrio maggiore e una capacità molto più netta di stare dentro a pezzi così diversi tra loro con eguale efficacia.
Naturalmente il nuovo corso non ha escluso brani e atmosfere che fanno della ricerca sugli arrangiamenti una questione di sfumature e delicatezza come nella bellissima Vasco da Gama che è una sorta di Colapesce 2.0 – oggi capace di mescolare un’attitudine alle storie minime e senza tempo eppure trasfigurate sempre grazie al filtro del passato e al dono della fantasia, con soluzioni musicali più ardite – così come in Ti attraverso, sorretta dal piano di Conte e da una dolcezza fatta di piccole storie quotidiane di vita siciliana e di ritmi freschi da estate brasiliana. Ma stavolta è soprattutto nei pezzi più corali che il live decolla, come in Maometto a Milano che si fa travolgente nel finale con la poderosa sezione dei fiati guidata da Gaetano Santoro che richiama tutto un universo free da Ornette Coleman e Miles Davis fino ai Radiohead di National Anthem, con le chitarre dello stesso Colapesce e di Adele Nigro a rincorrere e la batteria a menare pesanti fendenti nell’aria. Colpisce la versione acustica di Segnali di vita di Franco Battiato e Colapesce dopo i bis di rito si concede un ultimo momento d’intimità fuori programma col pubblico, regalando una versione acustica – senza alcuna amplificazione – di Una distruzione di un amore, prima di raggiungere il banchetto del merchandising per autografi, foto e sorrisi.
Seconda serata. Un improvviso rovescio pomeridiano ha per un attimo fatto temere il peggio per la serata ma meteo alla mano, il cielo si annuncia sereno. Arriviamo nell’ampio piazzale proprio mentre i Dunk – il supergruppo formato dai fratelli Giuradei, da Luca Ferrari dei Verdena e Carmelo Pipitone de I Marta sui Tubi – stanno cominciando a occupare il palco. Stasera c’è gente con un’età media notevolmente più bassa di ieri, un pubblico fatto soprattutto di adolescenti o poco più che si aggirano sorridenti con i loro bicchieri di birra tra le mani, con gli zainetti in spalla e l’aria felice di scuole finite e vacanze alle porte. C’è chi già balla, chi si bacia in un angolo lontano da occhi indiscreti e chi lo fa in mezzo alla folla con l’amore a trasportarli in quell’universo parallelo dove tutto il resto del mondo non può esistere. Cadono improvvise le prime gocce di pioggia e si apre qualche ombrello tra i meno temerari ma saranno davvero poca cosa e saranno spazzate via dal calore della folla e dall’energia che si propaga dal palco. I Dunk sono in gran forma, spetta a loro soprattutto mantenere alto il vessillo di un certo rock nella tre giorni di questo festival che si adegua ai tempi proponendo un programma più orientato al pop e certamente non deludono le aspettative. La formula del gruppo – dopo tanti live – è ormai chiara: un equilibrio perfetto tra l’anima più cantautorale e sperimentale dei fratelli Giuradei e le incursioni rock e l’energia punk della coppia Ferrari/Pipitone. Adatti forse più a live in ambienti piccoli, dove far rimbalzare sui muri l’entusiasmo per i continui cambi di tempo, per il virtuosismo sciamanico di Ferrari (qui forse troppo in fondo sul palco), per la teatralità di Pipitone e la sensibilità dei Giuradei, su un palco così grande e illuminato da un imponente – mai come quest’anno – impianto luci, i quattro regalano al pubblico un’ora scarsa di musica, puntando intelligentemente su un suono più aperto e comunicativo da sanissimo rock che li trasforma quasi in arringatori di folle con il pubblico che li ripaga con affetto rispondendo con altrettanto entusiasmo a quello dichiarato dal palco.
Ci sono alcuni minuti di pausa nel cambio palco, e gli altoparlanti mandano un po’ di pezzi che non lasciano indifferenti il pubblico. Si va da Nove maggio dell’immancabile quanto misterioso Liberato alla Pesto di Calcutta – cantata a squarciagola dai ragazzi che sono seduti ai tavoli degli stand che sfornano a getto continuo panini e birre – da Occhiaie di Galeffi che sarà l’headliner della terza serata a Manzarek dei Canova fino a Sei la mia città di Cosmo, quasi a ridisegnare sulle teste dei presenti i confini di geografie immaginarie della nuova scena musicale italiana che, attraverso l’itpop e fenomeni contigui, ha riscoperto una sensibilità anni ottanta – musicale quanto sentimentale – abbandonando le strettoie dell’indie più riconoscibile e autentico per cercare – spesso con successo soprattutto di pubblico – di battere la strada del mainstream.
Ma è arrivato il turno dei Pinguini Tattici Nucleari in una serata che con i Dunk si àncora salda sull’asse Brescia-Bergamo. E sono un’insperata sorpresa. I ragazzi formano una band affiatata, con il cantante Riccardo Zanotti – cappellino e t-shirt a righe rosa e grigie – che scherza subito con una prima fila di freschi maturandi. Nati nel 2010 a Bergamo – e con un nome preso in prestito da una birra scozzese – snocciolano uno dopo l’altro i loro principali successi come Le Gentil un trascinante folk sporcato di disco music à la Chic con una spruzzata di Daft Punk o la filastrocca di Cancelleria che – come novelli Elio e le Storie Tese – permette loro di fare sfoggio di una grandissima tecnica, magari un po’ da dinosauri del rock che però i ragazzi portano sul palco come un gioco, in un’allegra messinscena capace di far emergere improvvise divagazioni progressive con il simpaticissimo Elio Biffi alle testiere e una coda che è un vero e proprio muro del suono grazie alle chitarre di Lorenzo Pasini e Nicola Buttafuoco. L’allegria di Tetris e la satira pungente di Me want marò back che il basso di Cristiano Marchesi e la batteria di Matteo Locati trascinano sul ritmo in levare di un reggae lento e ancora lo stoner rock venato di pop di Sudowodoo (dal nome di un Pokemon).
È tutto un mescolare alto e basso, riferimenti pop di ogni tipo che prendono forma in testi che solo apparentemente potrebbero sembrare patchwork nonsense e che invece – a differenza di molti altri colleghi – lasciano trapelare un’idea di mondo talvolta anche amara e colta, sorretta in ogni caso da una presenza scenica d’impatto e davvero da una resa musicale eccellente senza sbavature e con una grande capacità di restare compatti sui continui cambi di tempo che dimostrano, in alcuni pezzi più corali anche un alto livello acquisito nelle armonie vocali. Bagatelle è un incrocio tra uno spirito da primo maggio e le complesse ritmiche folk dei Mumford & Sons nella quale emerge una certa abilità nel prendere forme popolari per poi smarcarsene grazie a spostamenti impercettibili che finiscono però col fare la differenza. Ogni canzone è presentata da Riccardo che parla molto col pubblico come per Gioventù Brucata in cui chiede un pogo selvaggio ma umanitario “insomma se uno cade e si è fatto già male non gli saltate addosso, ecco” prontamente accolto dal pubblico cui chiederà anche di accovacciarsi a terra per poi esplodere saltando in alto “perché lo abbiamo visto fare agli Slipknot”.
Arriva anche il turno del cazzeggio puro con le canzoni da chiesa nel quale emerge un “divario culturale” tra le parrocchie del nord e quelle del meridione che però trova un punto d’incontro su un’inquietante Alleluia con tanto di coreografia stile YMCA. Si allontanano giusto un attimo per tornare per il bis, Irene, sicuramente il loro pezzo più bello e sarà forse un po’ il romanticismo a far sì che tutti per un attimo prendano gli smartphone fino a quel momento – vivaddio – ben riposti nelle tasche. C’è addirittura tempo per uno sconclusionato trenino che attraversa per pochi attimi la folla e, in fondo, non riesci nemmeno a pensare che sia tutto un po’ assurdo perché sarà anche naïf ma è genuino quello che ci sembra di cogliere negli occhi di questi ragazzini che ballano e si divertono senza chissà quali sovrastrutture, e non sappiamo dire se è una colpa che dentro di loro non nasca il desiderio di nuovi Clementi, Agnelli, Godano o Ferretti. Ma su quel palco stasera è salito senza equivoci un gruppo di ragazzi poco più grandi degli astanti che quel palco ha saputo tenerlo eccome, che ha fatto divertire divertendosi e con il merito di una strada artistica che l’alta qualità tecnica e di scrittura dimostra essere una scelta e non – come troppo spesso accade tra i colleghi – l’unica via obbligata dalla scarsità di mezzi. E non è poco tornare a casa con un sorriso anche un po’ ebete e un po’ di motivetti accattivanti nella testa.
Terza serata. Fasciata di nero, Katres si presenta sul palco con una band composta di due chitarristi, oltre a lei naturalmente, batteria e basso con alle spalle un perfetto equilibrio di uomini e donne. Dentro un filone che a diverso titolo può vedere inserite anche cantautrici come Maria Antonietta e Levante e che nei momenti più pop guarda con equidistanza a quello d’autore come a quello da classifica, Katres si distingue per un’anima mediterranea più accentuata e una bella capacità di stare sul palco. Ha una bella voce, chiara e potente che controlla tanto nei bassi quanto nelle note soffiate, senza alcuna preoccupazione nei falsetti come nelle note alte dei pezzi orientati più verso un rock pop aggressivo. Nata a Catania ma cresciuta a Napoli, i due poli per citare un’amica “dove chiunque dovrebbe avere il diritto di vivere”, Teresa – questo il suo vero nome – racconta storie quotidiane tinte di femminile in cui la donna è lontana da forzature neofemministe ma sempre con indomita rivendicazione di una condizione storicamente complessa: “Il cambiamento di una donna parte sempre dalla testa. Come se poi bastasse solo cambiarle forma, senza pensare al fatto che il contenuto resta. Nel cuore e nella testa.” Le doti musicali e la sua curiosità di musicista le consentono di attingere da una tavolozza espressiva piuttosto ampia come dimostrano le canzoni che propone dai suoi due album all’attivo (Farfalla a valvole e Araba Fenice) e c’è spazio anche per la cover – sentita e toccante – di Cu te lo dissi della grandissima Rosa Balistreri.
È il momento dei Viito, duo di stanza a Roma che, spiace dirlo, appare subito non convincente fin dall’inizio. Un cantato aspro che cerca di seguire le orme di Rino Gaetano e Vasco Rossi si staglia su arrangiamenti esili. Non aiuta – va detto – la grossolana ostentazione da rocker consumato con capelli lunghi e occhiali da sole che vorrebbe essere Jim Morrison a braccia aperte e finisce col sembrare un Ligabue di una periferia ancora più marginale di Correggio. Allo stato dei fatti, i Viito appaiono più come una band adolescenziale buona per feste di liceo che avrà davanti una lunga strada lastricata di studio, di approfondimento, di ricerca verso una propria sincera identità se davvero vorranno continuare il sogno di vivere di musica. Una festa è l’ennesimo pezzo che paga pegno a Luca Carboni e addirittura a Gianluca Grignani con il pubblico ancora più adolescenziale della seconda serata che canta a memoria il ritornello. Una riflessione sull’Italia esclusa dei mondiali con la richiesta di mettersi tutti la mano sul cuore per un abbozzo di inno di Mameli cade mestamente nel vuoto; non sanno i Viito che qui si tifa il Belgio del folletto “Ciro” Mertens, che si simpatizza per la Croazia della bellezza di Modric, che questa è terra di sconfitte e meraviglie, non ricorda cosa accadde la notte del 3 luglio del 1990.
Ha migliore effetto l’urlo per Scisciano con il cartellone che stasera sembra aver attratto soprattutto la gioventù indigena. Sistema solare – la prima canzone scritta non cambia di una virgola l’atmosfera generale. Per “ballare un po’” si gettano a capofitto in una cover di Non succederà più di Claudia Mori che vorrebbe essere un tentativo ska e si tramuta – loro malgrado – in un valzerino da banda popolare. Più che un’esibizione sembra quasi una parodia inconsapevole del rock’n’roll e quando subito dopo – al grido di “tutti dicono che il rock è morto, se adesso vi mettete tutti a pogare allora non sarà mai vero” – parte una cover – addirittura – di Lasciami leccare l’adrenalina degli Afterhours non sai se gridare al miracolo o al sacrilegio; la cover accennata subito dopo di Nessun rimpianto degli 883 fa decisamente propendere per la blasfemia. Non bastano Industria Porno (un Calcutta dopo una cura ricostituente), Lisbona, Bella come Roma per spazzare via l’ombra di una massa informe e indistinta di qualunquismo musicale.
Nuovo blocco di canzoni dalle casse, c’è Coez con La musica non c’è, La legge di Murphy di Cimini, 8 miliardi di persone di Frah Quintale, Vita sociale dei Gazzelle e – in questa serata fresca che libera i pensieri – si fa forte la sensazione che più che la celebrazione del singolo musicista, quello che conta nel panorama italiano contemporaneo sia piuttosto il movimento nel suo complesso. Movimento, va da sé, piuttosto disomogeneo portato avanti da una serie di ben note etichette che certamente sono riuscite a guadagnarsi il privilegio di imporre – se non precisamente un suono e uno stile – certamente un’estetica in senso ampio che ormai è difficile non riconoscere. Galeffi, scuderia Maciste Dischi (Gazzelle, Canova) rientra in pieno in questo discorso. Scudetto, pubblicato alla fine del 2017 – dieci canzoni per una mezzora di musica – è il disco che gli ha permesso di far segnare una lunga fila di soldout in giro per l’Italia. Occhiali, cappellino rosso su t-shirt arancione, calzini corti ben in vista, sale sul palco e snocciola il debole rosario delle sue canzoni: Tazza di te, Puzzle, Totti gol “dedicata al calciatore più grande di sempre…dopo Maradona”. Mentre canta di storie minimali senza grandi arrangiamenti, Enrica dal pubblico gli lancia una rosa con tanto di bigliettino con poesia d’amore che lo coglie quasi incredulo di tanto affetto. Pedalò è tenuta in piedi da una bella per quanto ripetitiva chitarra ritmica mentre appare in filigrana un altro dei padri – magari fratello – putativi della scena itpop – Cesare Cremonini – e davvero nessuno ce ne voglia ma è forte la speranza che il futuro della musica italiana possa essere altrove. Burattino, ballata melodica e delicata – cantata a gambe incrociate sul palco – culla il pubblico ed è il pezzo migliore finora anche se con quel titolo e a queste latitudini è difficile non pensare a uno dei dischi più importanti della musica italiana degli anni settanta. Pop Porno, cover de Il Genio viene trasfigurata a mo’ di marcetta dance, Polistirolo e Camilla vedono gli smartphone di tutto il pubblico puntati sul palco. Occhiaie – finalmente – merita attenzione ed è evidentemente il suo pezzo migliore per quanto in debito verso il Calcutta migliore e Giorgio Poi. Viene cantata prima dal pubblico, quindi a full band che fa molto effetto Lunapop. Prima del bis il pubblico in maniera estemporanea si mette a cantare Bella Ciao – che sembra fuori contesto ma di questi tempi certamente non guasta. La band ritorna per il bis di Uffa e mentre le luci si spengono e ringraziano il pubblico, parte dalle casse Un giorno migliore proprio dei Lunapop a conferma delle nostre intuizioni.
Si chiude così la tredicisima edizione di un Festival che combatte da anni la propria battaglia in un territorio piccolo con l’orgoglio di essere tra i festival tra i più longevi in Campania. Un’edizione che è stata un successo in termini di presenze ed entusiasmo, che ha aperto alle arti visive con un contest a celebrazione del pittore locale Ciccio Capasso e che ha saputo – soprattutto e ancora una volta – fotografare con precisione lo stato dell’arte della musica leggera italiana.